Edoardo Genzolini e gli Who: sulle tracce di una rock’n’roll band
Intro
The Who. A million little memories. Ricordi di una rock’n’roll band (Arcana, 2018) è più di un libro sugli Who: è un’appassionata raccolta di testimonianze esclusive di quanti, all’epoca, ebbero la fortuna di conoscere o solamente incrociare i quattro membri di una delle band più importanti della storia del rock, lasciandosi ammaliare dalla loro musica carica di vibrante energia. Abbiamo intervistato per voi l’autore Edoardo Genzolini, che ha messo ordine in una miriade di “piccole memorie”, intervallandole con puntuali interventi critici sull’epopea e sul suono della band guidata dal chitarrista Pete Townshend.
Francesco Nunziata
Gli Who sono la tua band preferita o, comunque, una delle tue preferite in assoluto. Com’è nato l’amore per la band di Pete Townshend?
Edoardo Genzolini
Il momento in cui ho ascoltato gli Who per la prima volta ha coinciso con il momento in cui ho iniziato ad amarli. Era il capodanno del 2004-2005, avevo tredici anni e per qualche motivo che non ricordo ero rimasto a casa. Che si trattasse di una decisione mia o di una semplice mancanza di organizzazione tra me e i miei amici, questo non ricordo, ma in qualsiasi caso, si sarebbe rivelata una fortunata combinazione: all’una di notte, in televisione, Rete4 avrebbe trasmesso Woodstock. La mia vorace passione per il cinema, sbocciata solo l’anno prima grazie al programma di Rai3 “Fuori Orario”, e la mia altrettanto divorante curiosità per musica “altra” rispetto a quella proposta da MTV, su un’innegabile influenza degli ascolti di mio padre, in qualche modo hanno reso quel mio confronto con Woodstock inevitabile. Devo ringraziare, infine, la mia tendenza compulsiva a registrare pressoché tutto ciò che passava in televisione in quel periodo, perché quella videocassetta – che tuttora conservo sullo scaffale della mia camera – testimonia una delle due o tre esperienze più decisive che io abbia mai vissuto. Il suo nastro è oggi rovinato, particolarmente al minuto 00:22, il momento del film a cui per anni sarei sempre tornato, nel tentativo di capire perché io avessi trovato in quel punto il seme di tanto cambiamento. In quel fatidico minuto 00:22, un abile lavoro di montaggio libera quattro musicisti dal buio di un palco che sembra essere circondato dal nulla e li rappresenta nell’atto finale di Tommy – See Me, Feel Me. Quando il canto di Roger Daltrey viene armonizzato dalle voci di Pete Townshend e John Entwistle e il solenne ingresso di Keith Moon giunge a sostenere il tutto, dentro di me sento come un fiume in piena.
Mentre Townshend non manca mai di ricordare quanto Woodstock rappresenti un punto basso nella carriera degli Who, vorrei poter fargli sapere cos’ha provocato quella performance nell’anima di un ragazzino di tredici anni. Trovo in ogni caso utile puntualizzare come il mio amore per gli Who si circoscriva attorno al loro periodo con Keith Moon e non si estenda a tutte le loro successive incarnazioni. In questo senso, non mi ritengo un fan tradizionale: nel libro, tratto gli Who come un pezzo di archeologia musicale, sociale e culturale necessariamente legato a un periodo storico morto. Questo credo (spero!) esoneri il mio lavoro da qualsiasi intento nostalgico e celebrativo.
Francesco Nunziata
Quanto tempo hai impiegato per portare in porto tutto il progetto del libro?
Edoardo Genzolini
Due anni e mezzo, da gennaio 2016 a giugno 2018. È poco tempo, rispetto a quanto possa suggerire la mole di materiale all’interno del volume. Sta di fatto che questo è il periodo in cui ho elaborato scientemente quanto avevo iniziato a fare istintivamente molti anni prima, ossia raccogliere testimonianze dirette e materiali inediti legati agli Who appartenenti a chi aveva conosciuto la band nel suo periodo aureo, che mi prendo la libertà di identificare nella seconda metà degli anni ’60 fino ai primi anni ’70.
