IL “CANONE BOREALE” DELLA MUSICA DEL ‘900
Intro
Tra i libri di argomento musicale pubblicati nell’ultimo anno, un posto di rilievo lo merita senza dubbio “Canone boreale. 100 opere del ‘900 musicale (colto sopra l’equatore)”, scritto dal critico musicale, giornalista e saggista Federico Capitoni ed edito dalla Jaca Book. Un viaggio nella musica “colta” del Novecento attraverso la selezione di cento opere fondamentali, analizzate con competenza e con un linguaggio chiaro, rigoroso e mai sterilmente specialistico.
Di seguito, la nostra intervista con l’autore.
Francesco Nunziata
All’alba del Novecento, mentre alcuni musicisti guardavano ancora con un certo interesse al passato, altri, invece, si muovevano già in direzione del futuro. Questa dinamica si è ripetuta anche nel passaggio tra XX e XXI secolo?
Federico Capitoni
Non molto, c’è stata piuttosto molta continuità. Questo perché, a mio avviso, nel frattempo si è sviluppato un altro percorso musicale rappresentato dai generi “pop” che, essendo più giovani, non avevano ancora finito di dire tutto. Ma non si tratta tanto, adesso, di guardare il passato o di rompere con esso, proprio perché l’abolizione di paletti, steccati e generi, la commistione dei linguaggi e delle culture ha conseguentemente portato anche all’annullamento dei termini di paragone. Chi dovrebbe sfidare o superare un giovane compositore oggi? Non ci sono più nemici. Si tratterebbe di dire il non detto, di fare il non fatto, ma è sempre più difficile perché anche il tempo delle provocazioni (si vedano, per dire, i dadaisti) è finito.
Francesco Nunziata
Quali sono le prospettive più interessanti della musica colta dei nostri giorni?
Federico Capitoni
Appunto, molto difficile rispondere. Una canzone o una musica per il cinema coinvolgenti e/o ben congegnate restano apprezzabili e dubito che in futuro il nostro orecchio o il nostro gusto possano cambiare al punto di renderle obsolete o addirittura repellenti. Rispetto alle novità, ed eventualmente alla ricerca, credo che molto sia legato alle nuove tecnologie e alla capacità di proporre un risultato sintetico che sia frutto di tutte le esperienze che la musica ha portato finora. Non casualmente l’ultimo pezzo del Canone, in vain [composizione del 2000 di Georg Friedrich Haas], che chiude il secolo e apre il successivo, è un lavoro riepilogativo. Già appartiene però a un indirizzo estetico assimilato e ormai molto frequentato, ha finito di essere una novità.
Francesco Nunziata
Il sottotitolo del tuo libro ci informa che le cento opere selezionate sono state individuate tra quelle maturate e pubblicate “sopra l’equatore”, cosa del resto già evidente nell’aggettivo “boreale” del titolo stesso. Si tratta di una scelta legata a mere questioni di spazio e di organizzazione del materiale? O che altro?
Federico Capitoni
Più di un collega mi ha detto che specificare la porzione di globo forse è addirittura superfluo, nel senso che anche se si fossero scelti cento pezzi senza dividere in due il mondo, sarebbero comunque usciti dall’emisfero superiore (e per lo più occidentale). Insomma, per fare una storia della musica del ‘900 si ci si potrebbe riferire soltanto all’Europa, alla Russia e agli Stati Uniti senza procurare troppi torti od omissioni (si guardino in effetti gli indici dei libri di storia della musica moderna e si contino i nomi extra-occidentali). Io sono abbastanza d’accordo, nel senso che tralasciare qualche sudamericano, per esempio, non inficia il percorso storico formativo che un ascoltatore può fare per orientarsi nella musica contemporanea. Ma soprattutto – e questo tengo sempre a precisarlo perché non a tutti è chiaro – il risultato di questa scelta non dipende da una selezione di autori, bensì di brani. A rigore – come si può vedere dall’indice – non sarebbe importante neanche conoscere gli autori dei pezzi o i luoghi in cui sono stati concepiti. Si tratta di ascolto, quindi ciò che conta è la musica: in maniera puramente fenomenologica, si ha a che fare con le composizioni che tracciano un paesaggio sonoro; parlare di chi le ha scritte (e di dove ha vissuto) è secondario – superfluo direi, obbligatorio solo per ragioni storico-musicologiche – ma il lettore del libro potrebbe anche soltanto conoscere i titoli o, meglio ancora, come suonano i brani: sarebbe più che sufficiente, anzi sarebbe l’ideale. Mai l’epoché husserliana sarebbe meglio perseguita… «Alle cose stesse»: le composizioni. E la circostanza vuole che cento composizioni che spieghino sufficientemente il secolo appena trascorso, siano concepite a nord dell’equatore. Ciò non implica, logicamente, che quelle scritte a sud non abbiano egual valore: semplicemente non c’è bisogno di ricorrervi.
