The Beach Boys (Parte 2)
Il trionfo del wall of sound spectoriano di Pet Sound e quello “collagistico” del singolo “Good Vibrations” avevano proiettato Brian Wilson nell’Olimpo della musica pop. Ancor prima che Pet Sounds fosse ultimato, Brian aveva comunque già iniziato a pensare al passo successivo. La sua idea era quella di scrivere una «sinfonia adolescenziale dedicata a Dio», come lo stesso ebbe a dire all’epoca, probabilmente ispirandosi all’idea di «pocket symphony» teorizzata dagli autori e produttori Jerry Leiber e Mike Stoller, presso i quali – guarda un po’! – Phil Spector aveva compiuto il proprio apprendistato. Con “Good Vibrations”, Brian aveva avuto modo di sperimentare nuove tecniche di registrazione, incollando tra di loro svariati suoni e creando, quindi, un vero e proprio collage sinfonico. Proprio da lì egli volle ripartire, immaginando la sua nuova fatica come una suite in cui i brani dovevano essere uniti tra di loro mediante un’identità musicale e tematica. L’incontro decisivo per l’avvio di questo nuovo progetto fu quello con il compositore e arrangiatore Van Dyke Parks. Quest’ultimo si era già rifiutato di scrivere il testo di “Good Vibrations”, ma alla fine fu ben lieto di collaborare con il leader dei Beach Boys nella stesura dei testi di quello che, all’epoca, si chiamava ancora Dumb Angel. I due iniziarono a incontrarsi praticamente tutti i giorni a casa di Brian, dove quest’ultimo aveva fatto installare una tenda per fumare marijuana in compagnia e un pianoforte all’interno di una vasca piena di sabbia, in cui poter immergere i piedi per stuzzicare l’ispirazione. I geni, si sa, sono anche persone eccentriche… Il primo frutto della loro collaborazione fu “Heroes And Villains”. Man mano che il progetto andava concretandosi attraverso la stesura di altri brani (“Surf’s Up”, “Wonderful”, “Cabin Essence” e “Wind Chimes”), i due ne chiarirono anche l’idea tematica di fondo: produrre un disco che rappresentasse una sorta di viaggio lirico-musicale attraverso la cultura e la società degli Stati Uniti, dalla costa Est fino alle isole Hawaii. Nel frattempo, era stato anche deciso il titolo definitivo del disco: SMiLE, esattamente con questa grafia, a simboleggiare l’annichilimento dell’Io1. Il richiamo al «sorriso» era la spia più evidente di una musica in cui la spiritualità e la voglia di diffondere felicità e buonumore andavano di pari passo.
Nell’agosto del 1966, iniziarono le registrazioni. Col passare dei giorni, mentre sperimentava accostamenti sonori inusuali o approntava particolari sequenze armoniche, Brian fu colto da un’eccitazione divorante. Come già accaduto per “Good Vibrations”, fu adottato un procedimento collagistico (o «modulare») per cui, invece di pensare ai brani come se fossero strutture già compiute, li si divise in sezioni che, poi, venivano registrate a velocità o con arrangiamenti diversi e, per di più, in studi differenti, in modo da poter lavorare con gli effetti e le acustiche che caratterizzavano ognuno di loro. Successivamente, le varie sezioni dei brani erano selezionate e montate tra di loro (attraverso un procedimento che poteva ricordare il montaggio cinematografico), andando così a formare un vero e proprio brano.
Gli altri membri, ma anche gli amici e i più stretti collaboratori, avevano intanto sviluppato nei confronti di SMiLE una vera e propria venerazione. Tra di loro, ne parlavano in modo entusiastico, riferendosi ad esso con il termine «monumento». Un giorno, ai giornalisti e ai fan che cercavano di sapere come stessero andando le cose, Dennis Wilson disse:
«Per quanto mi riguarda, [SMiLE] rende ‘Pet Sounds’ muffa… Ecco quanto è grande. Dovete aspettare solo che esca e ve ne renderete conto voi stessi».
