Fred Neil

Avete presente “Everybody’s Talkin'”, il brano che compare in Midnight Cowboy, film del 1969 diretto da John Schlesinger che in Italia fu distribuito con il titolo di Un uomo da marciapiede? Bene: anche se cantato da Harry Nilsson, Midnight Cowboy era stato scritto da Fred Neil, uno dei cantautori più sottovalutati della sua epoca.

Nato a Cleveland, Ohio, il 16 marzo del 1936, ma poi trasferitosi a St. Petersburg, in Florida, il giovane Neil si appassionò alla musica mentre seguiva il padre, un rappresentante di jukebox, in giro per gli Stati Uniti. Rock’n’roll, country, folk e gospel erano il suo pane quotidiano, mentre l’idea di diventare un cantautore a un certo punto lo spinse a cercare fortuna in quel di New York. Così, per sbarcare il lunario, nel 1958 iniziò a scrivere brani per altri artisti nel famoso Brill Building, un edificio che era diventato, durante gli anni, il centro dell’industria musicale americana. Non era quello che voleva, ma per cominciare non c’era di meglio. Una delle sue canzoni venne registrata addirittura da Buddy Holly, ma l’improvvisa morte di quest’ultimo nel 1959 ne bloccò la pubblicazione. Senza perdersi d’animo, Neil continuò a buttare giù canzoni anche per proprio conto, mentre il movimento del folk-revival iniziava a far sentire la sua forza d’urto.

A un certo punto, però, ormai stanco di quella vita, s’immerse nella realtà brulicante di artisti del Greenwich Village, mettendo su un duo con il chitarrista Vince Martin (Vincent Marcellino) e finendo per diventare il maestro di cerimonie del Café Wha, uno dei folk-club più in vista dell’epoca. Fu lì che incrociò anche un giovanissimo Bob Dylan, che a lui si affidò nell’immediato del suo arrivo a New York. Una sera, Jac Holzman della Elektra ascoltò Neil e Martin esibirsi in uno dei locali del Village e offrì subito loro un contratto. Con la collaborazione di John Sebastian (destinato a diventare il leader dei Lovin’ Spoonful) e Felix Pappalardi (che in seguito avrebbe prodotto i primi due album dei Cream e, quindi, fondato i Mountain), venne quindi approntato l’album Tear Down The Walls, uscito nel 1964 e comprendente soprattutto riletture di brani tradizionali (“I Know You Rider”, “Morning Dew”, “Lonesome Valley”, “Weary Blues”, “Linin’ Track”) e brani autografi di Neil in cui il folk (fatta eccezione per i miraggi raga di “Baby”) era ancora un affare di vecchi tempi più che una prefigurazione di nuovi mondi (la dolce e trasognata “Red Flowers”, l’utopica title-track, il feeling fiabesco di “Toy Balloon” – scritta a quattro mani con Martin – e una “Wild Child In A World Of Trouble” che, con le sue venature esistenziali, ne anticipava la carriera solista).

Mentre la Elektra già pensava a un secondo album, Neil espresse tutte le sue riserve sull’opportunità di proseguire l’esperienza del duo e, dopo aver boicottato la registrazione di uno show (che gli costò anche un furioso litigio con Pappalardi), riuscì a convincere Holzman a dargli una possibilità come solista. Così, accompagnato ancora da Sebastian e Pappalardi, cui si aggiunsero la seconda chitarra di Pete Childs e il basso di Douglas Hatelid, nel 1965 uscì Bleecker & MacDougal, un disco che in copertina ritraeva il cantautore in un’atmosfera notturna nel bel mezzo del Greenwich Village, lì dove le due strade del titolo s’incrociano. Eppure, in quei solchi non c’era più lo spirito del folk-revival, ma un folk-blues che si faceva vigoroso nell’iniziale title-track, ammaliante e tutt’altro che malinconico in “Blues On The Ceiling”, “Yonder Comes The Blues” e “Handful Of Gimme”, sbuffante come un treno in “Mississippi Train” e ora saltellante, ora goliardico in “Sweet Mama” e “Candy Man”. Ma Neil era, dopotutto, un uomo del Sud e il country rabbioso di “Country Boy” ci tiene a ricordarlo. “Other Side of This Life” è, invece, il suo brano più famoso dopo “Everybody’s Talkin’”: negli anni a venire sarà ripreso da Peter, Paul & Mary, Lovin’ Spoonful, Youngbloods e soprattutto dai Jefferson Airplane, che ne fecero un cavallo di battaglia dei loro concerti. I momenti migliori e più magici del disco sono, comunque, altri: “Little Bit Of Rain”, ode umbratile accompagnata dall’acquatico riverbero della chitarra; “Travelin’ Shoes” e “Gone Again”, in cui la sintesi di folk e rock (già prefigurata dal Dylan di Bringing It All Back Home) è colta in tutta la sua rude efficacia; e, per finire, “The Water Is Wide”: un andare alla deriva che è un eterno ritornare in sé, tra candori jazz ed estatico stupore.

