Link Wray

In una recente intervista, Dan Auerbach (chitarrista e cantante degli americani Black Keys) così si esprimeva a proposito di una possibile candidatura di Link Wray nella Rock And Roll Hall Of Fame: «In un certo senso, ha inventato il rock and roll, e rappresenta il nesso tra l’America primordiale e i ritmi del rock and roll. È stato il primo a suonare la chitarra con aggressività. Nessuno prima di lui era stato così minaccioso. Non ci sarebbe nessuno di noi senza Link Wray. Quando una qualsiasi forma d’arte inizia, devono esserci alcuni visionari, e lui lo era.»

Link Wray non inventò il rock and roll, ma è certo che fu lui il primo a creare un suono denso e robusto, contraddistinto da lunghi feedback e poderosi «power chords» (bicordi suonati simultaneamente e resi ancora più potenti dall’uso della distorsione). Per rendere ancora più aggressivo il sound della sua chitarra (definito con il termine «fuzz tone»), Wray non esitava a danneggiare volutamente gli amplificatori. Fu anche tra i primi a esibirsi vestito di pelle nera, occhiali scuri e catene al collo, inaugurando uno stile che avrebbe avuto grande fortuna durante tutta la storia del rock. Come ha scritto un suo fan da qualche parte sul web: “He was cool before cool was cool”…

Nato Fred Lincoln Wray Jr. a Dunn, Carolina del Nord, il 2 maggio 1929, Wray dichiarerà di aver imparato a suonare la chitarra seguendo i consigli di un certo Hambone, un artista circense itinerante. Intorno ai vent’anni, a causa della sua partecipazione alla guerra di Corea, contrasse la tubercolosi, malattia che gli costò l’asportazione di un polmone e un responso senz’appello da parte dei medici: non avrebbe mai potuto cantare in vita sua. Pensò, quindi, di concentrarsi su brani strumentali dominati dalla sua chitarra, strumento che lo avrebbe accompagnato fino alla tomba. Si fece, quindi, le ossa, insieme ai fratelli Vernon (chitarra) e Doug (batteria) in formazioni quali Lazy Pine Wranglers, Lucky Wray and the Palomino Ranch Hands e, quindi, Link Wray & The Wraymen. Con quest’ultima ragione sociale, intorno alla metà degli anni Cinquanta, fu ospite fisso al The Milt Grant Show, uno spettacolo di musica e ballo prodotto a Washington. Intanto, mentre, in qualità di sessionman, partecipava a incisioni del cantante Dick Williams e dell’artista rockabilly Marvin Rainwater, Wray si teneva bello caldo suonando dal vivo con i Wraymen. Uno dei suoi cavalli di battaglia si chiamava “Oddball”, un brano che suscitava sempre richieste di bis da parte del pubblico. Fu proprio quel brano che, a un certo punto, raggiunse le orecchie di Archie Bleyer, il produttore della Cadence Records, che non lo apprezzò molto (anche perché Wray, per ottenere il caratteristico suono distorto della sua chitarra, gli aveva bucato un paio di amplificatori…), salvo poi rivalutarlo quando la figliastra gli fece notare che “Oddball” le faceva venire in mente la scena della rissa del film West Side Story. La suggestione evocata dalla giovane fanciulla convinse Wray a cambiare il titolo del brano in “Rumble”, che in slang americano sta a indicare una “rissa” o una violenta rivolta. “Rumble” (uno strumentale lento e ipnotico, ma anche vagamente tenebroso nel suo riecheggiare, distorcendolo, il twang di Duane Eddy) uscì come singolo nel marzo del 1958 e fu messo all’indice da moltissime stazioni radiofoniche, evidentemente scioccate da quel sound così particolare che, dato il titolo, non poteva fare altro che richiamare alla memoria immagini di violenza e di rivolte. E, questo, l’America puritana e ossessionata dall’ordine degli anni Cinquanta, non poteva proprio permetterselo. Tuttavia, come spesso accade in questi casi, quel brano proibito iniziò a muoversi sotterraneamente, restando in classifica (posizione numero 16) per più di tre mesi e vendendo oltre un milione e mezzo di copie. Ad accompagnare “Rumble”, c’era sul lato B “The Swag”, un brano pulsante e carico di energia nervosa. Per la Cadence, durante tutto il 1958, pensando alla possibile pubblicazione di un vero e proprio Lp, Wray e i suoi registrarono molti altri brani. Tuttavia, il progetto fu definitivamente accantonato nel 1959, quando l’artista passò alla Epic. Solo nel 2006, quelle session saranno rese pubbliche dalla Sundazed sulla raccolta White Lightning: Lost Cadence Sessions ’58.

