Napoli Reloaded, il synth funk mi rende allegro

Nell’epoca moderna ultra digitalizzata dominata dai social, dalle piattaforme streaming, dai kick in loop e dai suoni cibernetici, desta stupore trovarsi dinanzi a un prodotto che guarda al passato per andare, paradossalmente, avanti. Parafrasando Massimo Fini, verrebbe da esclamare:

“Il futuro è dietro di noi”.

E ai napoletanissimi producer Lucio Aquilina e Massimo Di Lena, titolari del progetto Nu Guinea, questo concetto deve piacere non poco. I due manipolatori sono rimasti per lungo tempo nella capitale mondiale della musica elettronica: Berlino. Un passaggio quasi obbligato per flotte di musicisti contemporanei dediti all’accrescimento di un percorso che trova nelle cosiddette macchine, dunque nei Buchla, nei Moog e nei Synth di ogni specie, la propria ragion d’essere. Ragazzi che inseguono un cammino altrimenti assai difficile da potenziare nel Belpaese a conti fatti ancora distante da determinati approcci compositivi, e da sperimentazioni voltaiche esprimibili solo in determinati spazi appositi.

Checché ne dicano i più arditi difensori dell’elettronica Made in Italy, è in atto da diversi lustri una fuga di artisti non dissimile da quella dei cosiddetti cervelli accademici. Una fuga di massa che coinvolge soprattutto compositori di stampo meramente elettronico, costretti a spostarsi in Germania per provare a dare un senso, oltre a un estremo perfezionamento stilistico, alla propria vita e alla propria musica. Così, i due fenomeni partenopei hanno deciso di intraprendere un cammino ben noto ai più, rinvigorendo nella metropoli tedesca il proprio marchio di fabbrica, da sempre dedito alla rielaborazione di un modello a metà tra cosmic-disco, synth-funk e la idm più pulsante e meno cerebrale. Una volta ottenuto l’applauso di un gigante come Tony Allen – in seguito all’uscita dell’album The Tony Allen Experiments, terzo volume della serie Afrobeat Makers, nel quale i due hanno dato sfoggio della propria abilità, contorcendosi con eleganza sui pattern di batteria del maestro dell’Afrobeat – la premiata coppia ha ben pensato di tornare a casa, e dare vita a un disco che omaggia visceralmente la propria città, la sua storia, il suo cammino musicale per certi versi più luminoso.

Nuova Napoli non è un lavoro come tutti gli altri. È una retrospettiva funzionale di un suono che ha costituito la colonna sonora della città partenopea nei suoi anni più bui e al contempo vivaci. Anni di piombo, fuoco e coriandoli. Anni di lacrime amare e caroselli. Anni mistici, la cui danza fu affidata a un movimento musicale altrettanto “mistico e sensuale” [cit. Franco Battiato] che ha letteralmente dominato la piazza per interi decenni. Il blasonatissimo e fenomenale Neapolitan Power ha surclassato il mercato discografico, con i suoi capolavori di fusion popolare, di latin-jazz, funky aggiornato a una lingua melodicamente funzionale come forse mai nessun’altra su questo pianeta. Senza scomodare i Daniele, i De Piscopo, gli Esposito e i Senese, il movimento ha forgiato uno stile senza tempo che ha fatto epoca e che, tuttavia, da diversi mesi sembrava aver esaurito definitivamente la propria spinta propulsiva in seguito all’avvento di nuove realtà, nuovi fenomeni di massa come la cliccatissima trap. Ma Napoli, come ben sappiamo, non è una città come tutte le altre. Napoli non dimentica, e usa tutti gli ingredienti a sua disposizione; dinanzi all’eventualità di una nuova ricetta, continua a utilizzare la medesima alchimia, pur ricollocandola su piani di cottura estremamente diversi, modificandone infine anche le dosi adottate, senza per questo peggiorare l’esito finale, quel sapore unico e inconfondibile che per l’ennesima volta non lascia scampo.

La mitologica Napoli a cavallo tra i ’70 e gli ’80 rivive così la sua luminescenza mediante bordate di linee di synth orgiastiche, plananti come libellule ai bordi di uno stagno, seducenti e incalzanti come sirene invasate dal richiamo della carne umana. È la Napoli fascinosissima e surreale di Donatella Viggiano, Antonio Sorrentino e Pino Amoroso che rivive all’improvviso, che si specchia nel proprio sound, nella propria dissacrante armonia. Una malinconia frizzante, suggestiva fino al midollo, che non fa prigionieri, e che si trascina nei propri paradossi sociali, nella propria innata allegria. La città che non dorme mai diventa quindi il leit motiv di un album che fonde il funk cosmico di Daniele Baldelli e le visioni erotiche dei maestri Piccioni, Umiliani, Frizzi e Tempera.

Eppure, l’operazione di recupero attuata dai due giovani maestri del beat, in origine non differisce dal 90% della retro-mania posta costantemente in atto dentro qualsiasi ambito; tuttavia, i due si incamminano in una strada diversa, e in direzione opposta ai recuperi di generi mediamente inflazionati come rock, techno, house, folk hipsterino, post punk, synth pop etc.; una direzione che punta al reinserimento di tendenze dimenticate e variopinti cult discografici che troveranno ulteriore spazio nella compilation, intitolata Napoli Segreta, in uscita il prossimo 20 Giugno sempre a marchio Nu Guinea. Ascoltare brani come Ddoje Facce implica danzare immaginandosi nei quartieri del centro storico con alle cuffie una compilation easy listening a caso dei meravigliosi ’70. Le voci femminee, i continui richiami alla tradizione popolare, ai proverbi e alla saggezza della gente comune, fungono da collante poetico a partiture funky che non lasciano scampo, come accade nella briosa ‘A Voce ‘E Napule con tanto di sax irresistibile e ricami cosmici da tappeto. Una delizia che non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di capolavori cinematografici dell’epoca come No grazie, il caffè mi rende nervoso di Lodovico Gasparini.

Il miracolo che rende questo disco a suo modo un piccolo grande capolavoro, e i suoi creatori due dei “nuovi” fenomeni più entusiasmanti in circolazione, è l’assoluta capacità di riuscire a suonare fresco al netto di una ripresa a tratti pedissequa di generi alla vigilia visti dai più in una fase di inesorabile e fisiologico declino. E’ come se i due producer avessero deciso di puntare i propri due cents sul numero più estratto al Lotto negli ultimi quarant’anni, mentre tutti gli altri guardavano ai più ritardatari, e riuscendo comunque a vincere. Un azzardo dettato da una visione vastissima, e soprattutto da una maestria ai controlli con pochi raffronti possibili nello scenario elettronico attuale. Già, perché mettersi “a fare i Baldelli” gigioneggiando con classe e con spavalderia, è qualcosa che appartiene solo ai grandissimi.

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