Francesco Nunziata
Il tuo libro è strutturato in modo particolare: in esso, non solo racconti la crescita artistica della band durante il suo periodo di massimo splendore (1967-1974), ma intervalli questo racconto con l’inserimento di numerose testimonianze di altri fan degli Who, tutti stranieri, che vissero in presa diretta quel periodo, prendendo parte ai loro concerti, entrando in diretto contatto con i membri della band, etc. In che modo si è fatta strada in te l’idea di questa struttura? Come hai avuto accesso alle varie testimonianze raccolte?
Edoardo Genzolini
Il taglio è derivato dalla mia ossessione per il tempo e per i suoi effetti – che questo possa portare, appunto, “un milione di piccoli ricordi” a sfumare fino a scomparire per sempre. Se poi tali ricordi sono legati agli anni ’60, l’urgenza di cristallizzare le testimonianze di chi ha vissuto un passaggio nella storia così repentino e mutevole, per quanto rivoluzionario, è più che mai forte. Da questo pensiero, dunque, il desiderio di dar voce a una memoria collettiva prima che scompaia nel tempo e si perda tra i luoghi comuni e stereotipi che l’industria culturale produce attorno a certe manifestazioni e attorno al concetto di “Rock” in generale. Ho voluto, inoltre, privilegiare una voce collettiva proveniente “dal basso”, autorevole perché nata dall’esperienza diretta di certi fenomeni socioculturali, anziché assumere un’immeritata posizione “dall’alto” di chi intenda spiegare qualcosa agli altri e che, al contrario, non fa altro che allontanare la possibilità di un confronto per quanto possibile “oggettivo”.
La mia passione per gli Who si è sviluppata al punto da maturare il desiderio di ridurre lo spazio-tempo. Questo, proprio perché da sempre impossibile, ha se non altro generato un’infinità di tentativi che ha portato alla raccolta di tutte le testimonianze che si trovano ora nel volume. Si è trattato di un desiderio, come si può capire, lontano negli anni, che mi ha portato sin dall’adolescenza a intessere una rete di contatti di persone legate agli Who – familiari, amici, vicini di casa, fotografi –, un’operazione che si sarebbe rivelata solo molti anni dopo utile ai fini di pubblicazione. Facebook si è rivelato un buon punto di partenza, proprio perché i canali principali che esso presenta (“Who fan page” varie ed eventuali) sono quelli che, inizialmente, avevo un po’ snobisticamente evitato. Ho iniziato con il contattare un paio di persone note all’interno dell’universo Who, facendomi reindirizzare da loro ad altre persone meno celebri e così via, fino ad allontanarmi dal supporto seppur agevole di Internet. I materiali più rari e preziosi legati alla band, difatti, sono provenuti da lunghi tentativi di contattare persone irrintracciabili se non via telefono.
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Francesco Nunziata
Vuoi chiarire brevemente, per quei lettori che ancora non lo sapessero, cosa fu e di cosa si nutrì la subcultura dei Mod, cui gli Who furono, in un modo o nell’altro, legati?