Nel 1959, dopo essere passato alla Epic, Wray riuscì in parte a bissare il successo del suo primo singolo grazie a “Raw-Hide” / “Dixie-Doodle”, che accoppiava, rispettivamente, una cavalcata surf-rockabilly e una tirata scoppiettante. Seguirono, dunque, altri singoli più o meno riusciti, tra cui “Comanche”, “Lillian” e “Slinky”, prima che, nel 1960, venisse pubblicato Link Wray & The Wraymen, suo esordio sulla lunga distanza. Oltre alla presenza dei singoli pubblicati dalla Epic e di una rivisitazione annacquata di “Rumble” (messa in scaletta con il titolo di “Ramble”), il disco manifestava echi più o meno scoperti di Duane Eddy (“Caroline”, “Right Turn”), accenti rockabilly con contorno di fiati (“Hand Clapper”) e tracce di blues (“Studio Blues”), riuscendo solo in parte a rendere giustizia alle intenzioni del suo autore. Di lì a poco, deluso dalle vendite degli ultimi singoli, Wray fondò un’etichetta tutta sua, chiamata, manco a dirlo, Rumble Records. Il primo singolo del nuovo corso fu un altro classico assoluto del suo repertorio: “Jack The Ripper” (1961), sorta di “Rumble” suonata al quadruplo della velocità, in una prodigiosa prefigurazione di quello che, un paio di decenni dopo, sarebbe stato chiamato «psychobilly», un genere che, in quegli stessi anni, ma a un livello ancora più sotterraneo, anche un outsider come Hasil Adkins stava contribuendo a definire una volta e per tutte. Nel 1963, Jack The Ripper divenne anche il titolo e il brano guida del suo secondo Lp. Se da un lato, in quei solchi, Wray mostrava chiaramente di gettare un orecchio alla surf-music (un genere alla cui nascita egli stesso aveva, almeno in parte, contribuito), dall’altro era anche più che evidente l’influenza della lezione strumentale, più ariosa e accattivante, di Duane Eddy. Jack The Ripper si lascia preferire al suo predecessore grazie a numeri scanzonati e trascinanti come “Mr. Guitar” e “My Beth”, alle tessiture cariche di tensione di “Deacon Jones” e “Steel Trap”, all’ipotesi di country’n’roll dilatato di “Cross Ties”, alle sofisticate architetture di “Big Ben” e a quelle anticipazioni di garage rock e hard-rock che rispondono al nome, rispettivamente, di “Dinosaur” e “Run Chicken Run”, quest’ultima con tanto di imitazione chitarristica del verso del pollo! Nei singoli successivi, usciti tra il 1963 e il 1965, Wray si barcamenò tra momenti bizzarri e altri più rigorosamente ispirati alla stagione del rock’n’roll (“Week End” / “Turnpike, USA”), tentativi di rievocare le atmosfere di “Rumble” e struggenti acquerelli (“The Shadow Knows” / “My Alberta”), selvagge scorribande garage-rock e piccole colonne sonore per pomeriggi estivi a bordo di un surf (“Deuces Wild” / “Summer Dream”), cavalcate desertiche e progressioni blues (“Ace Of Spades” / “The Fuzz”), fino ad accoppiate sempre più prevedibili, quando non propriamente banali (“I’m Branded” / “Hang On” e “Batman Theme” / “Alone”). Lo scarso riscontro commerciale delle sue ultime creazioni, però, lo spinse a ritirarsi in quel di Accokeek, nel Maryland, dove andò a vivere nella fattoria di famiglia. La passione per la musica, tuttavia, non lo abbandonò, tanto da indurlo a trasformare il pollaio in uno studio di registrazione! Fu lì che il chitarrista si divertì a rifare “Rumble”, incidendo ex novo la parte di chitarra e aggiungendo, nella versione del 1968, qualche frase di armonica e in quella dell’anno successivo anche una linea di tastiera (quest’ultima suonata da Joey Welz). Pur avendo, già nel biennio precedente, rielaborato in più di un’occasione il suo brano più classico (si ascoltino, ad esempio, “Rumble Mambo” e “Rumble ‘65”), fu solo con le versioni del ’68 e del ’69 che Wray finì per realizzare quelli che, col senno di poi, sono da considerare come i primi esempi di remix della storia1.

