Cliff Richard & The Shadows
Il teen idol per eccellenza del rock’n’roll inglese fu Cliff Richard, il cui vero nome era Harry Rodger Webb. Nato il 14 ottobre 1940 a Lucknow, nell’allora India Britannica, il giovane Harry si trasferì in Inghilterra, al seguito della famiglia, nel 1948, dopo che l’India aveva ottenuto l’indipendenza dalla madrepatria. Appassionatosi di musica skiffle, a sedici anni ricevette in regalo la sua prima chitarra, di lì a poco formando anche il suo primo gruppo, i Quintones, prima di diventare cantante nel Dick Teague Skiffle Group e, quindi, nei Drifters, insieme al batterista Terry Smart e ai chitarristi Ian “Sammy” Samwell e Norman Mitham. Per entrare ancora di più nella parte del rocker, Harry decise a un certo punto di cambiare nome, optando per Cliff Richard, in omaggio a Little Richard, uno dei suoi eroi. Nel 1958, Cliff Richard and the Drifters registrarono un demo contenente due brani (“Breathless” e “Lady Miss Clawdy”) da sottoporre all’attenzione della Columbia, che si disse disposta ad accettare nuovo materiale. Così, la band registrò la cover di un brano di Bobby Helms, “Schoolboy Crush”, una ballata deliziosa ma tutt’altro che memorabile, anche se fu proprio grazie ad essa che la band finì per essere invitata in TV.
A quel punto, il successo arrivò in un battibaleno e il secondo brano di quel singolo, “Move It”, salì fino alla seconda piazza delle classifiche inglesi, presentando Richard e la sua band come una convincente risposta al rock’n’roll americano. Dopo aver sostituito Samwell e Smart con, rispettivamente, Terry “Jet” Harris e Tony Meehan, nel 1959 fu la volta di “Living Doll” / “Apron Strings”, che metteva insieme una stilosa love-ballad e uno scalmanato rockabilly. Nel frattempo, per evitare problemi con l’omonimo gruppo americano, i Drifters avevano cambiato nome in The Shadows. Nell’aprile del 1959, il diciottenne Richards pubblicò il suo primo disco, Cliff, registrato dal vivo in studio di fronte ad un centinaio di fan invitati per l’occasione. Accanto a nuove versioni di “Apron Strings” e “Move It”, in quei solchi scorrevano, tra le altre, cover di Willie Dixon (“My Babe”), Roy Orbison (“Down The Line”), Ritchie Valens (“Donna”), Elvis Presley (“My Babe”, “Baby I Don’t Care”), Little Richard (“Ready Teddy”), Buddy Holly (“That’ll Be the Day”), Gene Vincent (“Be-Bop-A-Lula”), Jerry Lee Lewis (“Whole Lotta Shakin’ Goin On”) e un paio di strumentali appartenenti al repertorio dei Drifters (“Jet Black”, “Driftin’”). Nei suoi momenti migliori, il disco sprigiona un’energia davvero contagiosa, consegnandoci l’istantanea di un’artista all’apice della sua infatuazione per il rock’n’roll. Alla fine del 1959 uscì Cliff Sings, una raccolta dominata dalla reinterpretazione di brani altrui, tra rockabilly (“Blue Suede Shoes” di Carl Perkins, “The Snake and the Bookworm”), rock’n’roll cadenzato e blueseggiante (“Twenty Flight Rock”, “Pointed Toe Shoes”, “Mean Woman Blues”, “I’m Walking”), country-rock (“I Gotta Know”) e una serie di ballate nostalgico/romantiche d’ordinanza (“I’ll String Along With You”, “Embraceable You”, “As Time Goes By”) che mina la qualità complessiva dell’opera.
