The Who (Parte 1)

All’inizio degli anni Sessanta, la carica di ribellione veicolata dal rock’n’roll consentì a tantissimi giovani inglesi di uscire dalle pastoie di una vita dimessa e ripetitiva. A un certo punto, la sottocultura dei Teddy Boys lasciò campo libero a due nuove realtà: quella dei Rockers e quella dei Mods. Se i primi si ispiravano alla figura del motociclista ribelle de Il selvaggio, il film del 1954 diretto da László Benedek e con Marlon Brando nel ruolo di capobanda, i secondi avevano come modelli di riferimento gli attori italiani Marcello Mastroianni e Gabriele Ferzetti, la cui eleganza e il cui atteggiamento da latin lover essi miravano a riprodurre vestendo giacche attillate a tre bottoni, cravatte sottili, pantaloni corti alle caviglie, impermeabili e anfibi Dr. Martens. Tra le loro passioni musicali, c’erano il rhythm and blues, il soul americano, il blue-beat1, mentre come mezzi di trasporto prediligevano la Vespa o la Lambretta, considerati come dei veri e propri oggetti da vestire o decorare con svariati specchietti, adesivi e via discorrendo.

A subire il fascino dei Mods ci fu anche il giovane Pete Townshend, che in essi vide una delle reazioni più potenti a quell’atmosfera di angoscia che, già da qualche anno, si era impadronita delle frange più giovani della popolazione inglese, il cui futuro era costantemente messo in dubbio dalla minaccia di una guerra atomica.

Pete Townshend era nato il 19 maggio del 1945, due giorni dopo la vittoria delle truppe alleate contro la Germania di Hitler. La sua era una famiglia in cui la musica aveva un ruolo di primo piano (suo padre suonava swing negli Squadronaires, sua madre fece per qualche tempo la cantante) e ciò ebbe una profonda influenza sul giovane Pete, che non ci mise molto a cercare di esprimere la propria personalità utilizzando uno strumento musicale. Il primo fu l’armonica, ma non era certo uno strumento che poteva eguagliare, nella fantasia di un adolescente, la carica di energia che sprigionava dalla chitarra elettrica. Così, dopo aver ascoltato Bill Haley cantare “Rock Around The Clock” nel film Senza tregua il rock’n’roll, decise di mettere le mani su quello strumento a sei corde. Stuzzicato dallo skiffle, per qualche tempo si accontentò comunque di dedicarsi al banjo, suonandolo nei The Confederates, una band in cui era accompagnato da alcuni amici di scuola.

Quando si stancò del banjo, con appena tre sterline si portò a casa la sua prima chitarra. Con un po’ di ingegno, riuscì ad elettrificarla, iniziando quindi a provare con l’amico e bassista John Entwistle. Insieme al chitarrista Pete Wilson e al batterista Mick Brown, i due si dedicarono per qualche tempo al rifacimento di alcuni brani degli Shadows, una delle formazioni che più andavano per la maggiore all’epoca. Pete, però, mal digeriva quella roba strumentale e, così, quando Roger Daltrey, il cantante dei Detours, lo chiamò per un provino, accettò senza battere ciglio. In breve tempo, la band si assestò in una formazione a quattro, comprendente, oltre a Daltrey e Townshend, anche John Entwistle al basso e Doug Sandom alla batteria. Quando i ragazzi scoprirono che in giro c’era già una formazione che si faceva chiamare Detours, optarono per un più semplice e diretto The Who. Era il giorno di San Valentino del 1964.

Intanto, mostrando una curiosità sorprendente per un ragazzo di appena diciotto anni, Pete aveva preso a modificare la sua chitarra con lo scopo di ottenere un sound più potente della media. Sulla sua Rickenbacker 345S, ad esempio, aveva inserito un selettore che, se commutato, attivava il pick up centrale, cosa che gli consentiva di raddoppiare il volume della propria chitarra. Non contento, cominciò anche a utilizzare due amplificatori contemporaneamente, sperimentando inoltre un uso creativo del feedback.

Questa ossessiva ricerca di un sound sempre più potente nascondeva una tensione psichica che solo col tempo Pete avrebbe imparato a riconoscere come figlia di una condizione esistenziale che egli condivideva con buona parte dei suoi coetanei. La paura di essere spazzati via da un conflitto nucleare (paura che si era rinforzata durante i giorni della terribile crisi dei missili di Cuba: 16-28 ottobre 1962) era la sorgente di una visione musicale votata alla distruzione e in cui gli echi della Seconda Guerra Mondiale (che pure egli non aveva vissuto in diretta) affioravano tra i sibili urlanti delle distorsioni e dei feedback.