All’inizio degli anni Settanta, Wray riprese contatto con gli ambienti della musica attraverso John Cipollina, il chitarrista dei Quicksilver Messenger Service. Gli tornò, così, la voglia di mettere su una nuova band, cui inizialmente partecipò anche lo stesso Cipollina. Nel giugno del 1971, dopo un certo periodo di rodaggio, fu dato alle stampe Link Wray, pensato e registrato proprio nello studio-pollaio di Accokeek. Il nuovo disco non piacque ai vecchi fan, perché nel frattempo Wray aveva virato su posizioni roots-rock, in ciò adeguandosi al clima di generale “riflusso” che stava dominando la musica americana dopo la sbornia hippie-psichedelica della seconda metà degli anni Sessanta. Nonostante tutto, però, il disco è uno dei suoi migliori in assoluto, forte di un buon equilibrio tra le parti e di una scrittura mediamente ispirata. Wray e la sua cricca passano in rassegna echi di Rolling Stones (“La De Da” e “Black River Swamp”, con tanto di cori gospel), ballate Dylan-iane e omaggi a The Band che fanno pensare a inni religiosi (“Take Me Home Jesus”, “Juke Box Mama”, “Fallin’ Rain”), stomp country-blues o garage-rock (“Black River Swamp”, “God Out West”) e disimpegni folk-blues in linea con quanto andava di moda nei primi anni Settanta (“Crowbar”). Per ascoltare qualcosa di più elettrico, bisogna, invece, aspettare la conclusiva “Tail Dragger”.

Sull’album successivo, Be What You Want To (1973) – impreziosito dalla presenza di numerosi musicisti, il più famoso dei quali è sicuramente il chitarrista Jerry Garcia dei Grateful Dead – Wray continuò nella sua ricognizione attraverso il country (la title-track, tinta di vibrante soul; “Lawdy Miss Clawdy”), dignitoso blues-rock (“Riverbend”, “You Really Got a Hold on Me”), funky-boogie (“Walk Easy, Walk Slow”), ballate cariche di pathos (“All Cried Out”, “Tucson, Arizona”, “All the Love in My Life”) e intimismo acustico (“Morning”).

Con un budget più ristretto, in quello stesso anno fu approntato anche Beans And Fatback che, mentre continuava a fare il verso ai Rolling Stones (“Hobo Man” e, soprattutto, “I’m So Glad”, in cui Wray ha finalmente modo di riscaricare tutta la propria energia sulle corde della chitarra), accentuava ancora di più i tratti roots della sua musica, come ben evidenziano gli strumentali della title-track e di “Alabama Electric Circus”, ma anche le reminiscenze dei canti dei Nativi americani che assediano “Shawnee Tribe” (con cui Wray rievocava le sue origini indiane), i sofferti blues di “Water Boy” e le riletture di tradizionali quali “Georgia Pines” e “Take My Hand (Precious Lord)”.

Con “It Was A Bad Scene”, brano d’apertura di The Link Wray Rumble (1974), si ritornò, invece, al rock’n’roll delle origini, un fantasma che, in un modo o nell’altro, aleggia anche su “Walkin’ Bulldog” (vagamente ispirata a “Mona” di Bo Diddley), laddove “Good Time Joe” e “I Got To Ramble” (quest’ultima dedicata alla memoria di Duane Allman, il compianto chitarrista della Allman Brothers Band) fanno dell’ottimo southern-rock, mentre la coppia “Backwoods Preacher Man” / “Step This Way” svolgono il blues-rock in chiave gospel. In coda, l’ennesima versione di “Rumble” sigilla degnamente un altro tassello importante della sua discografia.

