Dave Van Ronk

Soprannominato «il sindaco di MacDougal Street» (la strada in cui si trovava il Café Wha?, uno dei locali in cui la musica folk era di casa), Dave Van Ronk fu la prima grande figura del rinascimento folk che ebbe nel Greenwich Village newyorkese uno dei suoi centri nevralgici. Nel 2013, la sua storia ispirerà il film Inside Llewyn Davis (titolo italiano: A proposito di Davis) dei fratelli Cohen.

Nato David Kenneth Ritz Van Ronk nella stessa New York il 30 giugno del 1936, il nostro eroe iniziò a suonare la chitarra ispirandosi al jazzista Charlie Christian, ma poi passò al banjo tenore, perché si trattava di uno strumento che, a suo dire, meglio si addiceva a una jazz band tradizionale, quella, per intenderci, che suonava il Dixieland e il ragtime, gli stili classici degli anni Venti. La prima band in cui suonò fu la Brute Force Jazz Band. Entrò a far parte, poi, dei Jazz Cardinals, sviluppando sempre più un’avversione per la musica folk, considerata come roba antiquata quando non addirittura «merda da bifolchi». Tuttavia, durante la prima metà degli anni Cinquanta, Van Ronk si rese conto che alcuni musicisti folk come Tom Paley, Dick Rosmini e Fred Gerlach suonavano una musica folk che aveva molto in comune con il jazz delle origini. Qualche anno dopo, grazie all’ascolto di Listen To Our Story. A Panorama Of American Ballads (una raccolta di ballate folk curata nel 1950 da Alan Lomax) scoprì la tecnica del fingerpicking, che consentiva ai chitarristi di suonare senza plettro, usando, invece, le dita per pizzicare o arpeggiare le corde.

Ma a spingerlo verso il folk (e alla chitarra) ci furono anche ragioni più concrete, come la necessità di guadagnarsi da vivere, visto che con il trad jazz non è che riuscisse a sbarcare il lunario. Iniziò, quindi, a frequentare la scena del Greenwich Village, suonando dove gli capitava e costruendosi, poco alla volta, la fama di personaggio intellettuale e anarchico. Nel frattempo, il suo carico di influenze cresceva: da Woody Guthrie a Cisco Houston, da Burl Ives a Bessie Smith, passando per Jelly Roll Morton, Blind Boy Fuller, Josh White, il Reverendo Gary Davis, Odetta e Paul Clayton, in un continuo scambio tra folk e blues che aveva di mira un’appassionata ricognizione nei vasti territori della tradizione musicale americana. A un certo punto, ebbe anche la possibilità di entrare a far parte di un trio folk-pop che in seguito sarebbe stato conosciuto come Peter, Paul & Mary, ma alla fine fu scartato a causa della sua voce troppo profonda.

La sua prima fatica discografica, Skiffle in Stereo, registrata insieme alla The Orange Blossom Jug Five, arrivò nel 1958 e fu un omaggio alla musica skiffle destinato all’oblio anche a causa di una qualità di registrazione davvero pessima. Van Ronk, in ogni caso, non si demoralizzò e fece di tutto per ottenere un contratto che gli consentisse di pubblicare un disco tutto suo. Alla fine, grazie alla Folkways Records, mise mano a Sings Ballads, Blues & A Spiritual, che uscì in quello stesso anno esibendo uno stile folk asciutto e influenzato dal blues del sud degli Stati Uniti (si ascoltino, ad esempio, “Duncan And Brady”, “Backwater Blues” e “John Henry”).