«Sperimentavo continuamente, alla ricerca di nuovi modi per suonare la chitarra dal vivo, ispirato direttamente da Malcolm Cecil2. Malcolm aveva dimostrato in quante maniere insolite sapesse suonare il contrabbasso, una volta rompendo una corda, poi accettando la sfida di segare senza paura le altre corde, finendo per danneggiare la superficie dello strumento. Io raschiavo la mia Rickenbacker, la sbattevo, la piegavo, la torcevo per ricavarne un feedback urlante. Incoraggiato anche dal lavoro di Gustav Metzger3, il pioniere dell’autodistruzione, sognavo di sfasciare completamente lo strumento quando fosse venuto il momento giusto.»4

Perché gli Who potessero davvero spiccare il volo, però, mancava all’appello ancora un tassello. Su suggerimento del talent scout della Fontana Records (l’etichetta discografica presso cui, grazie all’impegno del loro manager, Helmut Gorden, erano attesi per un provino), venne messo alla porta Doug Sandom, che aveva circa quindici anni più della media degli altri tre membri della band. Tra i batteristi provinati per sostituirlo, vi fu anche Mitch Mitchell, che di lì a poco avrebbe fatto faville nel trio di Jimi Hendrix. Nessuno, però, avrebbe potuto riempire quello spazio vuoto meglio di Keith Moon, un pischello con la faccia da schiaffi che amava Buddy Rich e la musica surf californiana. Alla fine di un concerto a Greeford, Moon avvicinò la band e si propose come loro nuovo batterista. Townshend, Entwistle e Daltrey non ebbero problemi a dargli una possibilità, ma vollero che Moon provasse a convincerli immediatamente, lì sul posto. Moon non se lo fece dire due volte. Si sedette dietro la batteria, mostrò quello che sapeva fare e, come ciliegina sulla torta, ridusse il set di tamburi a un cumulo di macerie. La distruzione della batteria ebbe sicuramente un impatto notevole su Townshend, ma non fu solo quello a convincerlo. Moon, infatti, aveva un suono forte e potente, ma possedeva anche uno stile fluido, e questo gli consentiva di non accompagnare soltanto la musica, ma anche di darle una marcia in più.

Il passo successivo fu la registrazione del loro primo singolo, “Zoot Suit” / “I’m The Face”, roba rhythm and blues che richiamava, sul lato A, i Dinamics di “Misery”, e rivisitava, sul retro, “Got Love If You Want” di Slim Harpo. Il singolo uscì nel luglio del 1964 a nome The High Numbers, così come aveva consigliato il loro nuovo manager Peter Meaden. Meaden, che ebbe un ruolo di primo piano tra i Mods, scelse quel nome pensando di legare a doppio filo l’esperienza della band a quella della sottocultura all’epoca dominante (i “numbers” erano i Mods più in vista, quelli che avevano anche la capacità di dettare legge in fatto di moda).

Meaden fu silurato di lì a poco, perché, paradossalmente, pur essendo un Mod, non faceva nulla per nascondere un certo fastidio dinanzi agli elementi più “modernisti” della musica degli Who: odiava il feedback di Townshend, mal sopportava il rumore assordante della batteria di Moon, faceva buon viso a cattivo gioco quando ascoltava le esplosioni più ruvide dell’ugola di Daltrey e non gli andava molto a genio il suono rotondo e pulsante del basso di Entwistle, reso ancora più esplosivo dall’uso di corde “roundwound”.

A sostituire Meaden giunsero Kit Lambert e Chris Stamp, due giovani artisti che in quel periodo stavano cercando di girare un film incentrato sulle band emergenti più interessanti della scena londinese.