Non andrebbe tralasciato infine il riferimento ludico che ha ispirato il titolo: la risposta al “Canone occidentale” di Harold Bloom. La mia idea è che, almeno per quanto riguarda la musica del Novecento, la divisione culturale non sia più longitudinale (Oriente-Occidente) bensì trasversale.
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Francesco Nunziata
Alcuni musicisti del secolo scorso hanno indagato la materia musicale con approccio filosofico. Nell’epoca della crisi dei grandi sistemi filosofici e del crollo sempre più evidente della Tradizione, può la Musica raccogliere il testimone della Filosofia per ridare un senso alle cose?
Federico Capitoni
Direi che l’arte in generale spesso è un veicolo filosoficamente più potente del pensiero speculativo stesso (quello organizzato logicamente, intendo). Perché, intenzionalmente o meno, ha sublimato attraverso altre forme le grandi domande dell’uomo, universalizzandole tramite un linguaggio per lo più emotivo che aggancia – identificandoli – il pensare al sentire. La musica in questo è micidiale: quando ben riuscita, traduce il pensiero in vibrazioni (o meglio: manifesta la domanda verbale in forma vibrazionale) e ci induce proprio a uno stato di autocoscienza in cui le domande sul mondo sono inevitabili (è pressappoco la tesi di un mio vecchio libro). Certo, da parte dell’ascoltatore ci deve essere vera una propensione all’ascolto (anticipo qui l’idea – sulla quale sono interpellato più avanti – che per ascoltare la musica non basti mettervisi al cospetto). Quanto al passaggio di testimone, direi di no: non è che la filosofia – comunemente intesa – sia sostituibile dalla musica; però la musica pensata (quella appunto “colta”, per quanto questo termine possa disturbarci e sembrarci snob) può portare anche chi non è avvezzo alla speculazione filosofica a interrogarsi grazie a un linguaggio più o meno familiare (e – qui il dibattito devierebbe – “universale”, in termini sensibili) che è fatto di suoni e movimento, dove il concetto è nascosto nell’involucro della forma acustica liberandosi poi nell’atto dell’ascolto.
Francesco Nunziata
Con la sua Nona Sinfonia, Gustav Mahler colse, nel primo decennio del Novecento, lo Zeitgeist del proprio tempo, lasciando intravedere anche spiragli di futuro prossimo venturo. Se tu dovessi indicare un’opera musicale che ha incarnato al meglio lo Zeitgeist di questi primi due decenni del XXI secolo, quale sceglieresti?
Federico Capitoni
A parte – ahimè – la trap? ? Non saprei, in maniera assoluta. Di certo gli esperimenti di “social symphony” di Tan Dun, Eric Whitacre, Chip Michael, ecc. sono sintomatici di un nuovo invito al pubblico, agli ascoltatori e agli “altri” musicisti, di entrare nell’opera (di segno diverso però da quello in cui gli avanguardisti degli anni ’60 – per esempio Fluxus – coinvolgevano gli spettatori: purtroppo, talvolta – soprattutto quando si prende sul serio, è molto più biecamente popolare). È la poetica del web: commenti aperti, blog possibili… Una libertà espressiva che rischia di mettere tutti sullo stesso piano. D’altro canto è un passaggio obbligato, e interessante: neanche con Duchamp e Fontana ci si era interrogati tanto – come questo periodo – su cosa fosse arte e cosa no, su chi fosse artista e chi no. Oggi qualcuno già ha sentenziato: tutti siamo artisti (quindi nessuno lo è, se la logica ha ancora un senso). Io non ho ancora un’idea precisa su questo.
Francesco Nunziata
Durante il Novecento, non solo i musicisti ma anche diversi pensatori si sono interrogati sul significato della musica, un “oggetto” così misterioso da lasciare sempre spazio all’indeterminazione. Potresti, in ogni caso, provare a dirci cosa è per te la musica?
Federico Capitoni
… Se rispondo definitivamente mi danno il Nobel! Per me musica è configurare la relazione tra il ritmo dell’esistenza personale e quello del resto del mondo. (Assunto che il ritmo sia l’essenza irriducibile, il nocciolo ontologico, della musica).
Mi pare poi valida, ma purtroppo non radicale, la definizione da dizionario (arte o scienza di organizzare suoni… È invero, a mio avviso, il metro a contare di più, investendo il concetto di musica anche la poesia) mentre maggiormente definitiva, ma discutibile perché non specifica e per di più circolare, quella “cageana” per cui musica è tutto ciò che per noi è tale: questo allora si può dire per ogni cosa.
Alla fine preferisco la mia (che peraltro è momentanea, cioè attuale).
