Gerardo Attanasio è, molto semplicemente, uno dei segreti meglio custoditi del cantautorato italiano. Se le mie parole vi sembrano un’esagerazione, allora evidentemente non avete ancora ascoltato I Canti dell’Ontano, disco che nel 2014 s’impossessò di una bella fetta della mia vita, accompagnandomi in lunghi “viaggi al termine della notte”.
Ma andiamo per ordine. Dopo il solito, adolescenziale apprendistato a suon di chitarra strimpellata e quaderni riempiti di versi, Attanasio iniziò a pensare che fare il cantautore poteva essere un’idea tutt’altro che disprezzabile. Messe giù le prime canzoni autografe, nel 2003 realizzò, con mezzi di fortuna, un primo demo, Partenze e ritorni, seguito, tre anni dopo, dal più intimista In due ore, registrato in presa diretta. Nel 2009, riuscì finalmente ad auto-prodursi un disco vero e proprio, Vivere lento, lavoro curato nei minimi dettagli ma ancora acerbo e poco omogeneo nella scrittura. In quei solchi (dedicati al vivere sincronizzato sui “ritmi della terra”), il musicista di Castellammare di Stabia si confrontava con i fantasmi di Fabrizio De André, Francesco De Gregori e Bob Dylan, senza disdegnare gli omaggi, più o meno velati, a poeti come Charles Baudelaire (“A colei che è troppo gaia”) o al nostro Dino Campana (si ascolti il testo di “La petite promenade du poète”). Nonostante i suoi limiti, quel disco lasciava comunque ben sperare per il futuro, soprattutto grazie a “Il tuffatore avventato”, brano di chiusura che si destreggiava tra delicatezze acustiche e vampe elettriche.
Sono anni, quelli, in cui il nostro cantautore passa moltissimo tempo nel suo studietto privato (il Blue Bell), registrando e manipolando suoni. Poco alla volta, si materializzano i dodici brani che andranno a comporre il mosaico de I Canti dell’Ontano, che trasforma i bruchi del disco precedente in splendide farfalle. Facendo leva su un gioco di parole che richiama l’avverbio di luogo ma anche uno dei tipici alberi che crescono sulle colline che abbracciano l’antica cittadina stabiese, I Canti dell’Ontano, anche grazie ad un pregevole lavoro in fase di produzione, trasforma ogni brano in un piccolo bosco di suoni e manipolazioni, immergendosi in un fiume di influenze che porta con sé le nitide immagini di Jorge Luis Borges e Cesare Pavese, le intuizioni sonore del Battisti di Anima Latina ma anche il ricordo di ascolti vissuti in diretta come quelli di Mellon Collie And The Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins o di OK Computer dei Radiohead. I primi due brani del disco (“Goofus Bird” e “Fortuna e la pioggia”) giocano la carta della ballata: la prima, robusta e corale, la seconda – guidata dal pianoforte – impreziosita dal primo grande ritornello del disco:
“E labbra rosse / prese coi baci, / mani che audaci / portano via. / La voglia incendia / la mia fantasia, / il filo rosso / di qualche allegria, / domani è tardi / adesso sei mia”
Un clarinetto ungherese dirada le nubi fosche dell’atavica malinconia che attanaglia “L’occhio del drago”, una malinconia che la bellissima “Mistral” trasforma in una toccante elegia fatta di orizzonti, tramonti e inquietudini e che, più avanti, “Notturno” provvederà a trasfigurare in dolce ninnananna. Ecco, dunque, “L’istinto” (cartolina folk-pop fatta di trascinanti cantilene e rapimenti celestiali, sulle orme dell’omonima poesia di Pavese), il pathos Arcade Fire di “Duramen” (con coda rumorista e catartica), l’incanto romantico, punteggiato dal vibrafono, di “Marilù” (“Stai col tuo cuore nei guai, / sembra un nido di rondini: / tornan sempre dai limiti / intrisi di ciò che sei”), l’orecchiabilità ariosa, in orbita primi Baustelle, di “Serenata per Kenny”, le perlustrazioni emozionali di “Champs Elysées” e la chiusa “sconfinata” di “Umor vitreo”, che si abbandona all’estasi della rimembranza.
Il brano a cui sono più affezionato, però, è “I bambini perbene”, un deliquio ipnotico che trascina l’anima verso la sua West Coast, lì dove il sole splende eternamente, come in un invincibile estate:
“Chiedi un occhio / che si sporga di più, / oltre il velo, / sopra il ciglio del mondo / e davvero / ti rilassi guardando lo schermo / o dimentichi il tempo disperso?”
I riscontri critici del disco furono più che favorevoli e Attanasio, ormai sicuro dei propri mezzi, si spinse, nel 2015, a musicare Dante nel brano “Amar perdona”, dove mise in musica alcuni famosissimi versi tratti dal Canto V dell’Inferno, seconda cantica della Divina Commedia. Con quel brano vinse, nello stesso anno, il Premio Lunezia, sezione “Musicare i poeti”.
Al momento, invece, Attanasio è alle prese con i brani che finiranno sul suo prossimo disco:
“Ci sto lavorando con la lentezza che mi contraddistingue. È un disco dedicato alla mia provincia e a molte delle storie che vi sono nate: dalle sirene alla storia di Don Catellino Russo, grandissimo velista. Lo scarto che c’è rispetto ai primi è che la maturità mi sta portando ad essere meno lirico e autobiografico. Sono diventato più epico e oggettivo. Scelgo con cura i personaggi da raccontare e ognuno è un pretesto per affrontare temi che mi aiutano a spiegare a me stesso molte cose del mondo.”
Hive Session
Gerardo Attanasio sarà il protagonista della Hive Session che si terrà Venerdì 20 Ottobre, nelle intime sale di registrazione della Hive Music Academy.