Firmato un contratto con la Decca Records, gli Who (il nome The High Numbers era stato definitivamente accantonato) erano pronti per dare l’assalto al mondo del rock inglese. Tutte le speranze erano riposte nell’ispirazione di Pete Townshend, l’unico tra i membri della band ad aver mostrato di avere più di una cartuccia da sparare in fatto di scrittura di canzoni. Chiuso nella sua stanza di Ealing, il quartiere di Londra in cui si era trasferito da qualche anno per frequentare l’Ealing Art College, il giovane chitarrista si immerse tra i suoi dischi preferiti di quel periodo (Bob Dylan, Charles Mingus, John Lee Hooker, Booker T. & the M.G.’s) e nel giro di qualche giorno tirò fuori dal cilindro “I Can’t Explain”, un’ode a quelle sensazioni vaghe e indeterminate che si agitavano nella sua mente, e che molto avevano a che fare sia con la sua condizione di “figlio della guerra”, sia con il suo amore per la musica. Venuto a conoscenza del fatto che il brano che aveva appena scritto sarebbe stato posto all’attenzione di Shel Talmy, il produttore di alcuni dei più recenti successi dei Kinks (una delle sue band preferite, guarda caso), Pete cercò di ottenere un sound il più vicino possibile a quello, metallico e ruvido, di “You Really Got Me”. Il risultato fu più che soddisfacente, così come si poté constatare nel gennaio del 1965, quando il brano uscì su singolo accompagnato da una “Bald Headed Woman” che rovistava nel grande canzoniere classico del blues. “I Can’t Explain” fu il primo, valido esempio del loro “Maximum R&B”, così come recitava il manifesto con cui i solerti Lambert e Stamp avevano tappezzato il West End londinese, allo scopo di pubblicizzare un concerto degli Who al Marquee.

Grazie alla partecipazione al programma televisivo Top Of The Pops, “I Can’t Explain” schizzò come un razzo nella Top 10, spinta anche dai suoi continui passaggi sulle frequenze delle radio pirata, quelle che, facendosi beffe della legge, avevano preso a trasmettere già da qualche anno a bordo di navi ormeggiate oltre le acque territoriali inglesi.

La fama degli Who, rafforzata dal secondo singolo “Anyway Anyhow Anywhere” (qualcosa a metà strada tra un corale in orbita Rolling Stones e le prime avvisaglie di un terremoto) crebbe a dismisura soprattutto grazie a una serie di potentissimi concerti in cui a dominare, oltre al sound potentissimo, era anche una certa dose di violenza “scenografica”: Roger faceva roteare il microfono intorno a sé come un cowboy alle prese con il proprio lazo; Keith si accaniva come un ossesso sulla batteria, facendo scorrere le bacchette sui tamburi come se fossero clave; John, invece, se ne restava immobile sul lato sinistro del palco, emettendo tonitruanti linee di basso. Quanto a Pete, oltre a brandire la chitarra con rude energia e a saltare sul posto come un invasato, faceva mulinare il braccio destro fino a colpire le corde con selvagge plettrate, il tutto prima di concludere il set con la distruzione della chitarra. Una distruzione che aveva assunto, concerto dopo concerto, quasi un valore rituale: era un modo per dimostrare al pubblico che tra lui e la chitarra non vi era ormai più differenza. Quello strumento rappresentava il prolungamento del suo corpo e della sua anima, e veniva offerto in sacrificio a vantaggio della sua generazione. Una generazione che Pete chiamò direttamente in causa con il terzo singolo, “My Generation”, scolpito nella storia del rock grazie a un rabbioso piglio rock’n’roll e a un verso epocale come “I hope I die before I get old” (“Spero di morire prima di diventare vecchio”). Anche se il tempo avrebbe dimostrato il contrario (a tutt’oggi Pete è vivo e vegeto, e si diverte ancora a fare musica), nella testa dell’allora ventenne chitarrista c’era un’idea precisa: invecchiare significa rinunciare ai propri sogni, significa appiattirsi sulle idee reazionarie propinateci da una classe dirigente il cui unico scopo è quello di tenere a bada ogni sentimento di ribellione.

People try to put us d-down
(Talkin’ ‘bout my generation)
Just because we get around
(Talkin’ ‘bout my generation)
Things they do look awful c-c-cold
(Talkin’ ‘bout my generation)
I hope I die before I get old
(Talkin’ ‘bout my generation)

This is my generation
This is my generation, baby

La gente cerca di metterci sotto
(parlando della mia generazione)
Solo perché noi gli stiamo intorno
(parlando della mia generazione)
Le cose che loro fanno sembrano terribilmente fredde,
(parlando della mia generazione)
Spero di morire prima di diventare vecchio
(parlando della mia generazione)

Questa è la mia generazione,
questa è la mia generazione, baby

Impreziosito da un grande assolo di basso (uno dei primi, se non il primo in assoluto della storia del rock), “My Generation” sfiorò la vetta della classifica inglese e s’impose come l’inno per eccellenza della gioventù più arrabbiata.