Al netto di qualche brano di discreto livello (“I Cannot Find A True Love”, “Lamp Of Love”, “Choppin’ ‘n’ Changin'”), Me and My Shadows (uscito nel 1960 e accreditato a Cliff Richard & The Shadows) mostrò, invece, un evidente calo d’ispirazione. Contenente per la maggior parte riletture di brani degli anni Trenta e Quaranta, Listen To Cliff (1961) segnò, invece, la sua definitiva ascesa verso il regno dei crooner (“Blue Moon”, “True Love Will Come to You”, “Unchained Melody”), accompagnato da orchestre swinganti (“Lover”, “Almost Like Being In Love”) verso un universo musicale molto meno interessante per quei giovani che tanto lo avevano apprezzato durante la sua fase rock’n’roll. Su 21 Today (pubblicato il 14 ottobre del 1961 per celebrare il suo ventunesimo compleanno) c’erano, in ogni caso, “Forty Days (To Come Back Home)” (di Chuck Berry), “Tough Enough” (di Johnny Otis) e l’autografa “Without You” che tornavano a quelle origini, ma si trattava di piccole scialuppe di salvataggio gettate in un mare pieno di momenti sdolcinati, quando non seriamente stucchevoli. La sua fase classica era, insomma, terminata da tempo, per quanto le vendite dei suoi dischi non si sarebbero arrestate (a tutt’oggi, pare ne abbia venduto oltre 250 milioni in tutto il mondo!).
Gli Shadows si erano intanto imposti come un gruppo di musica strumentale grazie alla hit “Apache”, che Hank Marvin (chitarra solista), Bruce Welch (chitarra ritmica), Terry “Jet” Harris (basso) e Tony Meehan (batteria) avevano pubblicato su singolo nel 1960. I riff di Marvin (che suona la chitarra utilizzando una leva del vibrato – a quei tempi rarissima in Inghilterra – e filtrandone il suono pulito con un’eco a nastro) si susseguono uno dietro l’altro, evocando, attraverso le morbide sonorità di Duane Eddy, le immense praterie americane, quelle dove una volta gli indiani d’America scorrazzavano liberi. Oltreoceano, comunque, il brano arriverà in classifica solo l’anno successivo e nella versione del danese Jørgen Ingmann. Sul lato B, compariva la più esuberante “Quartermasster’s Stores”, dagli evidenti tratti rock’n’roll. Grazie ad “Apache” e ai singoli successivi, Marvin assurgerà a status di guitar hero della scena inglese nel periodo compreso tra lo skiffle e l’avvento del beat, influenzando molti giovani chitarristi, alcuni dei quali (Steve Howe, Steve Hackett e Mark Knopfler, giusto per citarne qualcuno) avrebbero, di lì a qualche anno, fatto la fortuna del rock inglese.
Il classico sound degli Shadows fu confermato da “Man of Mystery” / “The Stranger”. Nel 1961, uscirono altri singoli accolti con grande entusiasmo e sempre più debitori alle atmosfere dei dischi di Duane Eddy: “F.B.I.” / “Midnight”, “The Frightened City”/ “Back Home”, “Kon-Tiki” / “36-24-36”. Nel settembre successivo, la band raggiunse anche il traguardo del suo primo Lp. The Shadows (numero uno in Inghilterra) vede la band non solo alle prese con declinazioni rock’n’roll del suo sound (“Shadoogie”, “See You In My Drums”, quest’ultima con una grande performance batteristica di Meehan), ma anche con avvolgenti delizie in punta di piedi (“Nivram”), tentativi di darsi al formato canzone (“Baby My Heart”, “All My Sorrows”, “That’s My Desire”, gli unici brani cantati) e trame che scandiscono un’euforia covante (“Theme from A Filleted Place”, “My Resistance Is Low”, “Big Boy”). Lo spirito esotico di “Apache” è, invece, rievocato in “Gonzales”.
Nell’ottobre del 1961, Meehan lasciò e fu sostituito da Brian Bennett. Qualche mese dopo anche Harris si tirò fuori e al suo posto fu chiamato Brian Locking. Con la nuova formazione, gli Shadows continuarono a pubblicare strumentali di successo, tra cui sono da ricordare almeno “Wonderful Land” (primo posto in classifica per otto settimane consecutive), “Guitar Tango” (su cui Marvin suona una chitarra acustica filtrata dall’eco), “Foot Tapper” e una “Atlantis” forte di un intreccio di archi, vocalizzi femminili e reminiscenze country. Nell’ottobre del 1962 la band pubblicò Out Of The Shadows, su cui svettano la tribaleggiante “Rumble”, la marcetta di “1861”, i miraggi hawaiani di “Cosy” e vere e proprie canzoni di stampo blues o country & western, come “Bo Diddley” e “The Bandit”.