Sulla stessa falsariga si manterrà, due anni dopo, Van Ronk Sings, Vol. 2, disco ancora sincero nel mostrare la sua passione per il patrimonio musicale della tradizione americana, ma artisticamente ancora poco riuscito. Il salto di qualità si avrà soltanto nel 1963, anno in cui verrà dato alle stampe Folksinger, frutto di un contatto ancora più intimo con le sue influenze, adesso finalmente rivisitate con performance relativamente più efficaci, che nascono all’incrocio tra una voce poderosa ma versatile e un chitarrismo senza molti fronzoli, che va diritto al cuore della canzone. Il brano più famoso del disco è sicuramente “Cocaine Blues”, scritto negli anni Quaranta da T. J. “Red” Arnall e incentrato sull’omicidio di una donna adultera da parte del fidanzato ubriacone e cocainomane.
Quella di In The Tradition (1963) sarà, invece, un’erma bifronte, divisa a metà tra scoppiettante Dixieland-jazz (con Van Ronk accompagnato dalla Red Onion Jazz Band) e stanco materiale folk-blues.

Mentre la stella di Bob Dylan diventava sempre più luminosa nel cielo del cantautorato folk, nel 1964 il nostro pubblicò due dischi (Just Dave Van Ronk e Inside Dave Van Ronk) che aggiungevano quel pizzico di esperienza necessaria a consolidare il suo folk-blues, soprattutto nel secondo di quei lavori, in cui, accompagnandosi con la sua fida chitarra (suonata con la tecnica del fingerpicking) e, in qualche caso, anche con dulcimer e autoharp, rimetteva mano alla tradizione (filtrata dall’Anthology of American Folk Music di Harry Smith) con il suo solito piglio passionale, per non dire viscerale. Tra i brani migliori, la solita “Cocaine Blues”, la nervosa “Samson & Delilah” e le evocative “Sprig Of Thyme” e “I Buyed Me a Little Dog”.

Uscendo un po’ dalla primitiva ristrettezza dei precedenti lavori, il Van Ronk di No Dirty Names (1966) – che era passato, nel frattempo, dalla Prestige alla Verve – ampliò leggermente lo spettro delle soluzioni, chiamando a raccolta un altro chitarrista acustico (Dave Woods) e un contrabbassista (Chuck Israel, già alla corte di Bill Evans). Si tratta di solchi che grondano calcolata ferocia (“One Meatball”, “Freddie”), che sanno offrire l’immagine accurata di un folksinger alle prese con ispide trame jazz-blues (“One Of These Days”, “Blues Chante”, quest’ultima proveniente dal repertorio di Dizzie Gillespie) o con gli spigoli della coppia Bertolt Brecht / Kurt Weill (“Alabama Song”), ma che, all’occorrenza, sanno anche sfoderare toni sommessi (“Song of the Wandering Aengus”), quando non vagamente estatici (“Zen Koans Gonna Rise Again”). A conti fatti, uno dei momenti migliori della sua discografia.

Intorno al 1967, Van Ronk si rese conto che la vita di cantautore “classico” iniziava a stargli un po’ stretta. Molti dei suoi amici si erano allontanati dal Village, qualcuno aveva messo su una band, pochi avevano “fatto i soldi”. Tentato da alcuni discografici, ma comunque desideroso di capire se anche lui fosse in grado di guadagnare qualche dollaro in più, Van Ronk finì per cedere alle lusinghe del vile denaro. Così, insieme a un suo vecchio amico, il chitarrista Dave Woods, formò gli Hudson Dusters, completati dall’arrivo di Phil “Pot” Namenworth (tastiere), Ed Gregory (basso) e Rick Henderson (batteria). Come ricorda lo stesso Van Ronk:

«… con il mio incoraggiamento ci abbandonammo al nostro amore per Charles Ives1 e facemmo un disco di rock’n’roll politonale. Tra le altre cose arrangiammo le canzoni in due tonalità diverse contemporaneamente, con il ritornello che una volta si risolveva nella tonalità A, mentre la successiva nella tonalità B. Guardandomi indietro capisco come mai le vendite siano andate male, ma all’epoca mi era sembrato un colpo di genio»2.

Al netto delle ambizioni, l’unico, omonimo disco degli Hudson Dusters è una piacevole ma tutt’altro che memorabile combinazione di brani robusti (“Alley Oop”, “Head Inspector”), momenti più leggeri e divertiti (“Swing On A Star”, “Chelsea Morning”), incanti in forma di ballata (“Clouds”, uno dei momenti migliori in assoluto del disco, non è altro che la “Both Sides Now” di Joni Mitchell con un titolo diverso) e bandismi goliardici (“Romping Through the Swamp”).