Il brano rappresenterà anche il momento topico del primo Lp degli Who, intitolato, senza molta fantasia, proprio My Generation (dicembre 1965).
Del loro primo repertorio rhythm and blues non era rimasto altro che qualche cover (“I’m A Man” di Bo Diddley, “I Don’t Mind” e “Please Please Please” di James Brown), mentre il resto si muoveva tra congegni hard-pop (“Out In The Street”, “Much Too Much”), strizzatine d’occhio alla produzione più accattivate dei Beatles (“La La La Lies”, con Nicky Hopkins al piano e l’epico anthem di “The Kids Are Alright”) o a quella dei Rolling Stones (“A Legal Matter”), rock’n’roll in upbeat e intrisi di ardore (“It’s Not True” ), ed escursioni (“The Good’s Gone”, con echi del jingle-jangle5 dei Byrds) o deragliamenti acidi (“The Ox”, una mini-jam guidata dal martellante tambureggiare di Moon, chiaramente memore della “Surfaris” dei Wipeout). Sulla versione americana, al posto di “I’m A Man”, fu inserita “Instant Party (Circles)”, un brano con cui la band evocava le sonorità del pop barocco. Per l’occasione, su suggerimento di Kit Lambert, John Entwistle mise da parte il suo basso per suonare la tromba.

Nonostante la grande eco suscitata da My Generation (quinto posto in classifica), all’inizio del 1966 gli Who vissero un periodo tribolato, tra screzi interni alla band e dispute legali che, nel giro di qualche mese, avrebbero prima portato alla rottura del contratto con la Decca e, quindi, alla firma di un accordo con l’Atlantic Records, l’etichetta che, tra il marzo e il dicembre di quello stesso anno, impresse il proprio sigillo su altri singoli di successo della band: l’hard-pop di “Substitute” (che «iniziava come un omaggio a Smokey Robinson fatto attraverso 19th Nervous Breakdown dei Rolling Stones»6) e due numeri di beat-pop (“I’m A Boy”, “Happy Jack”) che tradivano più di un’influenza del vaudeville, un genere che all’epoca era stato ripescato in ambito pop-rock soprattutto dai Kinks.

A novembre di quello stesso anno, uscì solo in Gran Bretagna anche l’Ep Ready Steady Who, comprendente due brani autografi: il primo, “Disguises”, è un numero di art-pop dall’impianto percussivo che ruota intorno al tema della ricerca della propria identità. Townshend lo aveva scritto, insieme al brano “I’m A Boy”, pensando ad un concept-album intitolato Quads, basato su una storia ambientata in un futuro prossimo venturo in cui ai genitori sarà data la possibilità di scegliere in anticipo il sesso dei propri figli. Il secondo brano autografo, “Circles”, nient’altro era che quella “Instant Party (Circles)” che aveva trovato spazio sulla versione americana di My Generation. Sul lato B dell’Ep, invece, scorrevano tre rifacimenti: “Batman” di Neal Hefti, “Bucket T” di Jan & Dean e “Barbara Ann”, un brano dei Regents che i Beach Boys avevano reso immortale.

Stuzzicato proprio da quanto la formazione di Brian Wilson aveva realizzato con Pet Sounds, Pete iniziò a pensare al formato dell’Lp non più come a un semplice contenitore di canzoni, ma come a una vera e propria opera d’arte, compiuta in tutte le sue parti. Tuttavia, in A Quick One (dicembre 1966), egli dovette accontentarsi di sperimentare le sue nuove idee in un solo brano, “A Quick One, While He’s Away”, che era in ogni caso, con i suoi nove minuti di durata, quello più lungo del disco. Il brano, definito una “mini-opera”, è articolato in sei movimenti e può essere letto come una delle prime tracce di quella tensione “progressiva” che avrebbe portato il rock, nel giro di qualche anno, verso territori sempre più avventurosi. Nel testo, Pete inserì ermetiche riflessioni su uno dei periodi più bui della sua infanzia, quello vissuto a casa della nonna materna Denny.

Gli altri brani a suo nome sono il rock’n’roll di “Run Run Run” e la doppietta folk-rock di “So Sad About Us” e “Don’t Look Away”, entrambe in orbita Byrds.
Per ragioni contrattuali, per A Quick One ogni membro degli Who fu chiamato a contribuire con brani autografi. Nel caso fossero riusciti a scriverne almeno due, ognuno di loro si sarebbe intascato immediatamente cinquecento sterline. Così, mentre Keith Moon accompagnò “I Need You” (la cui stravagante anima pop fu ispirata da un incontro con i Beatles) con la marcetta di “Cobwebs and Strange” (arrangiata con tromba, trombone, banjo e pennywhistle, un flauto a fischietto a sei fori), John Entwistle cesellò le trame horror-cartoonesche di “Boris The Spider” e l’ibrido di pop barocco e soul di “Whiskey Man”. Il solo a non centrare l’obiettivo dei due brani fu Roger Daltrey, autore del superficiale omaggio a Buddy Holly di “See My Way”.

