Hasil Adkins: un outsider
Personaggio eccentrico e vero e proprio outsider, Hasil Adkins non solo è considerato l’iniziatore del cosiddetto «psychobilly» (in pratica una versione deragliante e allucinata del rockabilly), ma è anche accreditato quale padre putativo di tutte le one-man bands a venire.
Nato a Boone County, West Virginia, il 29 aprile del 1937, Adkins rifiutò sdegnosamente di seguire le orme dei suoi padri, che avevano passato una vita intera a lavorare in miniera. Il suo unico desiderio era quello di fare il musicista, allettato dalla vita avventurosa e dalla relativa fama di molti dei suoi bluesmen preferiti. Se da bambino si divertiva a percuotere senza sosta le confezioni del latte, quando divenne più maturo iniziò, invece, a intrufolarsi nelle bettole del paese, dove riusciva sempre a trovare il modo di scroccare una chitarra per lanciarsi in improbabili versioni dei suoi brani preferiti. Le prime canzoni che imparò a suonare furono “Mule Skinner Blues” e “T For Texas” di Jimmy Rodgers, più alcune provenienti dai canzonieri di Bill Monroe e di Roy Acuff. A un certo punto, attratto dalla musica di Hank Williams, scrisse dei brani di proprio pugno e li registrò alla buona con un’attrezzatura non proprio impeccabile (come dirà qualche anno dopo: «Non cercavo di essere primitivo. Avevo solo dei microfoni scadenti.»).
Adkins (che nel frattempo i suoi compaesani avevano preso a chiamare “The Haze”, nomignolo nato dalla contrazione di “Elvis Hasil Adkins”) suonava tutto da solo, dividendosi tra chitarra, batteria a pedali e armonica. Per tutta la seconda metà degli anni Cinquanta, le etichette discografiche cui si era personalmente rivolto si rifiutarono di pubblicargli brani sconclusionati, ma comunque non privi di un certo fascino primitivo, come “She Said” (che potremmo definire come un campagnolo incrocio di rockabilly e country), “Chicken Walk” (solo il primo di numerosi brani che egli dedicherà ai polli, per la cui carne andava letteralmente pazzo), “I Wanna Kiss Kiss Kiss Your Lips” (il rock’n’roll suonato nel garage più lercio) e quella “The Hunch” che, molto più musicale della media delle sue creazioni, di solito accompagnava con le mosse di un omonimo ballo sfrenato e sensuale. Poi, nel 1962, la Air Records, un’etichetta della Florida gli offrì la possibilità di mettere su disco alcuni dei suoi brani (“alcuni”, perché Adkins andava dicendo di aver scritto migliaia e migliaia di canzoni…). Ovviamente, del successo nemmeno l’ombra. Adkins, però, non si perse d’animo e continuò a registrare la sua musica, che ogni tanto riusciva a far pubblicare grazie al sostegno di qualche etichetta coraggiosa. In segno di rispetto per il presidente degli Stati Uniti, ogni volta che usciva un suo singolo, mandava una copia all’indirizzo della Casa Bianca. Solo Richard Nixon gli rispose, inviandogli nel 1970 una lettera di ringraziamento…
Alla fine, quel suo sound grezzo e semiacustico, caratterizzato da retaggi country e honky-tonk, ma anche da qualche coloritura rhythm and blues, e accompagnato da una voce accattivante, nonostante la sua impronta ribelle e sgraziata, ritornò a galla tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, quando, dopo la sbornia nichilista del punk e le inquietudini postmoderne della new-wave, molte band iniziarono a rifugiarsi tra i solchi di quei dischi che avevano eretto un monumento al rockabilly. Fu così che anche un outsider assoluto come Adkins ebbe il suo piccolo momento di gloria. Alcuni suoi singoli furono ripubblicati e, cosa ancora più importante, i Cramps, band capofila di quello che, nel frattempo, era stato definito «psychobilly», gli resero omaggio con la cover di “She Said”, uno dei suoi brani di punta.
