The Kinks (Parte 2)

Durante l’estate del 1973, la vita di Ray Davies subì uno scossone violento a causa della fine del suo matrimonio con Rasa Didzpetris, che lo abbandonò portandosi dietro anche le sue due figlie. Il 15 luglio, durante un concerto al White Coty Stadium di Londra, Ray, già provato da una forte depressione, cercò di farla finita inghiottendo un intero flacone di pillole. Quella sera, come urlò a un certo punto sul palco, anche l’avventura dei Kinks si sarebbe dovuta concludere. Per fortuna, dopo essere stato portato d’urgenza all’ospedale, cambiò idea e i fan poterono tirare un respiro di sollievo.

Molti dei brani in scaletta quella sera di luglio erano inediti ed erano stati scritti in previsione di un musical annunciato nel dicembre precedente e incentrato sui temi di Village Green Preservation Society. Altro materiale inedito, risalente al quinquennio 1966-1970, era invece confluito su The Great Lost Kinks Album (gennaio 1973), che conteneva anche B-side, outtake e qualche brano scritto per il cinema e la televisione. Anche se Ray non riuscì  a rimetterci mano, come avrebbe desiderato, le quattordici tracce ivi contenute compongo un bel mosaico sonoro i cui momenti più interessanti sono da rintracciare nelle solite incursioni nell’universo del music-hall (“Till Death Us Do Part”, “Pictures In The Sand”), nelle cantilenanti “There Is No Life Without Love” e “When I Turn Off The Living Room Light”, in una “Lavender Hill” dall’andamento indolente , nel pop barocco di “Rosemary Rose” e nelle trame orchestrali dell’accorata “The Way Love Used To Be”.

Del musical annunciato non restò che il materiale musicale che la band aveva provveduto a registrare. Data la quantità di brani, si pensò in un primo momento a un doppio Lp, ma per colpa del perfezionismo di Ray e delle pressioni della RCA, alla fine si optò per due volumi separati, il primo del quale, intitolato Preservation: Act 1 vide la luce nel novembre del 1973. La trama di quest’opera rock era basata sullo scontro tra il capitalista Mr. Flash (che irrompe nel villaggio portando corruzione e speculazione edilizia) e l’ultra-reazionario Mr. Black, le cui idee finiranno alla fine per avere la meglio, condannando gli abitanti del villaggio a una vita all’insegna del più bieco puritanesimo. Quanto alla musica, il ventaglio delle soluzioni è ampio ma i brani appaiono il più delle volte raffazzonati, quando non guidati da un’ispirazione incerta. Dovendo comunque segnalare i migliori, l’elenco comprenderebbe di certo “Daylight” (in cui echi di musica indiana fanno il paio con la tipica gentilezza vagamente barocca dei loro classici degli anni Sessanta), il folk-rock dylaniano di “Sweet Lady Genevieve” e “Money & Corruption” / “I Am Your Man”, in pratica un medley di due ballate: la prima, dai tratti celtici, alterna passaggi pensosi ad altri più movimentai; la seconda, invece, si carica di nostalgia mentre un coro femminile le disegna intorno uno sfondo paradisiaco.

Preservation: Act 2 (maggio 1974) uscì invece come doppio Lp e fece registrare un numero maggiore di copie vendute rispetto a quelle del primo atto. Anche se è appesantito da ben cinque interludi parlati, a inframezzare brani che ruotano attorno all’idea di una musica a tratti sterilmente ambiziosa (pop, rock, music-hall, vaudeville, funk, hard-rock, e quant’altro nel frullatore), questo secondo atto è, a conti fatti, più convincente del primo, non fosse altro perché più stimolante. Le tracce di glam progressivo che attraversano “When a Solution Comes”, il vaudeville a mo’ di carillon di “Mirror Of Love”, il folk in forma di valzer di “Oh Where Oh Where Is Love?”, il proto post-punk di “Flash’s Confession”, la struttura tripartita di “Artificial Man” e il melodismo country di “Scrapheap City” sono i brani che hanno una marcia in più.