Fallito il tentativo di fare breccia nel mondo del rock, a Van Ronk venne a mancare il sostegno della Verve. Fu costretto, allora, a cercarsi una nuova etichetta discografica disposta a dargli ancora fiducia. Raggiunto un accordo con la Polydor, gli venne messo a disposizione un ottimo budget per la registrazione di un nuovo disco. Lavorò, quindi, con arrangiamenti più ariosi, lasciandosi influenzare da quanto stavano facendo, in quello stesso periodo, Joni Mitchell e Leonard Cohen, cantautori la cui lezione egli cercò, comunque, di mediare con gli insegnamenti di Bertold Brecht e Jacques Brel, ma anche con quelli di Randy Newman e Peter Stampfel degli Holy Modal Rounders. Il risultato fu Van Ronk (1971), disco non del tutto a fuoco, ma vitalissimo nel suo alternare momenti di malinconico abbandono (“Bird On The Wire”, “Port of Amsterdam”, “Urge For Going”) ad altri carichi di umore beffardo (“Fox’s Minstrel Show”, “Gaslight Rag”), di vigore country’n’roll (“Random Canyon”) o di dissonante, feroce antimilitarismo (“Legend Of The Dead Soldier”, traduzione della ballata Legende vom toten Soldaten che Brecht aveva scritto nel 1918 in seguito alla sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale). Il brano più bizzarro è “Fat Old John”, in cui un ritmo sintetico sostiene una sbilenca sarabanda bluegrass, con Van Ronk nelle vesti di un predicatore allucinato.

Il disco non ripagò le attese della Polydor e, lo avete già capito, al nostro eroe non restò che fare armi e bagagli e spostarsi altrove: alla Cadet, per la precisione. Ancora una volta, un buon budget, un discreto numero di musicisti a dargli man forte e la voglia di proseguire nella direzione intrapresa con il disco precedente. Ne uscì Songs for Ageing Children (1973), su cui comparivano ancora cover della coppia Brecht/Weil (“As You Make Your Bed”), di Randy Newman (“Sail Away”) e Joni Mitchell (“River”), quest’ultima dedicataria anche di “Song To Joni”. “Duncan And Brady” e “Working With Annie”, con il loro turgido blues-rock, non avrebbero sfigurato, invece, sul disco degli Hudson Dusters.

A quel punto, Van Ronk si concesse una pausa di tre anni. Si sentiva stanco e i tempi erano ormai cambiati, per quanto la sua musica avesse comunque cercato di restare al passo con i tempi. Quando, nel 1976, il desiderio di fare musica tornò a bussare alla sua porta, la prima cosa che fece fu ritornare alle sue origini, all’epoca, insomma, in cui, armato di sola voce e chitarra, incarnava l’essenza stessa della musica folk. Si riavvicinò, quindi, a quella forma di folk-blues diretta e senza fronzoli con cui si era fatto largo nel Greenwich Village e che su Sunday Street (questo il titolo del suo nuovo disco, pubblicato da una piccola etichetta, la Philo Records) accoglie nelle sue trame anche il rumore del suo respiro più o meno affannoso (si ascoltino, a tal proposito, la title-track o “Jesus Met the Woman at the Well”). Ma era un ritorno che faceva leva, naturalmente, su anni e anni di esperienza e tutto questo lo si avverte nel suo modo di cantare (espressivo come solo nei suoi momenti migliori), ma anche nella sua tecnica chitarristica, il cui minimalismo è pervaso da un pathos che sa di colto primitivismo. Tra i momenti più incisivi della scaletta, ci sono le riletture di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin e di “The Pearls” di Jerry Roll Morton, che mostrano quanto si fosse ormai consolidato il suo stile ragtime. Da ricordare, poi, le ispide “Down South Blues” e “Jivin’ Man Blues”, la commovente “That Song About the Midway” (ancora Joni Mitchell) e una “Nobody Knows the Way I Feel This Morning” che ben esemplifica il modo in cui il suo stile chitarristico riuscisse a mediare tra blues e ragtime, dando vita a un sound ibrido su cui egli avrebbe lavorato molto negli anni successivi.