Sì, ma intanto la data di pubblicazione veniva posticipata un giorno sì e pure l’altro, tanto che nei piani alti della Capitol a qualcuno prese a ribollire il sangue nelle vene. Iniziarono, così, le pressioni affinché il disco uscisse quanto prima, cosa che mal s’addiceva alla psiche di Brian, sempre più fragile anche per colpa dell’assunzione di droghe, psichedeliche e non. La sua ansia ebbe una seria impennata quando, nel dicembre di quello stesso anno, i Beatles entrarono negli Abbey Road Studios per registrare il seguito di Revolver. Insomma, la gara a chi avrebbe fatto uscire prima la sua nuova creazione era aperta. Poi, nel febbraio del 1967, i “rivali” pubblicarono il singolo “Strawberry Fields Forever” e tutto andò in malora. Brian lo ascoltò per la prima volta mentre si trovava in macchina e restò sbalordito. Si rese conto, insomma, che, nella corsa verso il Sacro Graal del Pop, i Beatles avevano piantato un allungo pressoché decisivo e questo mal si sposava con l’ansia da prestazione e l’incertezza che egli si portava appresso ogni volta che sentiva di dover dare il meglio di sé. Di lì a poco (1 giugno 1967), la band di Liverpool pubblicherà Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e a Brian venne definitivamente meno la voglia di proseguire nella sua impresa, perché pubblicare SMiLE a quel punto avrebbe significato una cosa sola: vederselo paragonare a più non posso con il disco della «Banda dei cuori solitari del Sergente Pepe».
Tuttavia, c’era un contratto da rispettare. Brian sapeva che non poteva lasciare la sua band nelle grinfie della Capitol. Dopo tutto, l’aveva già obbligata a cancellare la partecipazione al Monterey Pop Festival (previsto per i successivi 16, 17 e 18 giugno). Così, a mo’ di compromesso, nel settembre del 1967 uscì Smiley Smile, disco sui cui comparivano brani scritti ex-novo e in fretta e furia (per rispettare le scadenze), più versioni molto semplificate dei brani destinati a SMiLE, fatta eccezione per la ripresa pari-pari di “Heroes And Villains” (un affascinante mix di cantilenanti bagordi, sequenze di doo-wop in modalità vaudeville e celestiali interludi) e di “Wind Chimes”, un corale free-form (con coda per improvvisazioni vocali) che qui è probabilmente più interessante della versione che sarà poi ripresa, anni dopo, su The Smile Sessions. L’eco dei Four Freshmen torna prepotentemente a farsi sentire nella minimalista “With Me Tonight”, ma anche in “Vegetables”, surreale escursione in un mondo sonoro in cui le voci gigioneggiano o si abbandonano all’estasi, mentre il basso disegna l’asse ritmico e qualcuno (Paul McCartney, stando a quando dicono i ben informati) sgranocchia con gusto sedano e carote…
Lo strumentale “Fall Breaks and Back to Winter (W. Woodpecker Symphony)” riprende, rallenta e deforma l’originale “The Elements: Fire” (uno dei brani più avventurosi delle sessions di SMiLE), annodandosi intorno al risuonare mugugnante delle voci (ho l’impressione che i Residents abbiano ascoltato fino alla nausea questo brano) ed evocando anche il tema del cartone animato Woody Woodpecker. Tra i momenti più bizzarri, ci sono, invece, “She’s Goin’ Bald” (con voci comicamente stiracchiate) e una “Little Pad” che shakera mugolii, echi hawaiani e risatine. Dopo il ripescaggio della superba “Good Vibrations”, completano la scaletta il ritornello spiraleggiante, accerchiato da devianze blues e incubi paranoici, di “Getting Hungry”, il doo-wop che striscia dentro una stanza degli specchi di “Wonderful” e, infine, “Whistle”, un minuto e poco più di marcetta melodica. A conti fatti e nonostante le premesse, Smiley Smile s’impone come uno dei lavori migliori dei Beach Boys.