Francesco Nunziata
Gli unici artisti di ambito rock che trovano spazio nel tuo libro sono Brian Eno, Frank Zappa e, volendo, anche Erkki-Sven Tüür che, prima di darsi alla musica classica contemporanea, aveva suonato negli In Spe, una formazione di rock progressivo. Che rapporto hai avuto e hai con la musica rock? Negli ambienti accademici è ancora forte la resistenza nei confronti del suo linguaggio musicale oppure la musica rock è ormai considerata un linguaggio artistico che, almeno nelle sue migliori espressioni, può competere anche con i mostri sacri della musica colta?
Federico Capitoni
Lo stesso di Tüür… Cioè anche io ho iniziato dal rock. Il mio rapporto con la “musica rock” è sanissimo; il rock è forse la maniera musicale con la quale ho una relazione (nell’ascolto come nella pratica) più viscerale – corporea, meglio – che speculativa. Ma, rispetto a questo, per fortuna le cose sono cambiate un po’ in ambito accademico, sebbene ancora non sufficientemente. L’università è un pelo più avanti dei conservatori, ove le classi di pop-rock si stanno affacciando ora, ove – per parlare della mia esperienza – il numero di ore storia della popular music (di cui il rock è notevole protagonista) è davvero esiguo. Per quanto mi riguarda, se fossi al MIUR, ripenserei i programmi di storia della musica in conservatorio che per il momento prevedono tre anni di storia della musica (intesa come “storia della musica classica”, e forse li ridurranno due) e poi moduli più ridotti di storia del jazz e storia della popular music. La differenziazione è nociva: andrebbe pensato un percorso di storia della musica “totale” ove, negli anni di corso, si affrontano music classica e pop, jazz e folk, elettronica e orientale… Preludendo cioè a un’idea di dimensione musicale unitaria, all’interno della quale fare pure tutte le differenziazioni che si vogliono ma tenendo conto delle relazioni strettissime che ci sono tra i “generi” (virgoletto perché ci sarebbe da discutere sull’efficacia del termine, preferisco – per il momento – i più vaghi “modi” o “maniere”). Sinceramente, se faccio ascoltare a lezione la Sinfonietta di Janàcek o i Quadri di un’esposizione di Musorgskij, non posso non riferirmi anche a Emerson Lake and Palmer (e, nel caso del russo, perché no?, anche della colonna sonora fake della fake “Corazzata Kotionkin” – sic! – del Secondo tragico Fantozzi), e non tanto per bisogno di completezza o eccentricità didattica, quanto perché bisogna sapere che un buon numero di generazioni deve la conoscenza di Janàcek e Musorgskij proprio alla band inglese: si tratta di non soltanto di riconoscere un merito, ma di considerare un aspetto sociologico, e di consumo, per il quale, senza certo rock, molta musica classica non farebbe parte dell’immaginario collettivo. Insomma, la storia della musica è una; nel senso che la Musica (in tutte le sue manifestazioni con la “m” minuscola – lo so, sono un neoplatonico) ha avuto una storia, che non si può dividere in compartimenti stagni. Forse esistono una storia della pittura a fresco e su tela e una storia dei graffiti e della street art? E che Keith Haring non rientra forse nella più generale storia dell’arte?
Francesco Nunziata
Come è cambiata, dagli anni Sessanta ad oggi, il rapporto tra musica colta e musica rock?
Federico Capitoni
Oggi è più assimilato, per forza di cose… Esistenziali. Il rock fa parte della vita di tutti i musicisti attuali, non c’è più alcuna generazione che non l’abbia incontrato. E, se si è musicisti veri – cioè aperti all’ascolto, né il sound né l’approccio tipici del rock non possono aver in qualche maniera giocato nella creatività del compositore “colto”. E fin qui la permeazione inconsapevole (ci sono un sacco di compositori che il rock non lo amano o che non lo ascoltano abitualmente). Poi si può distinguere tra la forzatura con la quale certi compositori di vecchie generazioni (vedi Berio) hanno fatto entrare il rock nella loro musica, la via di mezzo con cui altri hanno vi instaurato un rapporto più o meno fecondo (Reich o Romitelli), e infine chi ha con il rock un rapporto vero, esperienziale (il succitato Tüür e altri – pochi). Quanto al contrario, era naturale che – rispetto a un certo snobismo dell’accademia – fossero i rockettari a cercare di nobilitarsi cercando di far entrare la musica classica o d’avanguardia nella loro attività (da Battiato e McCartney che incontrano Stockhausen a Zappa o al progressive, gli esempi sono tanti). Ma, come per le vecchie generazioni di maestri “colti”, anche in questo caso spesso tale accoglienza è stata di maniera, generata da curiosità e infatuazione più che da vero tentativo di trovare una mediazione o una incorporazione (Zappa direi che rappresenta un’eccezione, ma finché resta nel suo, nel rock, il resto è imitazione). Forse esempi come – per dirne uno – quello di Johnny Greenwood e dei Radiohead manifestano una maggiore consapevolezza. Insomma, per dire che il più delle volte sono incontri di comodo tra due mondi che non necessariamente si stimano e si sentono somiglianti.
