Brandon Coleman, il Professor Boogie del synth-funk
Montare teatrini, posizionandoli qui e là negli angoli più insoliti e parimenti visibili, alla stregua del miglior mestierante di strada della Londra del secolo scorso, è un’inclinazione mutata rapidamente in pratica obbligata. Uno scenario che il più delle volte annienta il valore artistico appannaggio di un sipario provvisorio. E di una claque sempre più numerosa, pronta a sommergere di informazioni, talvolta totalmente inutili, una platea allo stesso tempo sempre più attratta dalla caramella di turno. Sarà al gusto lampone o coca cola? E’ un mix alla frutta o al cioccolato? Le domande, e ahimè anche le risposte, negli ultimi anni sono sempre le stesse. Qualcuno tira fuori una trovata, altri la diffondo e tanti altri ci cascano come api sul miele. Dunque, il problema resta sempre lo stesso. La qualità finisce troppe volte per essere sommersa da una serie impressionante di presunti musicisti ben vestiti, apparecchiati come le migliori tavole di Buckingham Palace da una flotta incalcolabile di esperti camerieri. Uno smacco per tantissimi giovani musicisti oggettivamente meritevoli ma senza un Don King 3.0 alle proprie spalle.
Una complicazione divenuta ormai irrisolvibile e che in fondo si interseca appieno con il richiamo delle tribune a tema variabile che imperversano ovunque e sui social. Un esempio: avete presente quella cosa chiamata dissing? Ebbene, oggi tale trovata ha perso letteralmente il suo significato. Tutti la usano esclusivamente per aumentare il numero dei clic. Scagliarsi contro qualcuno implica visibilità. E quindi non ci si difende più da qualcuno, ma ci si offende a vicenda solo per attirare preferenze e creare strampalati partiti musicofili. Insomma, in tutto questo fluire di incessante pochezza il vero miracolo è scrollarsi di dosso il fango che schizza da tutte le parti e provare a vederci chiaro. Tornare a una visione “analogica”, ed estendere la propria curiosità fuori dai portali che creano tendenza, è quantomeno il minimo che si possa fare per avere almeno in partenza un quadro dignitoso di ciò che merita e ciò che invece è mera apparenza.
Qualcosa di magico accade sicuramente imbattendosi nella musica di Brandon Coleman. Ricordate alcune delle migliori intuizioni di George Clinton? Ecco, prendete il suo modello synth-funk e aggiornatelo ai giorni nostri. Montateci sopra un bel carico di bassi sferzanti, pirotecniche contorsioni al synth, sorrisi smaglianti e avrete un’idea della musica di questo ragazzone proveniente dal circolo losangelino di FlyLo e Thundercat. Un altro di quelli cresciuti a pane e Ornette Coleman.
Pianista, organista, songwriter e arrangiatore: cosa chiedere di più? Ma soprattutto una vocazione scaturita dopo aver ascoltato Herbie Hancock restando letteralmente travolto dall’elettricità della sua proposta. Ed è per l’appunto un approccio elettrico e pulsante a caratterizzare il sound di Coleman. Uno stile che si appoggia al synth-funk più spaziale fin dalle prime battute del disco di esordio del 2015, Self Taught, e che si espande notevolmente nel recente secondo LP: Resistance. Un album che arriva niente di meno che per la rinomatissima Brainfeeder di sua maestà Steve Ellison. Del resto, il polistrumentista della città degli angeli non è di certo l’ultimo arrivato. Brandon Coleman ha suonato costantemente con Kamasi Washington, passando per Ciara, Mulatu Astatke, Childish Gambino, Shuggie Otis, fino ad arrivare a Babyface. Ed è stato proprio il primo a soprannominarlo “Professor Boogie”. Ogni volta che Coleman sale sul palco, Washington non rinuncia a celebrarlo alla sua maniera. Un moniker, tra l’altro, azzeccatissimo. E basterebbe il boogie spaziale che pervade la sua ultima uscita discografica a confermare la bontà della trovata dell’amico sassofonista.
Pensate a Rick James che insegue i Daft Punk e forse riuscirete a quantificare il mood compositivo di Coleman. Ascoltare poi alcuni ritmi di Resistance senza provare quella sensazione di ritrovarsi all’interno di un ipotetico party funky futurista è praticamente impossibile. Coleman mette in piedi un festino cibernetico a colpi di bassi schizzati, tastiere smaniose e ritmi psichedelici. Un impasto sonoro lucentissimo e frizzante che non rinuncia a specchiarsi in ballate romantiche in salsa soul, imbastite senza mai rinunciare al richiamo cosmico formato Sun Ra, come accade nella suadentissima There’s No Turning Back o nelle pause evocative della title track. Un’opera completa, entusiasmante, rigenerante. E un fenomeno vero.
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