L’unica cover del disco è “Heat Wave”, un brano inciso da Martha and the Vandellas che gli Who spesso eseguivano dal vivo.

Affascinante nei suoi momenti più eccentrici, A Quick One fu un disco complessivamente poco riuscito (cosa che, comunque, non gli impedì di arrampicarsi fino alla quarta posizione della classifica inglese), ma con consentì a Pete Townshend di sperimentare nuove soluzioni stilistiche.

La grande stagione psichedelica era, nel frattempo, esplosa e gli Who la vissero con intensità, volando anche oltreoceano per il loro primo tour americano. Nell’aprile del 1967, il suono della psichedelica fu alla base del singolo “Pictures Of Lily”, un’ode alla masturbazione che riuscì nell’impresa di coniugare le scariche proto-hard dei loro primi singoli con le fragranze pop delle loro più recenti creazioni. Il singolo andò più che bene in patria, mentre negli Stati Uniti stentò, sfiorando appena la Top 50. Servì comunque a preparare il terreno per la loro partecipazione al Monterey Pop Festival (16-18 giungo 1967), dove Pete, preoccupato di non sfigurare dinanzi al talento inarrivabile di Jimi Hendrix, fece il diavolo a quattro affinché gli Who suonassero prima del chitarrista di Seattle, riuscendo a spuntarla solo dopo il lancio di una monetina… Gli Who si lanciarono, quindi, in un’esibizione potente ma un po’ confusa, ovviamente condita con la solita devastazione degli strumenti. Gli americani, in ogni caso, si innamorarono senza riserve degli Who e le cose divennero davvero serie quando a ottobre fu pubblicato il singolo “I Can See For Miles”. Scritto un anno prima e dedicato «alla folle gelosia immaginaria di un cornuto» (sono parole dello stesso Pete), il brano presentò uno spettacolare connubio di progressioni pop, strutture hard-rock ed echi psichedelici che proiettò la band su un nuovo livello.

Il curioso Pete, intanto, non aveva perso tempo e, dopo essersi costruito uno studio di registrazione casalingo, aveva continuato a fare esperimenti con chitarra, anelli di nastro magnetico, pedali e manipolazioni di rumore bianco.

Muovendosi tra un nuovo omaggio alla Summer Of Love psichedelica e un rinnovato interesse per la rock-opera, per The Who Sell Out (dicembre 1967) il chitarrista ebbe l’idea di legare i brani tra di loro utilizzando jingle pubblicitari radiofonici approntati per l’occasione. Il disco voleva essere un vero e proprio veicolo pubblicitario, ma mirava anche ad omaggiare le radio pirata che, nell’agosto precedente, erano state dichiarata illegali dal governo inglese. Accompagnato da una copertina in perfetto stile Pop Art (Pete si profuma l’ascella con una confezione gigante di Odorono, Roger si fa il bagno in una vasca piena di fagioli Heinz, e via di questo passo), The Who Sell Out ripescava la straordinaria “I Can See For Miles”, confermandone l’idea di “pop progressivo” in altri brani di ottima fattura, a cominciare dall’iniziale “Armenia City In The Sky”, un brano scritto da Speedy Keen (amico di Pete e tastierista dei Thunderclap Newman) e arrangiato con voce in primo piano e carica di eco, chitarre in reverse, batteria pulsante e psichedeliche bave di tromba. Nelle tonalità fiabesche di “Mary Anne with the Shaky Hand” torna a galla, invece, il tema della masturbazione, laddove “Odorono” trasforma l’idea del jingle pubblicitario in una vera e propria canzone, nello specifico ibridando folk, pop e music-hall. Armonie più complesse vantano, invece, “Tattoo” (le cui atmosfere anticipano alcuni dei momenti più estatici di Tommy) e “Our Love Was”, un brano, quest’ultimo, che tradisce l’influenza dei Beach Boys. L’anima più melodica e svagata di Pete emerge, invece, in “I Can’t Reach You”, uno dei primi brani che il chitarrista scrisse al pianoforte (in “Relax”, invece, lo troviamo alle prese con l’organo), mentre nelle tessiture folk-jazz di “Sunrise” emerge il suo lato più umbratile.

La conclusiva “Rael” risaliva a qualche anno prima, quando Pete, desideroso di mettere mano alla sua prima mini-opera, l’aveva scritta utilizzando il Manuale di orchestrazione di Walter Piston. Nella seconda parte del brano, si ascolta una sezione strumentale per basso e chitarra che due anni dopo sarebbe stata ripescata per la “Underture” di Tommy.