Nonostante il valore di Bleecker & MacDougal, la fama di Neil restò confinata a un ristretto gruppo di appassionati. Poco male: lui era un tipo schivo e le luci dei riflettori di certo non lo esaltavano. Colta la palla al balzo, per ricaricare le pile si ritirò, quindi, a Coconut Grove, il quartiere più antico di Miami, tornando a New York di tanto in tanto, solo per esibirsi insieme ad alcuni amici (che aveva riunito sotto il nome di Seventh Son) nei locali della zona. Durante il periodo trascorso in Florida, Neil scoprì il Miami Seaquarium, in cui vivevano liberamente delfini e cetacei. Si trattò di un colpo di fulmine: imparò a prendersi cura dei delfini più piccoli, mentre, armato di chitarra, cercava in tutti i modi di comunicare con loro. Da quel piccolo paradiso, però, a un certo punto (siamo intorno alla fine del 1966) Neil fu costretto ad allontanarsi, perché era atteso in uno studio di Los Angeles. Herb Cohen, che nel frattempo era diventato il suo manager, lo aveva convinto ad abbandonare la Elektra (che, a suo dire, stava facendo poco per promuovere la sua musica) e a firmare per la Capitol, che immediatamente aveva fatto pressioni affinché venisse registrato un nuovo disco. Poco male, perché l’amore per i delfini Neil non lo aveva certo messo da parte e il brano “The Dolphins”, uno dei più belli del suo omonimo e terzo album (febbraio 1967), sta lì a testimoniarlo con le sue tremule fluttuazioni di chitarra e quell’incedere placido e rassegnato che la voce, calda e profonda, accarezza così come si fa con un animale ferito.

In questi solchi, ma anche su quelli delle struggenti “Everybody’s Talkin’” (in cui Neil cantava della sua voglia di ritornare agli assolati e rilassanti paesaggi della sua Florida) e “Faretheewell (Fred’s Tune)”, Tim Buckley passò molto, molto tempo, non a caso riprendendo “The Dolphins” su Sefronia (1973). Il secondo disco da solista di Neil riflette la condizione di un uomo che non ha messo da parte le inquietudini: le ha semplicemente accettate, rendendole oggetto di una meditazione profonda. E ciò si riflette nelle trame delicate, ma ricche di balugini introspettive, di “I’ve Got A Secret (Didn’t We Shake Sugaree)”, nei profumi di West Coast che si raccolgono intorno al nonsense di “Badi-Da”, ma anche nelle evoluzioni strumentali, a metà strada tra jazz e raga, di “Cynicrustpetefredjohn Raga”. Quando, infine, il folk e il blues si stringono la mano con fare distratto, nascono brani più ordinari come “That’s the Bag I’m In”, “Sweet Cocaine” e “Green Rocky Road”.

A differenza di quanto fatto da Paul Rothchild alla Elektra, il nuovo produttore, Nick Venet evitò di interferire più di tanto con il libero fluire della musica di Neil, lasciando che la stessa compisse liberamente il suo viaggio dagli strumenti al banco del mix. Proseguendo in quella direzione, su Sessions (1968) – che nelle note di copertina veniva presentato come la raccolta di «otto trascrizioni della vita di Fred Neil» – ascoltiamo il cantautore colto in presa diretta mentre, accompagnato da un contrabbassista e da uno sparuto gruppo di altri chitarristi, dilata, durante l’atto dell’improvvisazione, canzoni che erano nate in perfetta solitudine. Il risultato è il suo disco più vivo e “aperto”, diviso essenzialmente tra ariose partiture folk-rock (“Fools Are a Long Time Comin’”, “Looks Like Rain”) – che nel caso della vibrante “Rolls On Rosie” si tingono anche di blues -, e dilatazioni in cui, persa per strada la componente rock, il solo folk diventa un affare di inquietudini profondissime, di inabissamenti nelle acque più torbide dell’inconscio, le stesse cui, di lì a un anno, si abbandonerà anche il Tim Buckley dell’enigmatico e immenso Lorca (“Look Over Yonder”, “Merry Go Round”).

L’esperimento piacque soprattutto a Venet, il quale prese a marcare stretto un Neil sempre più restio a fare della musica la sua principale attività. Il produttore, comunque, riuscì a convincerlo a registrare altro materiale, in cui il cantautore collaborò, a quanto pare, anche con Johnny Cash e Kris Kristofferson. Ma tutto restò lettera morta. Nel frattempo, alcune delle sue canzoni continuavano a essere rilette da altri artisti, ottenendo in più di un’occasione anche un successo niente male, quando non addirittura clamoroso, come nel caso della “Everybody’s Talkin’” riletta da Harry Nilsson e di cui si è già detto all’inizio di questa storia.

Proprio quando il suo nome iniziava a circolare con più insistenza negli ambienti che contavano, Neil scelse di eclissarsi. Rinunciò a partecipare al festival di Woodstock e a quello di Miami, disse no ad alcune trasmissioni televisive. Venet, però, non si diede per vinto e, in un modo o nell’altro, riuscì a portarlo ancora in studio, dove furono incisi alcune rivisitazioni di brani tradizionali con la collaborazione, tra gli altri, di Dino Valenti, Gram Parsons e Stephen Stills. Non bastavano per riempire un intero album, così la Capitol vi aggiunse un set registrato dal vivo in un locale di Woodstock, comprendente alcuni dei suoi brani più importanti, tra cui “Everybody’s Talkin’” e “The Dolphins”. Il risultato, Other Side of This Life (1971) rappresentò il canto del cigno di Fred Neil, che per tutto il resto della sua vita – conclusasi nel luglio del 2001 – avrebbe dedicato il suo tempo al “Dolphin Project”, attraverso cui si prese cura dei suoi amati delfini. Sporadicamente, sarebbe tornato anche a calcare i palchi, ma solo per raccogliere fondi a sostegno del suddetto progetto.

Discografia Consigliata

Bleecker & MacDougal (1965)
Fred Neil (1967)
Sessions (1968)

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