Non pago di aver realizzato due opere fortemente melodrammatiche e molto criticate dai fan della prima ora, Ray si gettò a capofitto nel progetto di Starmaker, un nuovo musical per la Granada Tv da cui derivò The Kinks Present a Soap Opera (maggio 1975), un disco molto meno convincente, indeciso tra un’idea di rock più o meno indurito e trascinante (“Everybody’s a Star (Starmaker)”, “Rush Hour Blues”), ballate d’ordinanza (“Nine To Five”, “Underneath the Neon Sign”) e qualche timida traccia del passato (“Holiday Romance”, “You Make It All Worthwhile”).

A mettere fine all’infatuazione di Ray per le opere-rock ci pensò  Schoolboys in Disgrace (novembre del 1975 ), in cui la figura dello scolaro bullo (null’altro che il Mr. Flash di Preservation in versione adolescenziale) veniva piegata a dire del difficile rapporto che gli uomini hanno con l’autorità e con l’essere estranei alla massa. Musicalmente, non siamo molto lontani dalla Soap Opera, tra rock’n’roll facili-facili (“Jack the Idiot Dunce”), anthem hard-rock memori degli Who (“I’m In Disgrace”, “Headmaster”), sprazzi di power-pop (“The Hard Way”, un brano non a caso ripreso dagli Knack) e ballate in crescendo (“Education”), “progressive” (“The First Time We Fall in Love”) o semplicemente banali (“The Last Assembly”). La palma del brano più intrigante se la merita “No More Looking Back”, che fonde con un certo gusto pop, soul e smooth-jazz.

Schoolboys in Disgrace fu anche l’ultimo disco che la band registrò per la RCA. Accasatisi presso la Arista Records, i Kinks, anche su suggerimento del patron dell’etichetta, Clive Davis, mise da parte la sezione fiati e i cori femminili e ritornò alla formazione base. Il primo disco di questo nuovo corso, Sleepwalker (febbraio 1977), uscì in piena esplosione punk, ma con quel genere crudo e selvaggio, fatto di tre-accordi-tre e nichilismo a buon mercato, il quindicesimo album della band inglese non aveva nulla a che fare. Sleepwalker è, piuttosto, un concentrato di pop-rock che aspira senza mezzi termini all’airplay radiofonico e alle grandi arene del rock, ma il cui pur efficace songwriting non riesce mai a essere veramente incisivo, anche per colpa di una produzione che ha fatto terra bruciata intorno a ogni eventuale spigolo. Emblematiche, in tal senso, sia l’iniziale e cadenzata “Life On The Road” che la successiva ballata hard-rock di “Mr. Big Man”, ma anche la stessa title-track, con le sue trame folk-rock, e soprattutto “Juke Box Music”, il brano più intrigante del lotto grazie a tessiture funk-pop che convergono nell’emblematico refrain: “It’s only juke box music / Only juke box music” (“È solo musica da juke box / Solo musica da juke box”).

L’album fece registrare un discreto successo negli Stati Uniti (arrampicandosi fino al ventunesimo posto della classifica e spianando la strada per un nuovo tour), ma ancora una volta non riuscì a scalfire il guscio di quella inglese. Così, cercando di stuzzicare l’appetito anche dei compatrioti, in previsione del Natale 1977 i Kinks fecero uscire il singolo “Father Christmas”, con il quale, mentre criticavano la dimensione stupidamente consumistica della festa più importante della cristianità, ricordavano a Sex Pistols, Damned, Clash e compagnia bella che nel 1964 era stata incisa una cosina chiamata “You Really Got Me”, la cui carica di ruvida energia impregna, da cima a fondo, anche la B-side non a caso intitolata “Prince of the Punks”…

Sostituito il bassista John Dalton con Andy Pyle (che aveva già suonato su “Mr. Big Man”, una delle tracce di Sleepwalker), nel maggio del 1978 arrivò nei negozi di dischi Misfits, un disco dall’anima ancora più rock e con un occhio puntato su quanto stava intanto accadendo tra le pieghe del primo post-punk. Ecco spiegato, quindi, sia l’utilizzo dei sintetizzatori (“Hay Fever”, “Permanent Waves”), che la strizzatina d’occhio al reggae di “Black Messiah”. Quanto al resto, buon mestiere, tra hard pop-rock dalla vena innodica (“Live Life”), grazioso folk-rock (“Out of the Wardrobe”) e rock’n’roll pianistico tinto di enfasi Who (“Get Up”).