Oltre al jingle “Heinz Baked Beans”, John contribuì con due brani – “Medac” e “Silas Stingy” – al solito caratterizzati da una buona dose di stravaganza.

Nonostante l’impegno profuso, sia con il singolo “I Can See For Miles” che con The Who Sell Out la band non riuscì a raccogliere i frutti sperati. Pete restò deluso soprattutto dall’impatto non proprio esaltante che il loro ultimo Lp aveva avuto sul mercato americano (posizione numero 48 in classifica), dove la trovata dei jingle pubblicitari egli aveva creduto potesse destare più interesse. Così non fu. Anzi, il capoccia della più grande radio newyorkese, la WMCA, bollò il disco addirittura con l’aggettivo “disgustoso”! La critica reagì, invece, con ben altro entusiasmo, ma ciò non evitò a Pete un periodo di depressione. Nonostante tutto, insieme alla band continuò a registrare nuovo materiale, facendo uscire altri singoli, in modo da rispettare gli accordi contrattuali presi con la Decca. Nel 1968, dunque, furono pubblicati, senza molto successo, “Call Me Lightning” (un festoso pow-wow con assolo di basso a ricordare quello di “My Generation”), “Dogs” (un delizioso ingranaggio psych-pop incentrato sulla passione per le corse dei levrieri e ispirato a “Lazy Sunday”, il più recente successo degli Small Faces) e “Magic Bus” (un omaggio al tipico sound di Bo Diddley tra percussioni latine e chitarre acustiche). Altri brani registrati in questo periodo saranno accantonati fino al 1974, quando troveranno spazio sulla raccolta Odds & Sods.

Maggiori soddisfazioni continuavano intanto ad arrivare dalla loro attività live, in cui gli Who mostravano di avere pochi rivali al mondo. Nella scaletta dei loro concerti erano entrati anche alcuni brani provenienti dalla stagione d’oro del rock’n’roll, eppure questo ritorno alle origini della musica giovanile non si tramutò in un rilassamento creativo, ma anzi finì paradossalmente per stimolare la voglia di Pete di continuare a sperimentare nuove soluzioni sonore sia in studio che di fronte alle più diverse platee. Stanco delle rigide imposizioni della Decca (che, ovviamente, ragionava solo in termini economici), il chitarrista aveva già da qualche tempo messo mano a un nuovo progetto, quello che avrebbe di lì a poco portato alla realizzazione del doppio Lp Tommy.

Le prime avvisaglie di Tommy risalivano almeno fino al 1966, quando Pete aveva scritto alcuni brani per il concept-album Quads. Da ricordare, inoltre, l’idea alla base di “A Quick One While He’s Away” e, quindi, l’ultimo brano di Sell Out, “Rael”, originariamente approntato come parte di un’altra mini-opera di ben venticinque atti.

Un altro passo decisivo verso la realizzazione di Tommy fu “Glow Girl”, brano del 1968 caratterizzato da richiami spirituali, evidentemente in linea con quanto Pete aveva da poco sperimentato in seguito alla scoperta delle idee di Meher Baba, un santone indiano che professava la pace e l’armonia universale, invitando gli uomini ad avviare una costante e profonda ricerca interiore. Pete ne aveva potuto apprezzare le idee grazie alla lettura di The Good Men di Charles Purdom, che di Baba fu primo biografo.

Con l’ispirazione rinvigorita da questa decisiva esperienza spirituale, a cavallo tra la fine del 1968 e i primi mesi del 1969 (per la cronaca, Meher Baba morirà alla fine di gennaio di quell’anno) Pete prese a lavorare con regolarità alla struttura della rock-opera Tommy, che all’epoca, però, era ancora intitolata Deaf, Dumb and Blind Boy, dato che il protagonista della storia era un ragazzo sordo, muto e cieco.

Fu il giornalista Nick Cohn a suggerire a Pete l’idea di fare di Tommy un campione di flipper. Cohn all’epoca stava giusto scrivendo un romanzo, Arfur: Teenage Pinball Queen, ispirato alla figura della sua fidanzata di allora, che pare fosse una tipa davvero molto in gamba con il flipper. L’idea piacque immediatamente a Pete, sia perché in quel modo poteva rinnovare il suo legame con gli insegnamenti di Meher Baba (il quale aveva spesso sostenuto che Dio gioca a biglie con l’universo), sia perché così riusciva a rendere più digeribile la sovrastruttura letteraria che era alla base della sua rock-opera. Così, nel settembre del 1968, Pete ne aveva anticipato la trama al giornalista Jann Wenner della rivista «Rolling Stone»:

