Nato nel 2007 come progetto solista del chitarrista e cantante Ferdinando Farro (originario del Cilento), Maybe I’m è l’ennesima incarnazione dello spirito blues, ma di un blues storto, sporco e sgangherato. Lo metteva in chiaro già il primo demo, quel Satan’s Holding A Little Room For Me che si abbeverava alla fonte di Nick Cave e Tom Waits, ripercorrendo il cammino a ritroso, fino a Captain Beefheart e, quindi, fino alle origini mitiche delle dodici battute.
Con l’entrata in pianta stabile del batterista Antonio Marino, Maybe I’m diventò un duo, procedendo spedito verso l’esordio sulla lunga distanza. We Must Stop You, pubblicato nel 2010, è una raccolta di dispacci blues primitivisti registrati in bassa fedeltà, per restare fedeli all’assunto di una musica che nasceva, oltre un secolo fa ormai, come riflesso istantaneo del vissuto quotidiano. Racchiuso tra i vapori psichedelici e il percussionismo rituale della title-track e i titoli di coda, guidati dal violino dell’ospite Clara Foglia, di “Behind You There Is…”, quell’esordio, pur se ancora acerbo, riusciva in ogni caso a delineare la personalità di una formazione assolutamente a suo agio con la materia prima che si proponeva di lavorare. In un’atmosfera d’altri tempi, We Must Stop You proseguiva, quindi, con ballate cariche di fantasmi western, tra ghirigori di Hammond e fraseggi di banjo (“Fall”), canti di lavoro degli schiavi ridestati a nuova vita (“Pail Full Of Water”), ipnotismi e accenti morriconiani (“A Secret Lake”), i Doors virati noise-blues di “Carpet And Drainage” e una “Into Pieces…” che faceva pensare a uno di quei vecchissimi 78 giri, quelli che il blues lo restituivano impregnato di tutta la polvere, l’alcol e la malinconia di poveri cristi distrutti dalla vita.
Gli arrangiamenti sono tutti essenziali e la voce di Farro assomiglia a quella di un predicatore che continua a rimuginare sull’apocalisse prossima ventura. Il disco ottenne dei riscontri positivi, ma sarà con il successivo Homeless Ginga (2012) che le loro quotazioni raggiungeranno posizioni di tutto rispetto nel borsino degli appassionati di musiche sperimentali. Come evidenziavano sulla loro pagina bandcamp:
La ginga è l’elemento unificante tra i colpi di attacco, le schivate difensive e gli elementi puramente acrobatici. Viene effettuata tracciando un triangolo con le gambe e con le braccia che si muovono sempre a difendere il volto.
E ancora:
“Homeless ginga” è uno sguardo nel substrato, lì dove si annida il futuro, lì dove esistono movimenti e pulsioni scomposte ma ancora reali. “Homeless ginga” è un disco di attesa, attesa che tutte queste pulsioni si incanalino, prendano forma e spazzino via in maniera violenta e armoniosa quello che siamo collettivamente diventati. Cioè qualcosa di ben distante dall’umanità.
Aperto da “Third Lemma” (in pratica, dei Pere Ubu a zonzo lungo il Delta del Mississippi), quel loro secondo lavoro faceva leva anche sulla no-wave e sul punk più artistoide, miscelandoli con il solito blues alla deriva tra cupa disperazione, sarcasmo, bile e litri di whisky a buon mercato. Nello stomp di “Song Of Three Lands”, il fantasma di Nick Cave si lascia devastare da una chitarra rumorosa, ruvidissima. “I Set My House On Fire”, invece, è un galoppo esagitato in preda ad allucinazioni noise, laddove la title-track rutila allegrotta e disarticolata, mentre tutt’intorno si ascoltano i bagordi di un kazoo, di una ciaramella e il rintocco di bicchieri vuoti. Country & folk si danno invece convegno in “Oh My Rope”, declamata con una voce evidentemente alterata da sostanze psicotrope. Toni epici possiede, dal canto suo, “Slave From Another World”, mentre in “Armonica e Cheyenne” si consuma il matrimonio tra punk e blues, con il violino a dare man forte. E se “Terzigno” s’impenna e si ritrae in un continuum dissoluto, “Snake In The Ground” sigilla l’opera con una sorta di percussivo corale per ubriaconi amanti del blues.