Il singolo “A Rock ‘n’ Roll Fantasy” entrò nella Top 30 americana, facendo segnare il miglior risultato dai tempi di “Lola”. Nel testo, scritto in parte dopo aver assistito a un concerto del chitarrista Peter Frampton (che nel 1976 aveva sbancato il mercato americano con il best-seller Frampton Comes Alive!) e in parte pochi giorni dopo la morte di Elvis Presley (16 agosto 1977), Ray s’interroga su quanto fin lì realizzato, chiedendosi se non fosse ormai giunto il momento di porre fine all’esperienza dei Kinks, visto anche il momento di turbolenza che stava vivendo la band, tra defezioni (ancor prima che Misfits fosse mandato in stampa, John Gosling e Andy Pyle si erano chiamati fuori), vendite altalenanti e ansie da prestazioni.

Isn’t it strange, we never changed
We’ve been through it all yet we’re still the same
And I know it’s a miracle, we still go, and for all we know
We might still have a way to go

Hello me, hello you, you say you want out
Want to start anew, throw in your hand
Break up the band, start a new life, be a new man
But for all we know, we might still have a way to go

Non è strano che non siamo mai cambiati?
Ne abbiamo passate tante, eppure siamo sempre gli stessi
E so che è un miracolo, andiamo ancora avanti, e per quanto ne sappiamo
Potremmo ancora avere una strada da percorrere.

Ciao a me, ciao a te, dici di volere uscire
Vuoi ricominciare da capo, vuoi passare la mano,
Disfare la band, iniziare una nuova vita, essere un uomo nuovo
Ma per quanto ne sappiamo, potremmo ancora avere una strada da percorrere

Le vendite di Misfits furono leggermente inferiori rispetto a quelle fatte registrare da Sleepwalker, ma i Kinks guadagnarono altri estimatori grazie a tre cover di successo: “You Really Got Me” rifatta dai Van Halen (che ne accentuarono l’anima hard’n’heavy), “David Watts” ripresa dai Jam e “Stop Your Sobbing” recuperata dai Pretenders.

Ingaggiato il bassista Jim Rodford, i Kinks misero dunque mano al loro diciassettesimo album in studio, Low Budget (luglio 1979), con Ray ad occuparsi anche delle tastiere e il sassofonista Nick Newall a dare qualche pennellata. Quello che si ascolta in questi solchi è un solido concentrato di hard-rock da stadio (la title-track, “Attitude”, “Catch Me Now I’m Falling”, quest’ultima con un riff che deve più di qualcosa a quello di “Jumpin’ Jack Flash” dei Rolling Stones), rock’n’roll scontato ma dall’effetto assicurato (“Misery” e una “Pressure” che in apertura cita “Johnny B. Goode” di Chuck Berry), cadenze funk-soul-gospel (“In A Space”, che ruba la melodia al tema di Jesus Christ Superstar, la famosa opera rock di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice) e lento blues-rock (“A Gallon Of Gas”, il cui riff piacerà così tanto a George Thorogood da spingerlo a ripescarlo per la sua hit del 1982, “Bad To The Bone”). Insomma, tutta roba con cui la chitarra di Dave andava a nozze. Alle cupe e futuristiche sonorità di certa new-wave guarda, invece, “National Health”, mentre “(Wish I Could Fly Like) Superman” paga spudoratamente pegno all’allora imperante disco-music.

Quello di Low Budget fu un clamoroso successo negli Stati Uniti (undicesima piazza nella classifica dei dischi più venduti) e il tour che lo accompagnò fu uno dei più eccitanti di quel periodo. A testimoniarlo, nel giugno del 1980 arrivò One For The Road, da molti considerato come uno dei dischi dal vivo migliori di sempre. A ribadire ancora una volta che tra i papà del rock più duro e granitico e dello stesso punk ci sono anche loro, i Kinks sciorinano alcuni dei loro classici del passato (“You Really Got Me” – poteva mai mancare? -, “All Day And All Of The Night”, “David Watts”, “Victoria”, “Lola”, “Stop Your Sobbing”), accompagnandoli con molti dei momenti più grintosi della loro produzione più recente, in un’operazione tutto sommato riuscita, non fosse altro perché capace di dare ancora più visibilità a una band che, al netto di tante cadute di tono successive alla sua fase più gloriosa (quella insomma compresa tra il 1964 e il 1969), era pur sempre una delle più importanti nate dalla prima covata del rock inglese.