Edoardo Genzolini
Il Secondo Conflitto Mondiale aveva prodotto disfacimento dal punto di vista politico, ma generò aggregazione sia dal punto di vista sociale che culturale tra le giovani generazioni della Working Class. In un’Inghilterra economicamente distrutta e con un’identità e un prestigio internazionale compromessi, i giovani tradussero uno stato di dissociazione in associazione e omologazione, costituendo gang fondate su rigidi dettami estetici. Il movimento Mod è una delle incarnazioni di questo sentire collettivo. Il primo fu rappresentato dai Teddy Boys, dai quali i Mods avrebbero ereditato il tratto elegante, mentre l’altra corrente dei Rockers ne avrebbe ereditato i riferimenti estetici intrinseci provenienti dall’immaginario statunitense degli anni ’50, dettato dal Rock and Roll di Eddie Cochran e Gene Vincent e dallo stile, ad esempio, di Marlon Brando de Il Selvaggio. I Rockers sono quelli che dimostrano un legame pressoché ininterrotto con i Teddy Boys, mentre i Mods spostano il loro orizzonte culturale allo stile italiano di fine anni ’50 per quanto riguarda l’abbigliamento – su influenza del Mastroianni di Fellini e di Antonioni e del Belmondo di À bout de souffle di Godard – e musicalmente al Modern Jazz, Hard Bop, Blue Beat, Tamla-Motown. I Mods conducono uno stile di vita basato sulla novità, sullo sfoggio dell’ultima tendenza – un edonismo che si risolve nel weekend, trascorso a ballare in club e discoteche e alimentato dall’assunzione di anfetamine per restare svegli fino a inizio settimana. Il libro contiene numerosi interventi di Townshend attorno all’etica Mod, che egli definisce mirabilmente come “una grande manifestazione di solidarietà in cui sentivi di appartenere a qualcosa, il primo atto di giovinezza”. Gli Who del movimento Mod sono stati gli interpreti più sensibili ma anche i meno ortodossi. Forse per questo ne hanno celebrato l’ethos meglio di quanto non siano riusciti a fare i loro contemporanei Small Faces, Kinks, Yardbirds o Action. Erano i più amati per la loro capacità di smascherare e di esaltare la fragilità di un movimento che tendeva a reprimere un sostanziale malessere sociale ed esistenziale. Townshend fu il primo musicista a capire i Mods, a intravedere le debolezze che celavano gli strati dei loro parka e completi eleganti.
Francesco Nunziata
A tuo avviso, gli Who sono la band più influente degli ultimi cinquant’anni. Vuoi spiegarci perché?
Edoardo Genzolini
È una dichiarazione effettivamente azzardata e forse generica, ma non priva di fondamento. Se i Beatles rivestono la categoria del Classico nell’ambito Pop per aver fondato un linguaggio, gli Who sono stati i più lungimiranti e rivoluzionari nel trasmetterlo e nel rivisitarlo, tanto in termini compositivi, quanto in termini stilistici, soprattutto a livello di esecuzione e di attitudine: Helter Skelter degli stessi Beatles nasce come scommessa di creare qualcosa di più violento di I Can See For Miles. Ogni elemento introdotto dagli Who riecheggia tuttora, sotto tutti i profili: My Generation segna l’affrancamento del Rock and Roll come mero divertissement e la sua riscoperta come mezzo d’espressione di una coscienza di classe, prima del Punk inglese e americano, al quale gli Who hanno trasmesso l’intensità dell’esecuzione come altro elemento che rifletta, oltre ai testi, uno stato d’animo individuale e collettivo. Oltre al Punk inglese, gli Who hanno permesso lo sviluppo di un Mod revival, grazie al film Quadrophenia nel 1979, rappresentato dal genio di Paul Weller tanto nei Jam e negli Style Council, quanto da solista. Per non parlare, poi, di tutto il Britpop. Persino il Punk americano è debitore agli Who: il sound e l’attitudine sul palco di band del Michigan come Stooges ed MC5 cambiò radicalmente dopo che gli Who passarono per la prima volta per Ann Arbor nel giugno del 1967 e poi per Detroit, suonando alla Grande Ballroom, nel marzo del 1968. Ci sono mille altri esempi di influenze che si potrebbero richiamare: Pictures of Lily, del 1967, come primo brano Power Pop della storia; My Generation come primo brano ad avere un solo di basso elettrico…
Al di là di ogni influenza particolare, a fare degli Who una band fondamentale è la loro capacità di rappresentare musicalmente quel fenomeno tipicamente novecentesco, riscontrabile nei più originali ambiti artistici, di sfrangiamento dei canoni stilistici ed estetici classici. Eppure, la band occupa una posizione marginale in diverse e presunte autorevoli classifiche e assente in altre: sembra quasi che la loro influenza si sia dimostrata negli anni talmente capillare da essere data per scontata.
Francesco Nunziata
Dal vivo, sia Townshend che Moon erano soliti distruggere, alla fine del concerto, la propria strumentazione. È nota l’influenza dell’artista Gustav Metzger, pioniere del cosiddetto «distruzionismo», sulle idee di Townshend. Quanto di istintivo, però, c’era nei gesti dei due musicisti e quanto di calcolato?