Nel tentativo di mettere ordine in una discografia non sempre decifrabile, a partire dal 1984 alcune raccolte del suo vecchio materiale raggiunsero i negozi di dischi. La più importante e famosa è sicuramente Out To Hunch, pubblicata nel 1986 dalla Norton. Accanto alle già citate “She Said, “Chicken Walk” e “The Hunch”, la raccolta presentò alle generazioni più giovani un mondo sonoro sgangherato e demente, tra ululati beoti (“I’m Happy”), garage-rock belluini (“Can’t Help It Blues”), aberranti deformazioni di qualcosa che sta a metà strada tra la colonna sonora di un film horror e vecchie registrazioni di bluesman schizofrenici (“We Got A Date”, “I Need Your Head (…This Ain’t No Rock N’ Roll Show)”), danze primitiviste (“Hot Dog Baby”), rivisitazioni alla buona dei Rolling Stones (“You Don’t Love Me”), siluri rockabilly (“Ha Ha Cat Walk Baby”, “Truly Ruly”) e un paio di cover che rispecchiavano fedelmente il suo spirito anarchico (“High School Confidential” di Jerry Lee Lewis e “Memphis” di Chuck Berry). A completare il quadro, l’ode alla decapitazione di “No More Hot Dogs”, con tanto di risate da psicopatico a intervallare il flusso cadenzato della musica:
I’m gonna put your head on my wall
Just like I told you, baby
You can’t talk no more
Can’t eat no more hot dogs
Eat no more ho’ot dogs,
I’m gonna put your head, a-put it on my wall
Sto per mettere la tua testa sul mio muro
Proprio come ti ho detto, piccola
Non puoi più parlare
Non puoi più mangiare hot-dog
Più mangiare hot-dog
Sto per mettere la tua testa, metterla sul mio muro
Per sfruttare il rinnovato interesse intorno alla sua figura (acuito anche da tutta una serie di concerti più o meno memorabili), nel 1987 fu pubblicato un disco di inediti, The Wild Man. Aperto dall’ennesimo omaggio al pollo (“Chicken Flop”), il disco presenta un sound complessivamente ripulito (c’è anche una ballata romantica come “Still Missing You”!) e brani mediamente meno interessanti, anche se la title-track, “Big Red Satellite”, “Punchy Wunchy Wickey Wackey Woo”, “Haunted House” e “Wild Wild Friday Night” potrebbero tranquillamente finire in una sua antologia. Agli inizi degli anni Novanta, Adkins ricevette dalla I.R.S. Records l’offerta di pubblicare un disco ma, nonostante gli accordi presi, alla fine tutto restò lettera morta.
Deluso ma sempre battagliero, Adkins continuò a suonare in lungo e in largo e nel 1993 alcune delle sue spericolate performance dal vivo finirono su Look At That Caveman Go!!. Nel 1994, invece, sempre la Norton gli diede la possibilità di registrare Achy Breaky Ha Ha Ha, un disco di ballate country che, tuttavia, funzionava solo a tratti (“Leaves In Autumn”, “Twenty Eight Years”, “She Thinks I Still Care”). Laboriosa e tormentata fu, invece, la gestazione di What The Hell Was I Thinking (1998), disco che in parte recuperava le asprezze dei suoi momenti meno ortodossi, pur se comunque declinate in dosi più accettabili. Barcamenandosi tra country, blues e rockabilly, il disco contribuì a risollevare almeno in parte le quotazioni di un musicista che nelle trame accorate di “Your Memories” e “Beautiful Hills”, nello spirito gracchiante di “No Shoes”, “You’re Gonna Miss Me” e “Gone Gone Gone”, nel rock’n’roll primitivista di “Stay With Me” e nell’intensità gospel di “Talkin’ To My Lord” mostrava di avere ancora qualche discreta cartuccia da sparare.
Nonostante fosse inaugurato da una tenera canzone d’amore per chitarra e voce (“Missing You Baby”) e chiuso dalla sofferta confessione della title-track, Drinkin’ My Life Away (1998) non concesse, invece, molto ai fronzoli, restituendo ai suoi fan un Adkins alle prese con la sua classica miscela di rockabilly scalcinato (“Carry Your Books From School”, “Change Gears on That Thing”, “You’re Too Young For Me”), country alla caffeina (“Chocolate Milk Honeymoon”) o troglodita (“Save Me Some Loving”) e blues nevrotico (“Madison Blues”, “Talking Yes & No”).
Le sue ultime registrazioni si possono ascoltare su Night Life (2005), un disco nato dall’interessamento dell’artista e musicista Jeffrey Scott Holland, che propose ad Adkins di registrare dei brani insieme a una band di musicisti di Louisville, optando per un sound più orientato al jazz e al blues. In studio, però, Adkins si trovò molto a disagio a registrare senza contemporaneamente suonare anche la sua chitarra e non esitò ad avanzare più di una riserva su quel nuovo sound che Holland gli aveva prospettato. Alla fine, si giunse a un compromesso e il risultato fu un disco in cui Adkins recita sia la parte del crooner intento a disegnare ballate crepuscolari (la title-track, “Hunchin’ The Town”, “Walkin’ In The Garden With Amy”, “The Moon”), sia quella del solito ribelle alle prese con dissennate escursioni rockabilly (“Go, Go, Go”, “Take A Walk With Me”, “Alien Talk”, “Night Life Hunch”). In un paio di brani (“So Blue”, “Hills Of West Virginia”), Adkins suonò anche il banjo, uno strumento che aveva comprato proprio in quei giorni.
Il 25 aprile del 2005, Hasil Adkins fu trovato morto nella sua casa di Boone County. Tre giorni dopo avrebbe compiuto 68 anni.
Discografia Consigliata
Out The Hunch (compilation, 1986)
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