Su Stuck In Gear (uscito nel 1975 e dedicato all’amico Shorty Horton, morto l’anno prima), tornò a risplendere il lato più rockeggiante della sua personalità. In “Southern Lady” e “Midnight Lover”, Wray regala due dei suoi migliori assoli di sempre, mentre la rilettura di “Jack The Ripper” è ancora più elettrizzante dell’originale. Molto meno convincenti, invece, sono un paio di tentativi di fare il verso all’Elvis Presley più romantico (“I Know You’re Leaving Me Now” e “Cottoncandy Apples”).

Nel biennio ’77-’78, Wray suonò su due dischi di Robert Gordon, uno dei personaggi più in vista del revival rockabilly. Sia Robert Gordon With Link Wray che Fresh Fish Special sono lavori altalenanti (in ogni caso, dovendo scegliere, opterei per il secondo), ma consentirono comunque al chitarrista di mettersi alla prova in maniera più consistente con un genere cui, sostanzialmente, si era dedicato pochissimo.

Gli anni Settanta si chiusero con la pubblicazione di un altro dei suoi dischi solisti, Bullshot (1979), messo a punto sia tenendo conto del recente ritorno di fiamma per i suoni degli anni Cinquanta/Sessanta, sia sforzandosi di tenere le antenne ben sintonizzate sui suoni del punk e della new-wave, come ben dimostrano brani quali “Good Good Lovin’”, lo strumentale “Switchblade”, la rivisitazione in chiave psychobilly di “Fever” o quella di “It’s All Over Now Baby Blue” di Bob Dylan. Nell’incendiaria “The Sky Is Falling”, invece, Wray tortura a dovere la sua chitarra.

Live at the Paradiso (registrato durante due concerti dell’agosto 1979 in quel di Amsterdam e pubblicato l’anno successivo) testimoniò in modo netto la presa della musica di Wray sulle nuove generazioni di musicisti e semplici appassionati, consegnando, di rimando, l’istantanea di un chitarrista (all’epoca cinquantenne) ancora indemoniato, capace di gettare, senza remore, il cuore oltre l’ostacolo in febbricitanti versioni di “Ace Of Spades”, “She’s No Good”, la solita “Rumble”, “Rawhide”, “Shake, Rattle and Roll” ma anche nella lunga e sofferta “Subway Blues”. Nei momenti più “pesanti”, Wray sembra dare ragione a quanti, già allora, lo indicavano come il vero capostipite dell’heavy-metal.

Dopo essersi sposato, all’inizio degli anni Ottanta Wray si trasferì in Danimarca, sostanzialmente allontanandosi dalla scena musicale, fatta eccezione per qualche sporadica collaborazione e qualche concerto qua e là. Con l’avvento degli anni Novanta, mentre saliva la febbre del grunge sul termometro del rock, molti dei nuovi idoli giovanili presero a citare il vecchio chitarrista come una delle loro principali influenze. Wray tornò, così, in studio di registrazione e pubblicò nuovi dischi, di cui il migliore è sicuramente Shadowplay, uscito nel 1997 ma registrato due anni prima. Wray (che, a quell’epoca, di anni ne faceva contare ben 68!) mostrava di non voler cedere di un millimetro al passare del tempo, lanciandosi in folli cavalcate rockabilly/rock’n’roll (“Moped Baby”, “Timewarp / Brain Damage”) e imbastendo partiture rumorose e minacciose (“Run Through The Jungle”, “Night Prowler”), quando non epiche (“You Make It So Easy”, “Listen To The Drums”). C’era anche spazio per l’ennesima variazione sul suo colpo più a effetto (“Rumble On The Docks”), mentre in coda si materializzavano miraggi desertici (la title-track).

Nel 2005, dopo aver suonato una quarantina di concerti per promuovere l’uscita di Wray’s Three Track Shack (contentente la ristampa dei suoi dischi del triennio ’71-’73), Wray morì a Copenhagen per un attacco di cuore.

È Dio che suona la mia chitarra. Io sono con Dio quando suono.

Note:

  1. Fonte: Rumble ’68 e Rumble ’69: Link Wray pubblica i primi remix della storia del rock
Discografia Consigliata

Jack the Ripper (1963)
Link Wray (1971)
The Link Wray Rumble (1974)
Live at the Paradiso (1980)
Rumble! The Best of Link Wray (compilation, 1993)
Shadowman (1997)

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