Francesco Nunziata
L’insegnamento musicale nelle scuole italiane è sempre stato poco incoraggiato e, purtroppo, ancora oggi si risolve troppo spesso nella mera applicazione di stantie procedure didattiche. In che modo, a tuo avviso, potrebbe essere rilanciato? Cosa diresti ai giovani di oggi che considerano la musica classica, contemporanea o meno, come una zavorra di cui si può tranquillamente fare a meno?
Federico Capitoni
Tra i tanti aspetti della cultura musicale, quello didattico è un problema tra i più difficili. Perché è facile dire che ci vorrebbero più ore – e svolte più seriamente – di musica, ma cosa sottrarvi? Se la tesi più brandita è: ci sono ore di storia dell’arte, perché non anche storia della musica?, allora si può dire (e io lo dico): perché non anche storia del cinema, storia del teatro, storia della danza, storia dei media, della fotografia…? Anzi, proporrei un più generale insegnamento “storia delle arti” (come sarebbe sanissimo uno “storia delle religioni”), ma quante ore ci vogliono?! Già sta sparendo la geografia… Difficile indossare i panni di chi, al Ministero, articola i programmi. O a scuola ci si mette tutto – e bene – e allora la vita dei ragazzi si svolge tra i banchi, o quasi niente e chi vuole fare l’artista o semplicemente allargare le proprie conoscenze studia ciò che vuole altrove; oppure si trova una mediazione (situazione attuale) con poche ore in cui si fanno ascolti distratti e si suonano strumenti giocattolo massacrando i timpani di tutti. Forse a scuola davvero non si può imparare uno strumento, però ascoltare con attenzione e profondità, sì. Io personalmente credo che, invece che perdere tempo in nozioni storico-biografiche che si trovano pure su Wikipedia, che si scordano poi facilmente e che dicono poco o nulla della musica, sia più utile sfruttare il proprio tempo con gli ascolti. La musica parla, e ascoltare bene aiuta a capire le cose più di tante informazioni scritte sui libri. Come compiti da dare ci sarebbe non tanto da studiare, quanto da ascoltare per poi restituire quanto quell’ascolto ha dato. A quel punto anche la musica classica, per rispondere all’altra domanda, sarebbe compresa non tanto quale noioso presupposto storico (devo sapere chi è Mozart sennò sono ignorante) quanto perché diventa formativo, proprio in senso chimico-fisico: forma una sensibilità, un gusto, una capacità di discernimento che tante nozioni – tipicamente preferite a scuola – non danno.
Francesco Nunziata
Una delle opere più interessanti degli ultimi quarant’anni, almeno da un punto di vista concettuale, è sicuramente Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono, attraverso cui il compositore veneziano si interrogava sull’essenza dell’ascolto in una società sempre più instabile e priva di riferimenti assoluti. Come ascolta la musica l’uomo del XXI secolo? Si può imparare ad ascoltare la musica? E in che modo?
Federico Capitoni
Come si ascolta la musica oggi purtroppo sono capaci di dirlo anche i meno sociologicamente attenti. Si ascolta male, velocemente, a bassissima qualità e quasi sempre mentre si sta facendo altro. E ciò è consentito ovviamente dalle nuove tecnologie. Ma questo non è ascoltare. L’ascolto della musica non è diverso dall’ascolto dell’altro: chi è che non si scontenta se mentre parliamo chi dice di ascoltarci è distratto o ammette di non capire bene ciò che stiamo dicendo? L’udito è un senso estremamente esposto e certamente – ce lo insegna Raymond Murray Schafer con la sua idea di ecologia sonora – siamo naturalmente abituati a selezionare gli eventi acustici del mondo per non venirne sopraffatti. Ma quando decidiamo di ascoltare, cioè ci poniamo in maniera intenzionale e attiva verso la fonte dei suoni, non può esserci altra distrazione o interferenza. Per questo mi innervosisco quando sento chi dice: «la musica classica mi rilassa»… Come si fa a rilassarsi ascoltando Mahler?! Se lo si ascolta veramente non si possono non rilevare i continui intrecci melodici, il percorso delle voci, l’impasto timbrico degli strumenti… Dice un mio amico compositore: «se ti rilassi con la musica classica, non c’hai capito niente». Ha ragione: l’ascolto non è mai rilassante, è anzi una forma d’arte anche quella, perché creativo. Io alle mostre di pittura mi stanco. Così come non è rilassante la lettura, a meno che – davvero – non si stia leggendo una stupidaggine.