Durante gli anni, l’abortito SMiLE sarebbe diventato uno dei “lost album” più famosi della storia del rock. Molti fan, sulla scorta delle varie registrazioni delle session risalenti a un periodo compreso tra l’aprile del 1966 e il maggio del 1967, si costruiranno addirittura versioni personalizzate di quell’opera leggendaria. Nel 2004, Brian Wilson cercò di portare a compimento il progetto ri-registrando quel materiale con nuovi musicisti e pubblicando il tutto con il titolo di Brian Wilson Presents Smile. Poi, nel 2011, a cinquant’anni dalla nascita dei Beach Boys, The Smile Sessions ripescò intatte le registrazioni dell’epoca, in pratica mettendo un punto fermo nella lunga disputa intorno al “lost album” e confermando che, sì, quella di SMiLE era un’altra affascinante avventura (ancora più affascinante di quella di Pet Sounds!) dentro i labirinti di un pop psichedelico, sperimentale e intelligentemente “progressivo”. Lo avessero pubblicato all’epoca, Brian Wilson e i Beach Boys avrebbero dimostrato di essere senza rivali in ambito di pop evoluto e, chissà, forse avrebbero relegato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band in secondo piano… Le cose andarono diversamente, ma The Smile Sessions mostra quanto, durante gli anni, quelle tracce così mitizzate e condivise tra gli appassionati a suon di bootleg e registrazioni pirata avessero profondamente influenzato i percorsi più obliqui della musica pop.
Dopo l’ouverture per vocalizzazioni di “Our Prayer” e la breve cover di “Gee” (un brano dei Crows), ad aprire idealmente le danze non poteva che esserci “Heroes And Villains”, il brano cardine di tutta l’operazione SMiLE. Ciò che segue, da “Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock)” fino a “Cabin Essence” – che chiude il primo movimento della suite (ricordate l’idea originaria del disco?) – è una schizofrenica e avvincente successione di stratificazioni ritmiche, oblique incursioni cameristiche, sprazzi di vaudeville, ipotesi di psych-pop e di surf-rock decostruito, nebbie di lisergica malinconia, minimalismi estatici e allucinazioni di “good vibrations”.
Inaugurato dalle trame barocche di “Wonderful”, il secondo movimento prosegue, dunque, con una “Look (Song for Children)” che delizia con il suo bandismo fanciullesco, una “Child Is Father of the Man” in cui le armonie vocali sembrano volteggiare nel vento come foglie ingiallite e, quindi, una “Surf’s Up” in cui questo pop nato all’incrocio tra i Four Freshmen, il wall of sound e l’abbandono del corpo e della mente dinanzi al simulacro di una infinte summer raggiunge un picco assoluto, anche grazie a uno dei testi più poetici (e arcani) vergati dalla mano di Van Dyke Parks:
The glass was raised, the fired rose
The fullness of the wine, the dim last toasting
While at port adieu or die
A choke of grief heart hardened, I
Beyond belief, a broken man too tough to cry
Il vetro fu sollevato, la rosa essiccata
La pienezza del vino, l’ultimo, rassegnato brindisi
Mentre sei nel porto o muori
Un soffio di dolore s’indurì, io
Oltre la fede, un uomo distrutto troppo difficile da piangere
Brian spiegò che il brano rispecchiava la visione di un uomo che, svanita la realtà dinanzi ai suoi occhi, cercava di ricostruirla come in un sogno.
“I Wanna Be Around / Workshop” inaugura il terzo e ultimo movimento con libera disseminazione di strumenti e voci. “Vega-Tables” è, invece, la “Vegetables” di Smiley Smile riportata alla fonte. Alla marcetta vaudeville di “Holidays” segue, dunque, “Wind Chimes”, qui in una versione meno sperimentale di quella apparsa su Smiley Smile.
L’inizio di “The Elements: Fire (Mrs. O’Leary’s Cow)” è segnato da quello che sembra la versione comica di un allarme antincendio, preludio a un tambureggiare ossessivo oltre cui le voci vengono risucchiate in un vortice che, sul finire del brano, lascia filtrare ancora sinistre prefigurazioni dei Residents. Le sonorità dilatate di “Love Say Dada” richiamano l’ampliamento della coscienza generato dall’assunzione dell’LSD che, non a caso, potrebbe essere un acronimo del titolo.
In chiusura, il capolavoro “Good Vibrations”.