Edoardo Genzolini
A essere istintivo era il modo di Townshend e di Moon di occupare il palco e di approcciarsi allo strumento in un modo così fisico, dionisiaco, tribale, che si spinse a un punto tale da sfociare inevitabilmente nel rituale di distruzione. Questo avvenne nel 1964, quando gli Who, ancora sotto il nome di High Numbers, stavano suonando in una venue dal soffitto basso che Townshend bucò inavvertitamente con la paletta della sua Rickenbacker, tra un movimento e l’altro. Sembrerà strano, ma egli confessò di non sentirsi pronto per una cosa del genere. Sarebbe diventato qualcosa di calcolato da quel momento in poi, quando Townshend cercò di giustificare un tale gesto caricandolo di connotati estetici e sociali.
Francesco Nunziata
Pete Townshend alla chitarra, Roger Daltrey alla voce, John Entwistle al basso e Keith Moon alla batteria: questa la formazione classica degli Who. Quattro personalità diverse, quattro musicisti ognuno a suo modo importante per l’evoluzione del proprio strumento in ambito rock. Vuoi tracciare un loro breve profilo caratteriale e musicale?
Edoardo Genzolini
È proprio la convivenza di quattro personalità così antitetiche tra loro in uno stesso gruppo a rendere gli Who particolarmente interessanti. Persino l’album Quadrophenia si fonda su quest’aspetto, nel raccontare i turbamenti adolescenziali di un ragazzo, legati alla difficoltà nel riuscire a trovare un equilibrio tra quattro diversi tratti della sua personalità, ognuno dei quali oggettiva il punto di vista di ogni membro degli Who. Tra le cose che emergono dai racconti delle persone che ho intervistato per questo libro, al di là degli aneddoti legati ai concerti, è la freschezza dei ricordi legati al primo impatto personale con i quattro musicisti. Tutti hanno rimarcato la fortuna che hanno avuto nel conoscere da vicino gli Who in un momento storico favorevole, in cui il rapporto tra musicista e fan era consentito da concerti in posti piccoli e dalla pressione dello show business ancora lontana. Tutte le testimonianze che ho raccolto raccontano di John Entwistle come una persona estremamente socievole e cortese – insomma, totalmente in opposizione alla sua sinistra, immobile presenza sul palco che comunica tutto tranne che amichevolezza! Lo stesso per Keith Moon, di un’irrequietezza e follia sul palco che si rivela, nel backstage, una disarmante timidezza. In molti ricordano la genuinità di Roger Daltrey, il suo animo semplice e “terreno”, sempre ben disposto ad accogliere fan e giovanissimi fotografi nel backstage. Pete Townshend, invece, emerge come l’elemento più sfuggente ed enigmatico del gruppo. Estremamente umorale e imprevedibile, la sua personalità viene rispecchiata appieno dal suo stile chitarristico – guizzante, repentino, sempre in uno stato di sospensione che può pacarsi come diventare violento. Emerge, in qualsiasi caso, una personalità molto complessa, propria di un intellettuale prestatosi alla musica giovanile di quel momento storico a cui egli stesso cercava di dare sempre nuove articolazioni ispirandosi a tutt’altri generi. A tal proposito, è singolare il racconto del suo amico Jeremy Goodwin, che ricorda di non aver trovato in casa del leader degli Who nessun album dei vari Led Zeppelin, Doors o Cream ma solo di musica classica e di Jazz.
Francesco Nunziata
Nel libro sostieni che «gli Who hanno scarnificato, per sottrazione, la “grammatica” del rock classico ed elaborato un lessico musicale inaudito.» Quali le caratteristiche principali di questo lessico?
Edoardo Genzolini
Un lessico fondato su due sostantivi in particolare, che insieme, come sostenne lo stesso Townshend in un’intervista del 1966, formano un binomio stupefacente: “Power and Volume”. In questi due termini quasi si riescono a intravedere gli sviluppi del Rock and Roll del periodo e leggere i nomi di molte band che lo avrebbero rappresentato.