Ascoltare si può imparare sì, se si prende sul serio ciò che si ascolta, esattamente come si fa in un colloquio tra persone. Si potrebbe obiettare che a impegnarsi troppo c’è il rischio di perdere il godimento dell’ascolto. Ma è precisamente il contrario, è come mangiare assaporando ogni cosa. Diciamo che se un pianista professionista, per impegnarsi a suonare bene, perdesse il piacere di farlo, dovrebbe cambiare mestiere…
Francesco Nunziata
Durante il Novecento musicale il rumore in sé e il suo rapporto con il suono sono stati ampiamente indagati, tanto che il confine che li separa si è fatto veramente molto labile. Anche di moltissimi protagonisti della musica rock (si pensi, ad esempio, alla musica industriale, al noise-rock, ma anche all’uso che Zappa faceva, nelle sue composizioni, di grugniti umani, rutti, pernacchiette, etc.) ne furono attratti. Cosa, a tuo avviso, li spinse in quella direzione e che differenza c’è, di solito, tra l’uso del rumore in ambito rock e quello che ne fanno i compositori di musica colta?
Federico Capitoni
L’introduzione del rumore del rock non costituisce una novità per la semplice ragione che, quando il rock è nato, il rumore già era presente nella musica in maniera assodata. Chiaramente esperienze più mirate hanno fatto del rumore nel rock un elemento estetico fondativo, finanche facendo nascere un vero e proprio genere (il noise, per esempio). La differenza è proprio e soltanto nel fatto che per la musica colta l’ingresso del rumore è stato una vera rivoluzione, nel rock una semplice prosecuzione. Tanto che per i detrattori di quest’ultimo, coloro per i quali cioè il rock è solo “rumore”, tale inserimento non ha fatto alcuna differenza.
Oggi il rumore inteso come “suono non musicale” (aperiodico, secondo Helmholtz) per fortuna è tornato al suo significato più ampio e originario: qualsivoglia disturbo uditivo, un fenomeno acustico non desiderato. Al punto che, se abbiamo mal di testa e qualcuno nella stanza accanto sta suonando – anche bene – Brahms, quello diventa un rumore molesto.
Francesco Nunziata
Molte delle opere da te indicate come facenti parte del “canone boreale” risultano essere più importanti per lo sviluppo della musica colta che “belle” o, insomma, piacevoli all’ascolto. Mi rendo conto, però, che in musica la definizione di “bello” o di “piacevole all’ascolto” risultano essere tutt’altro che univoche. Te la senti di darci una tua definizione del “bello musicale”?
Federico Capitoni
Altro Nobel… Il bello non pare essere univoco in alcuna parte del mondo e della cultura.
È vero che “bello” è stato un termine sempre problematico, infine sgretolato nel ‘900, e questo lo dico in diversi punti del libro. “Piacevole” invece ha ancora un certo grado di condivisione (diciamo, in generale, che il tepore è piacevole e l’ustione no, tanto per capirci).
Forse però sul bello ci possiamo mettere d’accordo se ricaviamo il termine dall’uso che ne facciamo nel linguaggio comune. Bello è qualcosa di pienamente soddisfacente, che ha una serie di qualità riguardanti l’equilibrio, la carica emotiva, la coerenza che lo anima. È qualcosa che si sente come completo, e come “giusto”. È pieno di persone capaci di definire un pezzo di musica “bello”, pur non apprezzandolo, non godendone. Sembra assurdo ma è così (forse lo è meno se pensiamo a fotomodelli e fotomodelle che troviamo belli ma non per questo eccitanti). Io per esempio lo so (qualcosa me lo dice e non sono i libri di storia musicale) che la musica di Mozart è bella, ma a me non piace.
Francesco Nunziata
Visto che ti sei anche occupato di critica musicale in un libro edito nel 2015 dalla Carocci, puoi dirci qual è oggi il compito più importante del critico musicale? Esiste, a tuo avviso, una differenza tra il critico musicale che si occupa di musica colta e quello che, invece, tratta soltanto materiale proveniente dall’universo rock?
Federico Capitoni
Se il critico riuscisse ad aiutare a capire la musica, andando oltre l’aspetto più epidermico del mi piace/non mi piace, appannaggio esclusivo ovviamente di chi ascolta, avrebbe assolto a gran parte della sua funzione. In quanto interprete, e creativo, il critico ha il difficile compito della comprensione e della traduzione del testo musicale al fine di mediare, a un livello più alto di ciò che già fa la pratica dell’ascolto, tra l’evento musicale e l’ascoltatore. Allora quello stesso ascolto, che prima era un diretto mettersi al cospetto dell’oggetto sonoro viene nutrito di strumenti di comprensione che dovrebbero fornire un potenziale di comprensione maggiore. Poi – anzi, a rigore, questo viene prima – deve saper scegliere: fondamentale, e semanticamente pertinente, è la funzione decisionale del critico, che appunto separa, sceglie. La responsabilità più grande, nel Canone Boreale, me la sono presa nel selezionare le opere.