Messisi alle spalle la sbornia sperimentale e il travaglio psichico che aveva accompagnato il naufragato progetto di SMiLE (di cui Smiley Smile risultò essere una versione alleggerita, per quanto molto intrigante), i Beach Boys virarono su posizioni relativamente più commerciali, abbracciando rhythm and blues e soul su Wild Honey, disco che uscì nel dicembre del 1967. Le armonie vocali restavano al loro posto, ma erano ricondotte lungo sentieri più riconoscibili, incrociando echi di funk sulla title-track, armeggiando nelle retrovie di una “I Was Made to Love Her” che rifà Stevie Wonder, imbastendo una sintesi di innocenza e sofisticazione in “Country Air” oppure rincorrendosi, su piani diversi, in “Let The Wind Blow”. Tra i brani più riusciti, “Darlin’” (perfetto punto di intersezione tra la ruvidezza del rhythm and blues e l’orecchiabilità – gli inglesi direbbero la catchiness – del pop più sbarazzino) e una “I’d Love Just Once to See You” dall’accentuata vena folk. Tra quelli più deludenti, “A Thing Or Two”, un brano che guarda al blues e ripensa al funk, magari immaginando di vestirsi come i Rolling Stones (si ascolti anche l’elastico dinamismo di “How She Boogalooed It”), ma con un certo candore.
Le vendite del disco furono molto deludenti e questo, in parte, fu dovuto anche al fatto che, nel frattempo, i Beach Boys erano diventati una formazione di secondo piano nell’ambito della scena musicale californiana, sempre più dominata da band quali Jefferson Airplane, Grateful Dead e Doors.
Quasi ignara di ciò che le stava accadendo intorno, nel giugno del 1968 la band mise sul mercato Friends, un disco dominato da atmosfere calme e rilassate. Oltre al debutto di Dennis Wilson in qualità di compositore (il groove appiccicoso di “Little Bird” e la tenera ninna-nanna di “Be Still”), vi compaiono escursioni in territori pop rassicuranti (“When a Man Needs a Woman”), soluzioni chiaramente ispirate alla bossa-nova (“Busy Doin’ Nothin’”) ma anche momenti in cui, molto sbiadite, si riconoscono comunque le stimmate di Pet Sounds e delle sessions di SMiLE (la title-track, “Wake The World”, “Anna Lee, the Healer”, “Passing By” e lo strumentale esotico “Diamond Head”).
Composto di singoli e di scarti degli album precedenti, il successivo 20/20 (febbraio 1969) fu l’ultimo album che vide i Beach Boys su etichetta Capitol. Il dittico iniziale (“Do It Again” – l’unico brano scritto da Brian, oltre al valzer indolente di “I Want To Sleep” – e “I Can Hear Music”) poteva ancora vantare una contagiosa cantabilità, ma gran parte del disco mostrava i segni della stanchezza (evidente anche nello strumentale, già in odor di New Age, di “The Nearest Faraway Place”, scritto da Bruce Johnston), quando non vere e proprie cadute di stile, come nel caso “All I Want To Do”, che si affidava a uno scontato macho-rock. Certo, brani come “Bluebirds Over the Mountain”, “Time To Get Alone”, “Never Learn Not to Love” erano tutt’altro che disprezzabili, ma di certo non potevano accontentare quanti erano rimasti incantati dinanzi alle sinfonie-pop che Brian aveva architettato solo un paio di anni prima e di cui restavano tracce solo nei ripescaggi di “Our Prayer” e “Cabinessence”.