Con l’avvento dei nuovi eroi della musica inglese (Beatles e Rolling Stones su tutti), l’interesse del pubblico nei loro confronti (ma, in generale, nei confronti di tutte le band dedite alla musica strumentale) calò di molto. Tuttavia, cercando di venire incontro ai gusti del momento, gli Shadows (che nel frattempo si erano assestati in una formazione che comprendeva, oltre a Marvin e Welch alle chitarre, il batterista Brian Bennett, il bassista John Rostill e il pianista Norrie Paramor) non si persero d’animo e nel 1965, su The Sound Of Shadows (comunque ancora dominato da strumentali ora eleganti, ora più disinibiti, che non disdegnavano anche di guardare alla musica brasiliana, come nel caso di “Brazil” o di “Bossa Roo”), proposero ancora vere e proprie canzoni, ma questa volta tentando anche la carta delle armonie vocali (“A Little Bitty Tear”, “Let It Be Me, “Five Hundred Miles”). Al centro della loro musica restavano, in ogni caso, ancora congegni strumentali perfettamente cesellati, che in qualche caso (“Blue Sky, Blue Sea, Blue Me”, “The Windjammer”) facevano ricorso anche agli archi. Attorno a loro, intanto, la musica rock continuava a muoversi velocemente, imboccando i sentieri della psichedelia, del blues-rock e del pop più sofisticato e barocco. Il 1967 fu un anno cruciale e anche gli Shadows vollero mettersi al passo con i tempi, aprendo la loro musica a quante più influenze possibili. Fu così che, contro ogni pronostico, pubblicarono uno dei loro migliori dischi in assoluto, Jigsaw. La melodia circolare della title-track, lo stantuffare quasi hard-rock di “Tennessee Waltz” e di “Cathy’s Clown”, le trame arabescate di “Prelude In E Major”, le promesse d’Oriente che riempiono di luccicanze la coda di “Semi Detached Suburban Mr. James”, il divertissement in chiave vaudeville di “Winchester Cathedral”, le vocine cartoonesche di “Chelsea Boot”, la malinconia ispanica di “Maria Elena”, il country galoppante di “With a Hmm-Hmm on My Knee” e i toni svagati di “Green Eyes” contribuiscono a creare un mosaico musicale affascinante, in cui l’uso di una strumentazione più ampia getta un ponte con quanto stava accadendo nel mondo del pop più evoluto dell’epoca.
From Hank, Bruce, Brian, and John, pubblicato pochi mesi più tardi, non è sugli stessi livelli, per quanto sia ancora da segnalare come uno dei loro dischi più interessanti. Vi si ascoltano melodie sbarazzine (“Snap, Crackle and How’s Your Dad”, “Evening Glow”) e in qualche caso tinte di malinconico abbandono (“The Wild Roses”), ma anche partiture acustiche che hanno l’eleganza della musica da camera (“A Thing Of Beauty”, “Alentejo”), robusti disimpegni (“Naughty Nippon Nights”), tracce di blues-rock (“The Tokiado Line”) e una manciata di brani cantati da Marvin: le cover di “San Francisco” di Scott McKenzie (uno dei momenti musicali più famosi della Summer Of Love) e di “The Letter” dei Box Tops, più le autografe “Let Me Take You There” (ballata folk in odor di West Coast), “The Day I Met Marie” (in bilico tra fragile onirismo e una marcetta demenziale che la Bonzo Dog Doo-Dah Band avrebbe sicuramente apprezzato) e lo psych-pop di “A Better Man Than I”.
Col senno di poi, From Hank, Bruce, Brian, and John chiuse la fase migliore degli Shadows. Tre anni dopo, con Shades Of Rock, Hank Marvin (che nel frattempo si era circondato di nuovi musicisti) rispolverò il vessillo degli Shadows rovistando tra i classici del rock’n’roll e del rock. Ai più fu chiaro, però, che i bei tempi non sarebbero più tornati.
Discografia Consigliata
Cliff Richard – Cliff (1959)
The Shadows – The Shadows (1961)
The Shadows – Jigsaw (1967)
The Shadows – From Hank, Bruce, Brian & John (1967)
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