E sì, la differenza tra i settori critici purtroppo esiste ed è esclusiva del campo musicale: ci sono forse critici letterari “colti” e “pop”? Ci sono critici d’arte capaci di esprimersi su Michelangelo senza sapere chi sia Andy Warhol? In musica tanti esegeti di Bowie non sanno cosa sia una fuga, e tanti beethoveniani italiani, giovani negli anni ’60, non conoscono le canzoni di Gianni Morandi (ma le mettevano le monete nei juke box?! Ci andavano alle feste? – pseudocit.). A ogni modo la differenza, normalmente – ma vi sono consolatorie eccezioni, sta nel portato culturale (musicologico e non) tra i due “tipi” di critici. Di solito quello che si occupa di musica colta viene da una solida preparazione musicale, accademica o no, ed è difficile trovare critici di quel settore che non conoscano almeno la teoria musicale e non sappiano leggere una partitura; ha viepiù un orecchio allenato alla gamma (timbrica, armonica, ritmica ecc.) infinitamente più ampia che la musica classica ha in serbo. I critici “leggeri” invece nella maggior parte dei casi vengono da una passione autofagocitante, quella per la musica della quale sono appassionati, e a loro questo – magari condito dal possesso della “discografia completa di” o del perfetto computo del periodico cambio di formazione di una band – pare bastare. Quindi, dico sempre in linea di massima, la loro facoltà critica si esprime con mezzi impressionistici e, ben che vada, su confronti con altri campioni del loro genere musicale (metodo che ovviamente è fallace perché se tutto è relazionato tra l’uno e l’altro, manca un fondamento qualitativo generale). Per il resto, basta vedere lo scempio lessicale che fanno – confondendo per esempio suono con tono, tempo con ritmo… – per capire che c’è un problema culturale di base (e che riguarda intanto solo la musica, perché poi la qualità di un critico la fa anche la sua capacità di far interagire anche altri campi disciplinari). I più scaltri riescono a recuperare sul piano socio-antropologico: quando azzeccano il profilo di un personaggio o di una corrente “pop”, hanno fatto certamente già un buon lavoro. Di critici “rock” che stimo insomma ce ne sono pochi e la maggior parte sono quelli che – se vogliono, quando vogliono – possono anche esprimersi su Mendelssohn con cognizione.
Francesco Nunziata
Qual è il profilo del perfetto critico musicale?
Federico Capitoni
Il mio.
Scherzi (mica tanto) a parte, rischierò di essere banale e didascalico ma mi pare che il critico musicale debba avere alcune caratteristiche necessarie (altre, aggiuntive, lo rendono semplicemente migliore), previa ineluttabilmente la conoscenza di teoria e lessico musicali. La prima è di essere un eccellente ascoltatore. Ascoltare davvero non è così facile, bisogna entrare in un brano pienamente, accorgersi di ogni cosa: della costruzione, della strumentazione, della grana sonora di voci e strumenti, di tecnica esecutiva, di somiglianze e differenze con tutto il resto, mettere in relazione… Ascoltare è molto faticoso e si deve saperlo fare. Poi avere una certa dimestichezza con la musica “in pratica”. Intendo dire che non c’è bisogno di essere compositori, cantanti o direttori d’orchestra, però se almeno una volta si sono messe le mani su uno strumento, se si è tentato di ricavare da un foglio bianco qualcosa (che so, provare a scrivere – pure in maniera naif – un quartetto, una canzone…), sarebbe meglio: si capiscono molte cose utili a una valutazione centrata, talvolta – altrimenti – ci si stupisce inutilmente, o viceversa non si apprezza (sopravvalutazioni e sottovalutazioni spesso sono la conseguenza del non sapere “come si fa”). Infine c’è l’aspetto della comunicazione. E qui c’è il miracolo del critico. Non parlo ovviamente soltanto della capacità di una buona scrittura o di espressione orale (quelle dovrebbero essere in possesso di chiunque decida di usare la parola per comunicare), bensì di quella che si chiama facoltà ecfrastica, ossia l’abilità di tradurre in un certo linguaggio (verbale in questo caso) ciò che si esprime con un altro. È la possibilità di valicare (o meglio, riempire) quel famoso abisso che c’è tra due linguaggi, nella fattispecie quello dei suoni e quello della parola; è ciò che rende il critico artista e il musicologo no. Questo la musicologia pura (quella accademica in particolare) non lo fa perché essa si limita a descrivere la musica (passaggi armonici, espedienti timbrici), esattamente come un commentatore specialista d’arte figurativa ci parla di tecnica pittorica, di prospettiva, di mescolamento del colore. Il critico invece è chiamato a spiegare il significato della musica di cui parla, alle volte compiendo l’acrobazia di fare arte sull’arte. Ha ragione Oscar Wilde quando dice che il critico (quello bravo, preciserei) è il vero artista. Può persino arrivare a creare il paradosso – forse una stortura – per cui leggere di un brano risulta più stimolante ed emozionante che ascoltarlo. Oltre a svelare all’artista stesso – e questa è la maggiore utilità della critica – aspetti della sua opera che neanche egli aveva scorto.
