Bo Diddley
Altro grande padre del rock’n’roll, Bo Diddley nasceva Ellas Otha Bates il 30 dicembre del 1928 a McComb, nello stato del Mississippi. Si formò musicalmente, però, in quel di Chicago, dove si era trasferito nel 1934, entrando a far parte di una Chiesa Battista che lo vide studiare sia il trombone che il violino sotto la tutela del maestro di musica O. W. Frederick. Fu soprattutto il violino ad appassionarlo: con quello strumento suonò anche in un’orchestra fino all’età di diciotto anni. Contemporaneamente, però, iniziò a prendere anche lezioni di chitarra, uno strumento che aveva pensato bene di adattare alle sue esigenze: prese il manico e i circuiti da un modello della Gretsch e li piazzò su di un corpo di forma rettangolare che aveva preparato con le sue stesse mani (anni dopo, nel 1958, avrebbe chiesto direttamente all’azienda di Brooklyn di perfezionare la sua “invenzione”, dando vita al modello in edizione limitata chiamato “Big B.”).
L’ascolto della musica pulsante e trascinante della Chiesa Pentecostale e l’incontro, a un concerto del 1949, con il blues di John Lee Hooker (fu soprattutto il brano “Boogie Chillen” a folgorarlo) gli fecero comprendere che era proprio quello strumento a sei corde la chiave per esprimere fino in fondo la propria identità. Un’identità che, nel frattempo, aveva assunto le fattezze di Bo Diddley, un nome che ricorda quello del «diddley bow», uno strumento monocorde di origine africana.
Così, insieme al contrabbassista Roosevelt Jackson, all’altro chitarrista Jody Williams e all’armonicista Billy Boy Arnold mise su un quartetto chiamato inizialmente Hipsters e, quindi, Langley Avenue Jive Cats. Le cose, però, non andarono subito bene. Il nostro fu allora costretto a sbarcare il lunario facendo diversi lavori (accarezzò anche l’idea di diventare un pugile professionista!), senza però abbandonare la musica. Così, nel 1954, tentando di dare uno scossone alla sua vita, Bo decise di incidere un demo e di girarlo a Phil e Leonard Chess, i due patron della Chess Records. I due si lasciarono convincere soprattutto dall’uso del tremolo che Bo si divertiva a sperimentare sulla sua chitarra.
Il primo singolo, uscito nell’aprile di quel fatidico 1955, conteneva sul lato A proprio il brano che portava il suo nome d’arte. Il suono “acquoso” e distorto della chitarra (suonata con il tremolo), il ritmo tribale e ipnotico (il cosiddetto «hambone» o «Bo Diddley Beat», un boogie sincopato molto simile al «clave rhythm» usato nella musica afro-cubana) e una particolarissima atmosfera caraibica (accentuata dal suono delle maracas di Jerome Green e dal solo uso dei tamburi della batteria, senza piatti) ne fanno un momento già maturo e assolutamente unico nel panorama del nascente rock’n’roll. “Bo Diddley” evidenziava il forte interesse che il musicista nutriva per la musica percussiva, così radicata nello spirito del popolo afroamericano. Sul lato B di quel singolo compariva, invece, “I’m A Man”, un rhythm and blues ispirato a “Hoochie Coochie Man” di Muddy Waters.
A conti fatti, “I’m A Man” può essere letto come uno dei diretti antecedenti di quello che, qualche anno dopo, si sarebbe imposto come «blues-rock». In quell’anno, Bo registrò anche “Diddley Daddy” (impreziosita dall’armonica di Little Walter) e “Pretty Thing”, altro momento dalla forte impronta percussiva.
A Novembre, sull’onda del successo, Bo approdò all’ Ed Sullivan Show (una delle trasmissioni televisive più importanti dell’epoca). Prima di andare in diretta, il presentatore gli chiese di suonare “Sixteen Tons”, una hit del bianco Tennessee Ernie Ford. Ma Bo decise di fare di testa sua e, una volta arrivato il suo turno, partì con la sua “Bo Diddley”, mandando su tutte le furie il signor Sullivan che, alla fine della performance, dietro le quinte, gli promise che non lo avrebbe più fatto apparire in tv (per la cronaca, per ben dieci anni quella promessa mantenne il suo effetto).
Senza battere ciglio, Bo continuò a rilasciare singoli, ma le posizioni altissime delle classifiche nazionali restarono per lui solo un miraggio. Tra i suoi brani più importanti registrati a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta c’è da ricordare, innanzitutto, “Who Do You Love”, un trascinante boogie in up-tempo costruito su di un solo accordo e forte di un testo che ben evidenzia il gusto surreale del nostro:
I walk 47 miles of barbed wire
I use a cobra-snake for a necktie
I got a brand new house on the roadside
Made from rattlesnake hide
I got a brand new chimney made on top
Made out of a human skull
Now come on take a walk with me, Arlene
And tell me, who do you love?