Francesco Nunziata
Tra gli anni Sessanta e Settanta, anche attraverso una rubrica da lui stesso curata sul «Melody Maker», Townshend mostrò di essere uno dei più raffinati e lucidi interpreti delle dinamiche della musica rock. In che modo questa sua attività e quella di compositore/musicista si compenetrarono a vicenda?
Edoardo Genzolini
Il primo incontro tra l’attività di scrittura editoriale e musicale di Townshend ha luogo nella seconda metà del 1970, quando fu elaborata l’idea di un progetto successivo all’album Tommy, chiamato Lifehouse. Si tratta del lavoro con cui Townshend provò a cambiare le strutture profonde del Rock. Egli intravede in questo genere un immenso potenziale unificante, che però è destinato a rimanere inespresso finché non verranno abbattute vecchie formule che regolano da troppo tempo il rituale collettivo del concerto. Questo è difatti basato su un rapporto di subalternità tra musicista e pubblico, nel quale il secondo riceve passivamente il messaggio del primo, senza mai contribuire al processo creativo e a instaurare, quindi, una vera comunicazione con l’altra parte. Su ispirazione della lettura The Mysticysm of Sound, di Inayat Khan, Townshend traduce questo pensiero nell’immagine di una nota alla base dell’universo, una sorta di sacro OM, alla quale si tende sempre durante i concerti, ma che non si riesce mai a riprodurre. Townshend, da visionario qual era, non si è limitato a scriverci una storia per un album, ma a fare in modo che un cambiamento sensibile all’interno dei concerti Rock avesse realmente luogo. La sua scrittura editoriale e musicale s’incontrano in questo tentativo di creare un vero contatto con il proprio pubblico: da una parte, secondo la tecnica del Creative Feedback Experiment, egli fa degli interventi sulla propria pagina attorno alle idee sul nuovo album, invitando i lettori a intervenire e a interagire con lui; dall’altra, organizza dei concerti allo Young Vic Theatre di Londra, nei quali il pubblico avrebbe avuto accesso alla strumentazione, dando luogo così a una sinergia che avrebbe permesso l’espressione della soggettività di entrambe le parti. Il progetto, infine, sarebbe affondato in tutta la sua ambizione e dalle frattaglie di Lifehouse sarebbe nato Who’s Next.
Magari non è andata proprio secondo la sua visione, ma Townshend, il Rock, con o senza Lifehouse, sarebbe riuscito a cambiarlo comunque.
Francesco Nunziata
Come furono accolti, dalle nostre parti, gli Who all’epoca della loro massima fioritura?
Edoardo Genzolini
Tiepidamente. Gli Who hanno sempre avuto un rapporto nefasto con l’Italia, a partire dalla loro prima volta nel febbraio del 1967, a Torino, all’interno del primo “Beat Piper Show” al Palazzetto dello Sport. Basta leggere il titolo de «Il Messaggero» del giorno successivo al concerto: “Le frenetiche esibizioni dei ‘beat’ non scatenano il pubblico dei giovani”. Segue un live report che ha del fantascientifico: band che arrivano a sgolarsi pur di “smuovere i giovani spettatori dalla loro apatia”; promoter della serata che invitano il pubblico a fare baccano, e via dicendo. La stampa non si dimostra comunque meno spiazzante dell’intorpidita audience: la terminologia con cui viene descritto l’evento – paragonato a una “corrida” dove si è esibita l’“orchestrina” Who – è un chiaro indicatore dei riferimenti culturali del periodo. Alla luce di questo, non ci si dovrebbe più di tanto scandalizzare se un gruppo come gli Who sia stato accolto con tale freddezza. Meglio il concerto al Palalido di Milano, qualche giorno dopo: in quell’occasione, il «Corriere della Sera» riportò addirittura la presenza di un Who Fan Club in quel di Monza.