Francesco Nunziata
Parlando del Double Concerto di Elliott Carter scrivi: «Il fatto che si tratti comunque di buona musica è testimoniato dalla facilità con la quale l’orecchio si adatta a percepire le sottigliezze di un caos di non immediata accoglienza.» Si può dire, quindi, che la “buona musica” (una formula di cui si abusa tremendamente in sede di programmazioni radiofoniche…) è quella che consente all’ascoltatore di rintracciare un senso anche nel più indistricabile (e apparente) disordine?
Federico Capitoni
Finirò nuovamente per essere scontato (e ancora platonico) ma credo che parlare di buona musica abbia a che fare con qualcosa di etico. Cioè la buona musica è quella onesta, che vale, che ha cioè un grado di validità “universale”, che non è scritta per specialisti o intimi. Si tratta di un valore fatto non tanto di qualità tecniche, ma soprattutto di intenzioni positive – “buone” – nel senso che non si vuole fregare l’ascoltatore con un soggettivismo intellettuale, ideologico o commerciale. Difficilmente il compositore che crede in quello che fa e si mette in contatto con l’ascoltatore crea cattiva musica. La musica cattiva, quindi, non è quella brutta bensì quella dalle cattive intenzioni o di chi si è impegnato poco. E quindi risulta incomprensibile o stupida.
In questo senso la musica buona è un gradino sopra quella bella, sebbene spesso le due qualità le troviamo insieme: i capolavori normalmente sono belli e buoni, tant’è che tutte le considerazioni fatte qui sulla musica bella e buona le ritroviamo dentro le analisi musicologico-critiche di qualsiasi pezzo meritevole di quello status.
Ovviamente poi tutto questo si connette con una certa idea di Verità, ma continuare qui farebbe diventare questa intervista un saggio…
Francesco Nunziata
Esiste un modo “giusto” per ascoltare la musica? L’ascolto della musica colta presuppone anche una certa preparazione culturale oppure tutti, indistintamente, possono approcciare le opere di Schönberg, Webern, Varèse, Partch, Nono, etc.?
Federico Capitoni
La preparazione presupposta è più cognitiva che culturale. Le cose non dobbiamo farcele piacere. È pieno di persone colte che si costringono a certa arte perché al loro livello non è possibile ignorarla o non essere capaci di goderne. E continuano però a non capirci alcunché.
L’unica cosa che c’è da sapere è che la musica non è necessariamente una cosa piacevole o un passatempo, quindi può essere impegnativa. La musica deve essere interessante, sicché le opere più “difficili” o impopolari vanno approcciate con questa consapevolezza; il modo giusto di ascoltare è quello di apprestarsi a capire. Dopo di che, no, quelle opere non sono per tutti perché non tutti trovano interessanti le stesse cose, non tutti hanno la stessa sensibilità. Ma non ne farei appunto una questione culturale, sarebbe falso arrivare ad apprezzare una cosa a furia di affrontarla, diventerebbe un lavaggio del cervello: se ti devi far piacere Schönberg, dopo dieci ascolti, la verità è che non ti piace e basta.
E, dall’altra parte, dire: “sono ignorante, non la capisco”, è una scusa che non regge; nessuno nasce istruito.
Francesco Nunziata
Durante tutto il Novecento si è spesso cercato di recuperare la naturalità del suono attraverso l’artificio, cioè mediante strumenti tecnologicamente anche molto avanzati. Tuttavia, dato che anche quella che chiamiamo “Natura” è, a conti fatti, una costruzione umana (troppo umana…), non si è trattato di un processo essenzialmente paradossale?
Federico Capitoni
Mah, vista così, sì… Del resto, però, anche lo stesso concetto di umano è “umano”. E allora che facciamo? Come usciamo dal circolo? Io la vedo diversamente, ossia per me tutto è natura, ma al di là delle mie posizioni filosofiche direi che, in una certa visione del mondo, il “progresso” serve proprio a scoprire la nostra natura e il resto della natura. Non avremmo mai sentito il suono delle (nelle) rocce o della materia “inanimata” senza l’invenzione dei microfoni, né tanto meno la composizione di pianeti e stelle… Sicché mi pare proprio “naturale” inventare dispositivi che ci aiutino nel ri-produrre, certamente interpretata (non possiamo noi davvero “produrre”), la natura. Semmai la domanda – metafisica, certo non dovuta qui – è: chi si diverte a farci fare tutta ‘sta fatica per scoprire il mondo? Ovvero: dove andremo a finire?