Nel 2014, fu la volta di Bwa Kayiman (titolo che riecheggia un’antica cerimonia voodoo), disco di una formazione che nel frattempo ha ulteriormente perfezionato la sua formula art-noise-punk-blues, trasformandola in qualcosa di ancora più libero e sfuggente.
Nelle parole della band:
“Bwa Kayiman” è un disco che esplora il misticismo, non come fenomeno inglobato nelle religioni ufficiali, ma come moto dell’animo e del corpo (nel suo insieme di muscoli, nervi e ossa) verso il soprannaturale. Se le utopie collettiviste sono, mai come oggi, facilmente manipolabili dal potere, l’unico germe di rivoluzione sta nell’individuo e nella sua forza, e nelle modalità che egli ha per accrescerla.”
Registrato in presa diretta, con il supporto di alcuni amici musicisti quali Andrea Caprara al sax, Anacleto AV-K Prod all’elettronica e Cazzurillo alle voci, chitarre e pianole, Bwa Kayiman è opera in cui convivono la foga punk e gli arzigogoli free-jazz di “Education Of Young Citizen”, la new-wave così come l’avevano già prefigurata, alla fine degli anni Sessanta, i Red Crayola (“How To Build A Religion”), i martellanti ritmi ferroviari di “Commen-sale”, le pulsioni ossessive di “Houngan Boukman”, le scazzottate tra Captain Beefheart e The Ex di “Damballah Wedo” e la nenia blues di “Tutto quello che sai è falso”.
Carico di energia, tra fiati scoppiettanti, chitarre grattugiate e gorghi saturi di delirio, è invece il suono della title-track, laddove quello di “Sele” è paludoso e tribaloide. Tutti brani da “ingoiare velocemente, perché il tempo sta per scadere.”
Dopo la pubblicazione del disco, nonostante la risposta ancora molto positiva degli addetti ai lavori, la band entrò in un lungo periodo di silenzio, da cui – è notizia dell’ultim’ora – uscirà a breve, con la pubblicazione di un nuovo disco.
Raggiunto via mail, Ferdinando Farro così si è espresso al riguardo:
“Il nuovo disco si chiamerà Colonia. Lo abbiamo registrato praticamente in tre giorni a Murotorto, uno spazio autogestito a Eboli (SA). Non abbiamo ancora una data di pubblicazione precisa, anche se credo che, alla fine, uscirà nell’autunno di quest’anno. Non avendolo ancora mixato e chiuso definitivamente, non so ancora cosa dirti sul disco in sé, tranne che è stato (s)composto davvero di getto: per tre anni siamo stati fermi musicalmente parlando e umanamente abbiamo fatto percorsi di vita diversi, che ci hanno allontanati anche fisicamente; inoltre ci serviva un break dalla musica, non nel senso dell’atto fisico del suonare, ma dalla bolla culturale e sociale in cui ormai quest’atto è ghettizzato, anche nel circuito cosiddetto “indipendente” (da cosa poi?).Quando ci siamo rivisti, non abbiamo nemmeno discusso la possibilità di ricominciare un percorso musicale. Abbiamo parlato solo di quello che c’era capitato durante questi anni, accorgendoci, a conti fatti, che eravamo giunti alle stesse conclusioni su ciò che ci circonda. E solo a quel punto abbiamo pensato: «Ok, suoniamo!», ma sempre senza l’idea di fare un disco. Poi, in pochi giorni di “ritiro” a Murotorto, aiutati da cani, allucinogeni e ritmi improduttivi, abbiamo buttato giù una serie di pezzi che ci sembrava formassero un discorso coerente e li abbiamo registrati. Se e quanto siamo “cambiati” musicalmente rispetto a tre anni fa, non ci interessa nemmeno stabilirlo o quantificarlo: suonare per noi ha sempre rappresentato un riflesso della vita su cui abbiamo deliberatamente esercitato poco controllo. Fondamentalmente, i dubbi che pure avevamo su come “suonasse” questo disco si sono dissipati con la semplice considerazione che, in fin dei conti, se facciamo un disco di merda, non muore nessuno.”
Che dire? Non resta che aspettare…
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