Venerus, soul-step all’italiana
Ci sono alcune piccole sezioni della musica pop che giungono qui da noi con qualche lustro di ritardo. E’ il caso di quella cosa chiamata soul-step, sottogenere ibrido tra dubstep e soul music lanciato verso la fine del decennio scorso da musicisti inglesi del calibro di James Blake, Jamie Woon e Sohn. Una piccola ondata che ha generato negli anni a venire fenomeni ancora più celebri come Weeknd, per intenderci. Del resto, la soul music è capace di rinascere e mescolarsi continuamente, soprattutto grazie alla sua conclamata duttilità, senza contare la spinta melodica che morde l’anima, per l’appunto, a prescindere e in tutte le salse. Il milanese Andrea Venerus è tra i debuttanti orientati a importare determinate soluzioni da Londra nel Belpaese, e ha “esordito” quest’anno per l’eccellente Asian Fake con il suo primo EP, A che punto è la notte. Il suo stile ricorda tanto quello dei sopracitati pionieri, con l’aggiunta di qualche trovata ritmica aggiornata; insomma, soul con basi dubstep alla Pinch e con echi alla Burial, come nel passo cadenzato di Sindrome. La voce è calda e Andrea ha un accento tutto suo, un timbro particolarissimo che lo distingue da chiunque fin da subito. Inoltre, al netto dell’esordio ufficiale, il compositore lombardo non è per nulla alle prime armi.
Cresciuto nel quartiere San Siro, a Milano, appena maggiorenne si trasferisce a Londra per ben cinque anni. Nella capitale inglese modella le proprie inclinazioni sonore, iniziando così a lavorare a diversi progetti personali, entrando così in contatto con le scene musicali di Brixton e Notting Hill. Rientrato in Italia, resta affascinato dalla città eterna fino a trasferirsi, cominciando quindi una nuova avventura tutta italiana. Le partiture di Venerus nascono dalla fusione di ritmiche elettroniche provenienti dal Regno Unito e il vecchio soul statunitense, alla quale si aggiunge una scrittura tanto semplice, quanto efficace. L’uso della lingua italiana, inoltre, pone l’ascoltatore dinanzi a qualcosa di insolito, nonostante i chiari rimandi posti in partenza, come afferma lo stesso cantautore:
“Per la prima volta scrivo e canto in italiano, posso esprimermi nella mia lingua e questo significa molto. Negli anni dello studio al conservatorio, In Inghilterra, la mia testa pensava “Musica – Musica – Musica”, il suono era tutto. Adesso posso raccontare, raccontarmi: era il tassello mancante.”
Dunque, l’electro writer milanese unisce i tasselli finora mancanti per dare vita a una primissima opera in decisamente valida. Un titolo che esplica uno stato d’animo giacente in un limbo di passioni irrisolte, con l’amore irrealizzato ed eternamente sognato a fungere da traino emotivo. La spiccata venerazione del musicista per certo jazz spunta qui e là, conferendo ulteriore grazia alle basi, puntualmente curatissime e mai caciare. D’altronde, le collaborazioni presenti nell’Ep sono quelle giuste. Le produzioni di Mace in Sindrome e Frenetik&Orang3 nei brani IoxTe e Senzasonno impreziosiscono e rendono fresca la sostanza. C’è da dire che l’artista milanese ha le idee chiare sul cammino da intraprendere, e non lo nasconde attraverso le parole diffuse nel lancio del disco:
“Ho voluto creare un mio palco, giocare sull’ambiguità così che nessuno avesse paletti in cui incasellarmi. Quando ti ho tolto i punti di riferimento, le tue coordinate, posso rapportarmi a te nel modo che preferisco, portarti nel mio mondo senza preconcetti, raccontarti qualcosa di sincero. In questo senso lo spazio in cui sono seduto è finto, però l’abbiamo costruito con le nostre mani, dunque è anche vero. Io sono lì in carne ossa, ma truccato e quindi finto. Un me trasfigurato, un me musicista che non vuole però rinchiudersi in sé stesso: non mi interessa fare musica per musicisti, scavarmi una nicchia, faccio musica sperando arrivi a più persone possibile”.
Canzoni come Senzasonno, pur richiamando pesantemente l’ultima fatica di Jamie Woon, con tanto di vocine filtrate alla Bevan da tappeto, sono comunque dei piccoli grandi miracoli dal peso specifico ben intuibile. Venerus canta come un angelo e riesce a districarsi al meglio tra un battito e l’altro, surfando su refrain che potrebbero portarlo radiofonicamente alla ribalta nel giro di poco tempo. I synth in bella mostra e l’uso calibrato della programmazione evidenziano un’attitudine al ricamo gradevole, tutt’altro che coatta o magari organizzata inseguendo esclusivamente il trend del momento. Come direbbero a Roma: c’è la ciccia ed è anche saporita. Ascoltare per credere.
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