Cammino per 47 miglia lungo il filo spinato
Ho un serpente cobra per cravatta
Ho una casetta nuova di zecca sul bordo della strada
Fatta con la pelle di un serpente a sonagli
E c’è anche un camino sul tetto
Fatto con un teschio umano
Adesso vieni a fare quattro passi con me, Arlene
E dimmi tu chi ami?
“Who Do You Love” sarebbe stata ripresa, negli anni a venire, da una lunga schiera di musicisti e band, tra cui quei Quicksilver Messenger Service che, proprio a partire da essa, avrebbero costruito la chilometrica improvvisazione finita sul lato A del loro disco capolavoro del 1969, Happy Trails. In quel disco, la band di San Francisco riprendeva anche “Mona”, singolo che Bo aveva registrato e pubblicato nel 1957, dedicandolo, con molta probabilità, a una danzatrice esotica incontrata in un bar di Detroit.
Del 1959 è, invece, “Say Man” che, oltre a rinnovare la sua passione per il beat latineggiante, presenta un testo in cui viene ripescata una tradizione del Sud degli Stati Uniti, la cosiddetta «playing the dozens», una sorta di battaglia verbale in cui due interlocutori si scambiano offese a raffica.
Un anno prima, intanto, alcuni dei suoi singoli di maggior successo erano stati raccolti sulla compilation Bo Diddley (in cui compariva anche quella “Diddy Wah Diddy” che, nel 1966, Captain Beefheart & His Magic Band avrebbero registrato come loro primo singolo), seguita, di lì a poco, dal suo primo vero album, Go Bo Diddley (1959), che va avanti per una buona mezz’oretta tra atmosfere caraibiche (“Crackin’ Up”), languide romanticherie (“I’m Sorry”), strumentali che preconizzano la surf-music (“Bo’s Guitar”), numeri ballabili (“Willie And Lillie”, “Don’t Let It Go”, “Dearest Darling”), echi di blues arcaico (“You Don’t Love Me”) e la già citata “Say Man”.
Un certo successo lo ebbero, quindi, la divertente “Road Runner” (uscita nel 1960 e contraddistinta dal coro beep-beep, che richiamava quello dell’imprendibile struzzo del famoso cartone animato Wile E. Coyote and the Road Runner) e la saltellante “You Can’t Judge A Book By The Cover” (1962). Il trittico di album del 1960 (Have Guitar Will Travel / Bo Diddley in the Spotlight / Bo Diddley Is a Gunslinger) mostrano, invece, quanto il nostro sia stato influente su quella generazione di musicisti (Beatles, Rolling Stones, Animals, Pretty Things, etc.) che in Inghilterra si stava avvicinando, anche per il tramite del blues, al rock’n’roll.
Durante le esibizioni dal vivo, Bo – accompagnato dalla sua chitarra a corpo rettangolare e vestito con abiti vistosi e cappelli esuberanti – incrementava, nel frattempo, il suo status di figura di culto grazie a performance cariche di energia. Nel 1963, in seguito al clamore che la sua musica aveva suscitato tra tanti giovani inglesi, Bo volò oltre oceano per il suo primo tour in terra albionica, suonando insieme a Rolling Stones, Little Richard ed Everly Brothers. Un anno dopo, registrò, insieme a Chuck Berry, l’interessantissimo Two Great Guitars, un disco che, come sottolinea Piero Scaruffi, “contiene quattro lunghe jam che sono di qualche anno in anticipo sugli esperimenti del blues-rock”.
La seconda metà degli anni Sessanta scivolò via senza grossi scossoni. Nel 1967 registrò, dunque, Super Blues, un album nato da una session tenuta insieme a Muddy Waters e Little Walter. Continuò, quindi, a suonare senza sosta dal vivo, spesso invitato da band e musicisti che tanto gli dovevano in termini musicali. All’inizio degli anni Settanta, si trasferì nel New Mexico, dove, per un paio d’anni, lavorò addirittura come vice-sceriffo! Nel 1979 i Clash gli chiederanno di aprire i loro concerti durante il tour americano.
Un ritorno di fiamma, in termini di produzione musicale, ci fu, invece, durante gli anni Novanta, quando Bo cercò di farsi apprezzare anche dalle nuove generazioni. Dopo aver suonato la chitarra in un brano di One Day It Will Please Us to Remember Even This, disco del 2006 dei redivivi New York Dolls, Bo Diddley si spense il 2 giugno del 2008 in seguito ad un infarto.
“Ho aperto la porta a un sacco di persone, ma mi hanno lasciato in mano il pomello”
Discografia Consigliata
Bo Diddley (compilation, 1958)
Have Guitar, Will Travel (1960)
Bo Diddley in the Spotlight (1960)
Bo Diddley Is a Gunslinger (1960)
Two Great Guitars (1964; con Chuck Berry)
The Chess Box (box antologico, 1990)
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