«È la storia di un ragazzino nato sordo, cieco e muto, e di ciò che gli capita nel corso della sua vita. Il ragazzo cieco, sordo e muto è interpretato dagli Who, l’entità musicale. Egli viene rappresentato musicalmente grazie ad un tema che suoniamo noi e che apre e chiude l’opera stessa, ma c’è anche una canzone specifica che ne descrive la sua condizione di sordomuto e cieco. Ma la cosa principale è che, essendo menomato in quel modo, il ragazzo percepisce le cose sotto forma di vibrazioni che trasforma in musica. Questo è quello che vogliamo creare davvero: creare quel tipo di feeling che ti fa ascoltare la musica e ti fa immaginare il ragazzo, e tutto ciò che rappresenta, perché noi lo stiamo creando mentre suoniamo.»7

Seguendo l’idea suggeritagli da Cohn, Pete scrisse “Pinball Wizard”, il singolo in cui Tommy diventa un vero e proprio “mago del flipper”, nonostante le sue gravi menomazioni. Pete avvertì in un primo momento questa scelta come stupida e sbagliata, salvo poi rendersi conto che era anche tremendamente liberatoria e avventurosa. Si trattava di un brano epico (anche se inizialmente Pete l’aveva trovato “terribile” e “privo di magia”!), introdotto dallo scampanellio acustico della chitarra e dunque travolto da continue mareggiate hard-rock, a recintare un ritornello indimenticabile.

Accompagnato dall’evocativa copertina di Mike McInnerney («Meher Baba diceva che la vita, così come la conosciamo non è che “un’illusione dentro un’illusione” e Mike partì da questa prospettiva per creare l’artwok dell’album»8), il doppio LP Tommy fu pubblicato il 17 maggio del 1969 negli Stati Uniti e solo sei giorni dopo in Inghilterra. Essendo una rock-opera, in apertura Pete posizionò una “Overture” in cui si alternano ambiziosi passaggi sinfonici e radure folk-rock. Nella stessa direzione sonora della “Overture” si dirigeranno idealmente anche il brevissimo interludio “It’s A Boy” (l’annuncio che Tommy è tra noi), “Sparks” (che ne rinnova lo spirito con un tasso di drammaticità più elevato) e “Underture”, un tour de force strumentale tutto giocato sulle rullate della batteria, il basso pulsante e le stratificazioni delle chitarre acustiche ed elettriche. Dopo la bellissima ballata di “1921” (Tommy assiste all’uccisione dell’amante della madre da parte del padre – un reduce di guerra tornato a casa solo dopo molto tempo – e si chiude in sé stesso, diventando sordo, cieco e muto), è la volta di “Amazing Journey”: Tommy fa i conti con la sua difficile condizione e ciò gli consente di intraprendere un “meraviglioso viaggio” lungo i sentieri della propria anima. Per la cronaca, “Amazing Journey” fu il primo brano che Pete scrisse espressamente per il progetto di Tommy.

Preceduta dal marziale incedere di “Eyesight to the Blind” (in pratica un riadattamento dell’omonimo blues del 1951 di Sonny Boy Williamson II), “Christmas” si lancia in un anthem agrodolce, incentrato com’è sulla disperata ricerca di un contatto che il padre di Tommy cerca di stabilire con il proprio figlio. Ecco, quindi, l’incantesimo folk-rock di “Cousin Kevin” e le scariche hard-rock di “The Acid Queen”, dedicata alle visioni che invadono la mente di Tommy in seguito all’assunzione di acido lisergico.

Aperto dal breve scherzo psych-pop di “Do You Think It’s Alright?”, il lato A del secondo disco prosegue con le tutto sommato prescindibili marcette di “Fiddle About” (scritta da Entwistle, già autore di “Cousin Kevin”) e “There’s A Doctor”, ripesca “Pinball Wizard” e coniuga ancora sonorità hard-rock e piglio innodico in “Go To The Mirror”, uno dei brani centrali dell’opera, col suo richiamo ai temi ricorrenti “See Me, Feel Me” e “Listening to You”, gli stessi che ritorneranno nella conclusiva “We’re Not Gonna Take It”. Da un punto di vista narrativo, “Go To The Mirror” è un brano importantissimo, perché contiene la rivelazione della natura non fisica ma psicosomatica dei problemi di Tommy, il quale, poco alla volta, ha iniziato a percepire il proprio riflesso nello specchio. A un certo punto, dopo la corale “Tommy Can You Hear Me?”, lo specchio va in frantumi (“Smash The Mirror”) e “Sensation”, con la sua radiosa progressione pop impreziosita dalla presenza del corno francese, ci informa che il nostro eroe è ormai capace di illuminare gli altri con la sua profonda spiritualità. Se, quindi, i dieci secondi di “Miracle Cure” rimandano ai jingle pubblicitari di The Who Sell Out, “Sally Simpson” ammalia con trame di folk-rock pianistico, laddove “I’m Free” (in parte ispirata a “Street Fighting Man” dei Rolling Stones) vanta un riff incisivo e un portamento disinibito. Curiosamente, su questo brano alcune delle parti di batteria (tra cui quella iniziale) furono suonate da Townshend ed Entwistle, visto che Moon non riuscì in alcun modo a soddisfare le richieste del primo.