Incomprensibile, invece, il flop al Palaeur di Roma del 14 settembre del 1972, l’ultima data di un tour europeo che vide gli Who al massimo della forma. In quell’occasione, la band fu accolta da “un pubblico rimasto impassibile per tutta la durata di un set per cui la maggior parte dei gruppi scambierebbe il proprio impianto sonoro”, come riporta il giornalista e amico della band Chris Charlesworth. Le sole settemila copie vendute in Italia di Who’s Next l’anno prima non avevano, comunque, preparato a una data così poco celebrata. C’è da dire che l’Italia dei primi anni ‘70 è uno scenario politico e sociale talmente contraddittorio da far passare un concerto, condotto in religioso silenzio da un gruppo di scalmanati come gli Who, come qualcosa di neanche troppo paradossale. Ai Led Zeppelin, l’anno prima, e a Lou Reed, tre anni dopo, andò comunque peggio.
Francesco Nunziata
Qual è il disco che meglio incarna l’essenza del suono Who?
Edoardo Genzolini
Il suono Who viene espresso diversamente in studio e dal vivo, quindi ti cito due album: Live at Leeds e Who’s Next. Entrambi rappresentano una maturità in due ambiti diversi. Live at Leeds documenta l’essenza degli Who dal vivo nel loro periodo più felice – il tour invernale di Tommy, che prevedeva due ore e mezzo di concerto – mentre Who’s Next la loro crescita come band da studio. Quest’ultimo è l’album con cui gli Who vengono normalmente associati proprio per l’uso distintivo dei sintetizzatori e per il lavoro meticoloso del tecnico del suono Glyn Johns, che fece in modo che i brani suonassero come se fossero proiettati nel futuro. Ha contribuito alla notorietà di Who’s Next, al punto da renderlo l’emblema perfetto del “suono Who”, anche la presenza di alcuni suoi brani in film come SOS: Summer of Sam di Spike Lee e nella serie CSI.
Francesco Nunziata
Quale eredità hanno lasciato gli Who alle generazioni di giovani musicisti?
Edoardo Genzolini
Un immaginario che si mostra tuttora prolifico e che rappresenta, a mio avviso, la fonte più ricca per la formazione musicale e soprattutto spirituale di un adolescente. I miei ricordi più belli sono legati ai ritorni in autobus a casa durante il primo anno di liceo – pieno di turbamenti, ma sostenuto da quella musica così potente, straripante di vitalità, ascoltata su un Compact Disc. Gli Who permettono un meccanismo mimetico che salva la vita da quello che Joe Brainard definisce l’“empty feeling” proprio di quell’età.
Francesco Nunziata
Devi fare una playlist delle tue quindici canzoni preferite degli Who. Quali scegli?
Edoardo Genzolini
- “See Me, Feel Me”
- “I Can’t Explain”
- “Glow Girl”
- “Heaven & Hell”
- “Dogs”
- “Sea And Sand”
- “Much Too Much”
- “Naked Eye”
- “I Can’t Reach You”
- “I Can See For Miles”
- “Substitute”
- “Baba O’Riley”
- “Bargain”
- “I’m One”
- “So Sad About Us”
Francesco Nunziata
So che ti occupi anche di cinema, curando, tra le altre cose, rassegne e retrospettive. Nel 2017, hai anche realizzato il tuo primo film, il cortometraggio buonavisione. Hai mai pensato di realizzare un film incentrato sull’universo musicale degli Who?
Edoardo Genzolini
Trovo questo libro un esercizio non lontano da quello già compiuto con buonavisione, nell’essere entrambi degli esempi di found footage che prevedono la riappropriazione di materiali e contenuti altrui e la loro successiva risemantizzazione attraverso un ordine che rifletta un criterio logico-estetico personale. Probabilmente, se avessi trovato nella mia ricerca abbastanza materiali video legati agli Who, anziché un libro avrei fatto un film. Avrei più o meno proseguito quello che è già un bellissimo esempio di found footage sugli Who, The Kids Are Alright, di Jeff Stein.
Francesco Nunziata
Prossimi progetti?
Edoardo Genzolini
Un altro film e un’edizione inglese che sia il doppio più ricca di questa italiana. Per l’occasione, sono riuscito a trovare materiali di una rarità unica, di cui neanche gli stessi Pete e Roger hanno idea, ma spero se ne facciano una presto!
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