Le vendite andarono ancora una volta a gonfie vele e One For The Road s’impose come il loro maggior successo di quegli anni. La band stava ormai dando alla gente quello che la gente voleva: brani trascinanti e orecchiabili, prodotti in maniera impeccabile e al passo con i tempi. Non fu dunque un caso che, per il successivo album in studio, la band optasse per il titolo Give the People What They Want. Tra i suoi solchi, ancora intrisi di hard-rock melodico e rock radiofonico, tutto funziona come deve funzionare, tutto appare fin troppo laccato e telefonato, fino alla clamorosa auto-citazione/scopiazzatura di “All Day And All Of The Night” che fa capolino in “Destroyer”. I punti più bassi della scaletta si trovano nelle ballate di “Killer’s Eye”, “Yo-Yo” e “Art Lover”. Dalla mediocrità si salva soltanto (ma davvero a stento) il power pop di “Better Things”.

A conferma di quanto, ormai, i Kinks fossero un grande business soprattutto in terra americana, Give the People What They Want fu pubblicato prima negli Stati Uniti (agosto 1981) e soltanto nel gennaio successivo in Europa. Il disco è anche il primo in cui suonò il tastierista Ian Gibbons, che era stato reclutato ai tempi del tour di Low Budget per sostituire il dimissionario John Gosling.

Tra la fine del 1981 e per tutto il 1982, i Kinks diedero fondo alle loro energie suonando in giro per il mondo, ma intanto non smisero di scrivere e registrare nuovo materiale, perché, come si suol dire, il ferro va battuto finché è caldo. E poco importa che l’ispirazione di Ray restasse ancora lontanissima dalle sue migliori manifestazioni: anche State Of Confusion (maggio 1983), trascinato dal grande exploit del singolo “Come Dancing” (sesto posto negli Stati Uniti), si tradusse nell’ennesima vagonata di dischi venduti. Cosa salvare oltre all’accattivante singolo di cui si è già detto e il power-pop cristallino di “Heart Of Gold”? Davvero difficile dirlo, tra i soliti automatismi di hard-rock melodico (la title-track, “Cliches Of The World”), meste ballate (“Don’t Forget to Dance”), punk-wave di seconda mano (“Young Conservatives”) e rigurgiti rock’n’roll (“Bernadette”).

Nonostante gli ultimi anni fossero stati ricchi di soddisfazioni, soprattutto da un punto di vista economico, i rapporti tra i fratelli Davies erano andati via via peggiorando, anche a causa di un autoritarismo sempre più pressante di Ray, il quale, anche quando Dave diventava fattivo collaboratore nella scrittura dei brani, tendeva a far valere la propria posizione di autore principale della band. Per dire, proprio durante la registrazione di alcuni brani di State Of Confusion, Dave aveva messo lo zampino in diversi arrangiamenti, ma il fratellone aveva pensato bene di far riscrivere, all’ultimo momento, le note di copertina per escluderlo dai credits… Insomma, mai fidarsi, nemmeno del proprio fratello maggiore! Le cose peggiorarono quando Ray, dopo aver messo fine alla sua relazione con Chrissie Hynde (la cantante dei Pretenders), divenne ancora più irascibile, cosa che mal s’accordava con l’umore sempre più cupo di Dave, il quale aveva pensato bene, nel frattempo, di rispolverare il suo vecchio odio per il batterista Mick Avory. Alla fine, per cercare di metterci una pezza, Ray silurò Avory, che comunque restò nei paraggi come responsabile dei Konk Studios, gli studi di registrazione di proprietà dei fratelli Davies, che li avevano fatti costruire in quel di Londra col milione di dollari all’epoca ricevuto come anticipo dalla RCA.