Due anni dopo, Somebody Else, Not Me proseguì in quel solco minimalista, ma con meno convinzione. Oltre a nuove strizzatine d’occhio rivolte a Morton (“Michigan Water Blues”) e Joplin (“The Entertainer”) e alla versione a cappella del brano tradizionale “Old Hannah”, da rilevare la presenza delle cover di “Pastures of Plenty” (Woody Guthrie) e “Song to Woody” (Bob Dylan).

All’inizio degli anni Ottanta, la sua carriera sembrò di nuovo risollevarsi grazie a un inaspettato invito in Inghilterra, dove lo attendeva una partecipazione al programma televisivo della BBC This is Your Life, dove il boxeur Jim Watt, campione del mondo dei pesi leggeri, lo attendeva per dirgli a quattr’occhi che era un suo grande ammiratore. Van Ronk, che aveva sempre avuto il terrore di volare, questa volta si fece coraggio, riuscendo così ad allacciare nuovi contatti nel mondo discografico, cosa che gli consentì di tenere concerti in Europa, Australia e Giappone. Ciò gli valse anche la firma di un contratto con una nuova etichetta, la Reckless, e la pubblicazione di Going Back to Brooklyn (1985), un disco fatto di soli brani autografi, alcuni già pubblicati in passato e altri scritti all’epoca di Somebody Else, Not Me. Stile asciutto, voce versatile, tocchi di ironia (“Losers”), ibridazioni sorprendenti “(“Honey Hair”, un vecchio brano ispirato a Joni Mitchell e qui riarrangiato con una melodia folk bulgara), furore antibellico per sola voce (“Luang Prabang”), l’amore per il ragtime (“Antelope Rag”, “Garden State Stomp”) e quello per una donna (“Another Time and Place”).

Cinque anni dopo, insieme al cantautore inglese Frankie Armstrong, Van Ronk realizzò uno dei suoi sogni: registrare un disco interamente dedicato alle composizioni di Bertold Brecht. Il risultato, intitolato Let No One Deceive You: Songs of Bertolt Brecht, solo a tratti, però, riuscì a rendere onore al suo amore per il grande drammaturgo tedesco.

Durante gli ultimi anni della sua vita, il vecchio cantautore neworkese continuò a registrare dischi e a fare concerti, ma l’ispirazione e il vigore non erano più quelli di una volta. Per ricordare l’epoca d’oro del Greenwich Village e del folk-revival scrisse anche un libro di memorie insieme all’amico e ammiratore Elijah Wald, The Mayor of MacDougal Street (tradotto in italiano con il titolo di Manhattan folk story. Il racconto della mia vita), semplicemente uno dei libri più sinceri e coinvolgenti mai dedicati a quell’indimenticabile periodo.

Note:

  1. Charles Ives (Danbury, Connecticut, 1874 – New York 1954), compositore statunitense. Nella sua produzione musicale, quasi tutta anteriore al 1920 e rimasta a lungo negletta, sono state messe in luce le notevoli qualità artistiche e le singolari anticipazioni di molti aspetti della musica contemporanea (procedimenti atonali, politonali, poliritmici e perfino l’uso di quarti di tono). Tali ardite esperienze convivono con una ispirazione intimamente americana, che trova alimento nella storia, nella cultura, nei costumi, nei canti nazionali. (treccani.it)
  2. Dave Van Ronk, Elijah Wald, Manhattan folk story. Il racconto della mia vita, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2014, pag. 379
Discografia Consigliata

Inside Van Ronk (1964)
No Dirty Names (1966)
Van Ronk (1971)
Sunday Street (1976)

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