Francesco Nunziata
Alla luce delle numerosissime proposte musicali e delle altrettante numerosissime riflessioni sulla natura e il significato del suono che hanno caratterizzato l’ultimo secolo, è ancora possibile pensare a una musica che possa dirsi davvero “inascoltabile”?
Federico Capitoni
Certo: è tutta la musica fatta per non essere ascoltata davvero (cioè la maggior parte di quella che passa in radio: in molti casi meglio non porgere troppa attenzione, no?) e quella non comprensibile (se vale la tesi per cui l’ascolto vero è comprensione e viceversa), ossia la musica della sperimentazione senza senso, senza gusto, in cui l’ideologia politica o concettuale prevale sulla dimensione percettiva. In generale, se il concetto prevale sul percetto, nell’arte, c’è sempre un problema di qualche tipo.
La musica inascoltabile è, in sostanza, quella cattiva.
Francesco Nunziata
L’avanguardia musicale è necessariamente complessa oppure tanta, troppa avanguardia musicale è volutamente complessa (e, magari, inascoltabile…) perché, in fin dei conti, nasconde una mancanza di ispirazione più o meno profonda?
Federico Capitoni
Sì, talvolta è così. Tutte le avanguardie si fanno precedere, presentare, da un manifesto. Per redigerlo bisogna avere solidi punti ideologico/politico-estetici da promulgare. Già elaborarli e poi spiegarli implica un lavoro razionale di calibratura e riflessione che si mangia molto della spontaneità artistica. Se capita quindi che l’idea sopravanzi l’espressione – cosa comunissima nelle avanguardie artistiche – allora poi si fanno i conti con un prodotto artistico adatto più alla speculazione e al dibattito che alla “fruizione sensibile”, se così possiamo dire. D’altra parte l’avanguardia è necessaria perché, non dimenticando l’origine del termine, serve proprio per far strada, sfrondare coraggiosamente l’intricata giungla della creatività, rompere ghiacci e rocce delle convenzioni solidificate dai movimenti precedenti, e vedere cosa c’è oltre (col rischio di prendere abbagli, ma intanto suggerendo: qualcosa di buono da portare con sé c’è sempre). Come dire: è uno sporco lavoro, ma qualcuno…
Francesco Nunziata
Molti protagonisti del Novecento musicale (a partire dal nostro Luigi Russolo, grande indagatore dell’”arte dei rumori”) hanno provato, con esiti più o meno interessanti, a riprodurre il mondo mediante l’esibizione della sua complessa architettura sonora. Ciò è dipeso soltanto dall’annichilimento di ogni tensione metafisica, insomma da quel processo, ormai sempre più scoperto, che ci spinge verso la concretezza, nuda e cruda, di una realtà sempre più figlia della nicciana “morte di Dio”… o che altro?
Federico Capitoni
Un po’ forse sì, ma più prosaicamente direi che è la conseguenza ineludibile delle nuove tecnologie. Russolo e gli altri vivevano in un’epoca di forte accelerazione tecnologica, industriale, urbana. Ciò che più andavano cercando era la riproduzione del rumore che la tecnologia stessa permetteva (le città, le fabbriche ecc.), una nuova natura cioè. Mi sa che la questione ha più a che fare con Heidegger, Benjamin o Adorno, se proprio dobbiamo tirare in ballo pensatori della crisi. Nel caso del futurismo c’è una felice e ottimistica innovazione, ma la questione riproduttiva (e di un certo “realismo materiale”) arriva proprio nel momento in cui la riproduzione è possibile. La fonografia ha avuto sulla musica un impatto importante – anche se in termini diversi – almeno quanto quello della fotografia nell’arte figurativa.
Francesco Nunziata
Come scrivi nelle ultime pagine del libro, a cavallo tra il Novecento e l’inizio del nuovo millennio «il comporre è sempre più marchiato dalla libertà assoluta: libertà dalla regole tonali; libertà di improvvisare o di scrivere tutto; libertà nella citazione del passato; libertà nella commistione con altri generi; libertà nell’uso di qualsivoglia tecnologia.» Quali sono i rischi di questo eccesso di libertà?
Federico Capitoni
Nessuno, a parte lo spettro del “vale tutto”. Confondere la libertà dai vincoli formali o espressivi con l’eguaglianza valoriale di qualsiasi cosa si faccia è un errore banale. Non vale tutto nel senso che non tutto vale, non tutto ha valore (artistico). Quindi ciò che deve restar fermo è quell’imperscrutabile, irragionevole, eppur percepibile in qualche maniera, livello di qualità che ci suggerisce (e se si troverà un criterio definitivo e unanime per stabilirlo, grideremo al miracolo ma avremo anche una specie di “critica automatica”, inumana) ciò che è valido, ciò che è buono, da ciò che è assolutamente irrilevante.
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