La desolazione secondo Kotzuga
Yakamoto Kotzuga è il moniker dietro cui si cela Giacomo Mazzucato, producer dall’ampio spettro elettronico nato nel 1994 a Venezia. Mazzucato è uno di quelli che riescono a lambire più mondi senza per questo lasciarsi travolgere. Il suo habitat elettronico giace ai bordi di una navetta sonora che fonde architettonicamente John Carpenter e Arca. Un microcosmo che prevede suggestioni sci-fi e bordate in HD; il tutto avvolto da un misticismo appagante. La musica a marchio Kotzuga è uno sguardo oltre gli steccati. Yakamoto siede sotto il suo bell’alberello e osserva il mondo alla stregua di un monaco tibetano che ha improvvisamente aperto gli occhi e guarda le cose con aria tranquilla, ma non per questo poco profonda. Il debutto di Yakamoto Kotzuga avvenne nel 2013 con un EP, “Rooms Of Emptiness”, in uscita per Bad Panda Records, seguito pochi mesi dopo da “Lost Keys & Stolen Kisses”, edito per la francese Highlife Recordings. Dopo aver ricevuto elogi e destra e a manca, Mazzucato ha posto la sua calda manina sui lavori di musicisti del calibro di Ghemon e Mecna, oltre a numerosi remix e diverse collaborazioni, tra cui la scelta di “Your Smell” come colonna sonora per una varietà di reportage su Vogue durante la settimana della moda a Parigi. Non a caso, il giovane compositore veneziano è attivo anche come sound designer, e ha prestato il proprio talento a marchi internazionali. Insomma, se c’è qualcuno che lega arte ed elettronica, installazioni visive e moda, questo qualcuno è proprio l’abile Mazzucato.
Un fenomeno che nel 2014 debutta con il singolo “Tutte queste cose che ho sempre avuto” presso la prestigiosa label italiana La Tempesta, al quale farà da lancio al contratto ottenuto al centro di ricerca della comunicazione del gruppo Benetton, dove attualmente occupa il ruolo di compositore e sound designer, creando colonne sonore per documentari, installazioni e pubblicità del marchio. Ma è la prestigiosissima Sugar a volere fortemente il suo debutto, che arriva nel Marzo del 2015. “Usually Nowhere” è l’apripista ideale che lo porta a condividere il palco con artisti come Forest Swords, Plaid, Blonde Redhead, Lone, Jhon Talabot, Legowelt. Un album che fonde con immensa pacatezza le dolci smanie voltaiche di Mazzucato, perso come un Pollicino dell’elettronica contemporanea in partiture a metà strada tra il Keith “Helios” Kenniff del capolavoro “Eingya” e il post-rock più anestetizzato. Una fusione d’intenti che entusiasma nella propria limpida rilassatezza ambient, e che dona calore mediante melodie sublimi che svolazzano come farfalle felici tra un attento cambio di ritmo e l’altro. Dopo aver dato vita a una performance con l’artista visivo Furio Ganz alla Biennale della sua amata Venezia, il Nostro decide di sganciare l’atteso secondo album, “Slowly Fading”.
Un’opera suggestiva, suddivisa in due parti: Fading e Faded. Con tale trovata, l’artista pone sul tavolo la sua idea di affievolimento. Il disco è basato sulla temporaneità e sulle sue conseguenze emotive. Ed è lo stesso amico e artista visivo Ganz a firmare la splendida copertina, che esplica al meglio l’intento del musicista. Un velo poggiato sopra una rete metallica che divide una dimora da cui spuntano due finestre, in una delle quali è possibile notare la presenza di una luce accesa, mentre nell’altro tutto è spento, e finanche la persiana resta abbassata. Un dualismo che non trova però margine di raffronto nei meandri di un lavoro che espone l’intenzione di Yakamoto di continuare a vagheggiare su territori ambient, che per l’occasione riescono a strizzare l’occhio sia alla dubstep più pacata, sia alla melanconia in apparenza algida della musica ambientale dei primi ‘90. Certo, quando i bassi aumentano e i kick in loop si annientano in un valzer persuasivo, con tanto di voce filtrata a segnalare un climax di perdizione angelica, tutto assume una sua fisionomia ben precisa, e Kotzuga diventa improvvisamente il saggio maestro a cui affidarsi per disperdere le proprie ansie, magari lasciandosi cullare da un suono confortante e al contempo ipnotico, come accade nella magnifica “Until We Fade”; un episodio che anticipa la chiusura della prima parte dell’album: “Shouldn’t Be Here”, altra perlina a metà strada tra sensazionalismi noir in odore dubstep e squarci di elettronica a suggerire a mani basse un’insolita agitazione, una disillusione ferma e parimenti energica. Ben altra storia risulta invece l’altra metà del piatto, curata con maggiore intraprendenza, e minore compostezza. E a tal riguardo basterebbe la sola partenza, “Suffer & Hold”, con la sua struggente fascinazione ritmica, tra rimbalzi cazzuti e pause amorfe; così come la tastiera fumante di passione della successiva “Inner God” gioca con un impavido decostruzionismo che riporta a galla financo certi umori della Italians Do It Better di quel mattacchione di Johnny Jewel, prima che tutto si esaurisca in un piccolo vortice di dissolvenze. I synth super massivi di “New Singularity” espongono a loro volta il Nostro a un confronto diretto con l’Arca più esagitato, insomma con quella cricca di esploratori del suono postmoderni fagocitanti tutto e il suo contrario. Svolazzi cosmici che paiono provenire da un pianeta lontano e che annunciano la prosecuzione tutta italiana di un approccio alle macchine che fa sua la desolazione di un improbabile scenario post atomico, quasi a voler anticipare i fasti di un futuro idealizzato per troppo tempo e purtroppo non più così remoto.
La musica di Yakamoto Kotzuga è come una luce che arriva da lontano, e finisce lentamente per avvolgerti nel suo immane candore. O più semplicemente la soundtrack potenziale di una pellicola surreale e futurista, nella quale i protagonisti sono delle fiaccole che danzano all’unisono in un eterno gioco di specchi, mentre fuori dalla stanza lo scenario è di quelli da far impallidire il mai compreso Lynch del sottovalutato Dune. Un tempo indefinito in uno spazio immaginario che non lascia scampo a ulteriori interpretazioni.
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