Al posto di Avory venne ingaggiato Bob Henrit, che fece il suo esordio su Word Of Mouth (novembre 1984), ultimo disco dei Kinks per la Arista. Siamo sempre in quel crocevia in cui l’hard-rock meno spigoloso incontra il pop-rock radiofonico e i risultati sono, manco a dirlo, ancora una volta deludenti, anche se dal piattume generale si potrebbero tranquillamente salvare il folk-rock in forma di ballata di “Living on a Thin Line” (scritta da Dave e incentrata sulla crisi di identità che aveva accompagnato l’Inghilterra durante il Novecento) e il power-pop di “Do It Again” e “Good Day” (quest’ultima accompagnata da una drum-machine).

Le cose, però, stavano andando un po’ troppo fuori binario e ciò venne confermato anche dalle vendite del disco, non all’altezza dei suoi predecessori. Senza battere ciglio e dopo aver firmato un nuovo contratto con la MCA Records, i Kinks proseguirono per la loro strada pubblicando Think Visual (novembre 1986), che non fece registrare particolari scossoni, nonostante qualche timida traccia di vaudeville facesse nuovamente capolino tra le pieghe, comunque rockeggianti, della title-track. Think Visual, anzi, mostrò una genuflessione ancora più scoperta dinanzi alle stucchevoli esigenze commerciali (si ascoltino, ad esempio, le orrende “Rock and Roll Cities” e “When You Were A Child”). “Lost And Found” e “Natural Gift” sono le due uniche tracce degne di qualche attenzione.

Non riuscì a risollevare le loro sorti nemmeno la pubblicazione, nel gennaio del 1988, di The Kinks Live: The Road (gennaio 1988), loro terzo disco dal vivo: troppo inferiore la qualità media dei brani rispetto a quella dell’osannato One For The Road.

Il successivo Uk Jive (ottobre 1989) si fa ricordare soltanto per il clima burrascoso in cui nacque, tra scazzi con la MCA (che rifiutò a Ray la cifra richiesta per approntare il videoclip di “The Million-Pound-Semi-Detached”, un delizioso congegno di folk-pop con sezione fiati che i fan, causa ritorsione del lider maximo nei confronti dei capoccia dell’etichetta americana, avrebbero potuto ascoltare solo qualche anno dopo grazie alla compilation The Singles Collection / Waterloo Sunset), l’abbandono di un esausto Gibbons e una rissa in studio tra i fratelli Davies, causa la solita arroganza di Ray che proprio non riusciva a evitare di mettere bocca e mani sui brani scritti da Dave.

Realizzato nel 1991 l’Ep Did Ya (che conteneva il pop-elettronico di “New World” e una title-track che gettava un convincente sguardo sul loro passato), nel 1994 la band tornò in pista con quello che sarà il suo ultimo disco in studio. Si chiamava Phobia e presentava un robusto sound dall’appeal radiofonico. Tra sprazzi di hard-rock più o meno orecchiabile (“Drift Away”, la title-track, “It’s Alright (Don’t Think About It)”), ballate in mid-tempo (“Still Searching”, “Don’t”) o dal retrogusto malinconico (“Only A Dream”, “The Informer”), faciloneria power-pop (“Babies”), vaghe reminiscenze dei bei tempi andati (“Over The Edge”) e qualche numero punk’n’roll (“Hatred (A Duet)”, “Somebody Stole My Car”), il disco si fa ascoltare senza troppi patemi, cosa che, per una delle band di punta della prima fase della storia del rock, non è proprio il massimo. Nel 1994, i Kinks cercarono di far risalire le proprie quotazioni pubblicando il disco dal vivo To The Bone, un più convincente ripescaggio, anche in modalità semi-acustica, di alcuni dei loro grandi classici, tra cui “All Day and All of the Night”, “Tired Of Waiting For You”, “Sunny Afternoon”, “Dedicated Follower of Fashion” e “You Really Got Me”.

Dopo l’uscita del singolo “To The Bone” (1996), i Kinks si sciolsero. Negli anni successivi, la notizia di una loro possibile reunion tornerà a più riprese a riscaldare i cuori dei fan. Nel giugno del 2018, i fratelli Davies, dopo aver messo da parte i vecchi rancori, hanno annunciato di stare lavorando a nuovo materiale insieme a Mick Avory. A tutt’oggi, però, non vi è ancora traccia di un nuovo disco.

Discografia Consigliata

The Great Lost Kinks Album (1973)
One for the Road (1980, live)

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