Dopo la straordinaria accoglienza di Tommy (numero due in Inghilterra, numero quattro negli Stati Uniti, dove nelle prime due settimane se ne vendettero oltre duecentomila copie), la fama degli Who raggiunse il picco con la partecipazione al festival di Woodstock, le cui immagini faranno il giro del mondo grazie al documentario di Michael Wadleigh. Durante la loro infuocata esibizione (iniziata alle 5 di mattina del 17 agosto del 1969, subito dopo il set di Sly & the Family Stone e prima di quello dei Jefferson Airplane), l’attivista Abbie Hoffman salì sul palco per protestare contro l’imprigionamento, per possesso di marijuana, del poeta e scrittore John Sinclair, all’epoca anche manager degli MC5. Per tutta risposta, Pete lo colpì con la propria chitarra, mentre Roger gli ringhiò contro promettendogli che, nel caso c’avesse riprovato, lo avrebbe spedito direttamente all’altro mondo.

«Ci volle un po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che la nostra esibizione a Woodstock, dove avevamo rischiato di non partecipare, ci aveva elevato tra l’aristocrazia del rock americano, dove saremmo rimasti, anno dopo anno, fin dentro il ventunesimo secolo.»

I successivi concerti in terra americana ed europea resero gli Who uno dei live-act più coinvolgenti e apprezzati del panorama musicale dell’epoca. Fu naturale, quindi, per la band pensare alla realizzazione di un disco dal vivo. Così, il 16 maggio del 1970 uscì Live At Leeds, da molti considerato come uno dei dischi dal vivo più importanti della storia del rock. All’epoca la band suonava, oltre ad alcuni dei suoi cavalli di battaglia della prima ora e a qualche cover, anche quasi tutti i brani provenienti da Tommy. Tuttavia, per ragioni di opportunità commerciale, su Live At Leeds finirono solo trentasei minuti circa di musica, suddivisi tra cover (“Young Man Blues” di Mose Allison – in un’eccitante miscela di rock-blues adrenalinico e turgido hard-rock che fa venire in mente i Led Zeppelin -, “Summertime Blues” di Eddie Cochran e “Shakin’ All Over” di Johnny Kidd) e brani originali (“Substitute” “Magic Bus” e “My Generation”). É soprattutto la versione di quest’ultimo brano a racchiudere l’essenza sonora del disco e a giustificarne in larga parte la fama. Trasformata in una cavalcata di quasi quindici minuti, in cui compaiono anche alcuni passaggi provenienti da Tommy (il tema “See Me, Feel Me”, per esempio), la “My Generation” suonata quel giorno di San Valentino all’università di Leeds, con un Townshend in gran spolvero, supportato dal solito, rocciosissimo e metallico basso di Entwistle e dalla superlativa batteria di Moon, risuona ancora oggi come il canto del cigno delle tante utopie che costituirono l’ossatura della controcultura degli anni Sessanta.

Note:

  1.  Il Bluebeat è il nome utilizzato a metà degli anni 1960 nel Regno Unito per definire la musica giamaicana Rhythm and blues e Ska.
  2. Contrabbassista jazz che negli anni Settanta, insieme a Robert Margouleff, fondò la Tonto’s Expanding Head Band, band fondamentale per la musica suonata con i soli sintetizzatori.
  3. Artista tedesco, esponente di Fluxus e dell’arte autodistruttiva.
  4.  Pete Townshend,Who I Am, Rizzoli, 2013, pag. 64
  5. Il tipico suono cristallino prodotto dalle chitarre Rickenbacker utilizzate dalla formazione californiana
  6. Pete Townshend,Rop. cit., pag. 90
  7.  Jann Wenner, The Rolling Stone Interview (14 settembre 1968)
  8.  Pete Townshend, op. cit., pag. 156
  9.  Ivi, pag. 173
Discografia Consigliata

My Generation (1965)
The Who Sell Out (1967)
Tommy (1969)
Live At Leeds (1970, live)

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