Pubblicato pochi mesi dopo il singolo “Break Away” (scritto da Brian e dal padre Murry Wilson), i Beach Boys si congedarono dalla Capitol e firmarono per la Reprise Records. Il primo frutto di questa nuova avventura discografica fu Sunflower, disco uscito nell’agosto del 1970 che testimoniò di una rinnovata verve compositiva della band. I brani si aprono, ancora una volta, a un discreto numero di soluzioni stilistiche, passando attraverso venature soul (“Slip On Through”), sprazzi di gospel calati dentro scenari honky-tonk (“Got to Know the Woman”), numeri più rockeggianti (“It’s About Time”) e ballate folk-pop graziose ma tutto sommato poco incisive (“Deirdre”). Una buona manciata di brani torna, invece, ad abbeverarsi alla fonte di un pop gentilmente barocco, ritrovando, almeno in qualche caso (“Add Some Music to Your Day”, “Our Sweet Love” e soprattutto nella più sperimentale “Cool, Cool Water”, non a caso risalente al 1967), quel connubio di armonie vocali e stratificata solennita che, appena qualche anno prima, aveva raggiunto livelli molto alti. Nonostante un’accoglienza critica mediamente positiva, le vendite furono ancora inferiori alle aspettative, a dimostrazione del fatto che la band aveva ormai perso quella presa che aveva avuto sul pubblico durante il suo periodo d’oro. Tuttavia, il successivo Surf’s Up (agosto 1971) tornò a sfondare il muro della Top 40, risultando essere il disco più venduto della band fino a quel momento. Surf’s Up è contraddistinto da sonorità più morbide e vagamente psichedeliche, fatta eccezione per una “Student Demonstration Time” che, tra blues-rock dozzinale e strizzatine d’occhio al tema delle proteste studentesche, è del tutto fuori contesto. A meritarsi tutti i posti del podio sono sicuramente le composizioni di Brian: “A Day in the Life of a Tree”, “‘Til I Die” e “Surf’s Up”, tre intime, sofferte confessioni di fragilità. La prima (che anche nel titolo ricorda i Beatles di “A Day In The Life”), costruisce una piccola sinfonia di armonie vocali ed estatico rapimento. La seconda, invece, è un inno celestiale in cui l’autore cerca una risposta al suo dolore mentre fronteggia la paura della morte:
I’m a cork on the ocean
Floating over the raging sea
How deep is the ocean?
How deep is the ocean?
I lost my way
Sono un tappo di sughero sull’oceano
Che galleggia sul mare in tempesta
Quanto è profondo l’oceano?
Quanto è profondo l’oceano?
Mi sono perso
La terza, infine, dava conto di uno dei momenti in assoluto più straordinari della ricerca di Brian, riportando a galla i giorni febbrili e drammatici delle Smile Sessions.
Il resto del disco (appannaggio degli altri membri della band) faceva quello che poteva per reggere il confronto, ma le differenze erano più che evidenti. Ecco, quindi, il pop-rock scodinzolante di “Don’t Go Near the Water”, la coralità in orbita Rolling Stones di “Long Promised Road”, le trame liquide e nostalgiche di “Disney Girls (1957)”, gli ondeggiamenti esotico-misticheggianti di “Feel Flows” (con svolazzi di sintetizzatore e voci in reverse), il folk-psichedelico di “Looking At Tomorrow” e quello, in odor di novelty, di “Take a Load Off Your Feet”.
Intanto, all’interno della band i rapporti tra i vari membri continuavano a peggiorare. Bruce Johnston si tirò fuori, mentre all’inizio del 1972 entrarono in formazione il multistrumentista Ricky Fataar e il cantante Blondie Chaplin. Il nuovo assetto della band si tradusse, su Carl and the Passions – So Tough (maggio 1972), in un sound molto meno interessante, che faceva leva addirittura su poco convincenti ricognizioni rock’n’roll (“You Need a Mess of Help to Stand Alone”), altrove lasciando sul selciato gioiosi cori gospel (“He Come Down”), mid-tempo smaccatamente radiofonici (“Marcella”), ballate a passo di valzer (“Hold On Dear Brother”) o condite con orchestrazioni di archi più o meno maestose (“Make It Good”, “Cuddle Up”, un brano, quest’ultimo, con cui Dennis Wilson anticipava quanto avrebbe poi fatto ascoltare su Pacific Ocean Blue, suo esordio da solista datato 1977). E se i nuovi arrivati Fataar e Chaplin si presentavano con “Here She Comes” (un funk-soul anche dignitoso, se non durasse oltre cinque minuti!), “All This is That” aveva almeno il pregio (con le sue delicate architetture vocali, le sue prospettive cangianti e il suo andamento apparentemente disimpegnato) di ricordare a tutti chi erano stati i Beach Boys.
Per registrare il disco successivo, la band fece le valigie e volò in Olanda, restandoci per tutta l’estate. Il risultato, molto banalmente, si chiamò Holland (gennaio 1973), lavoro che proseguiva il discorso di Carl and the Passions – So Tough, lasciandosi, a conti fatti, preferire per una scrittura più equilibrata e per un livello qualitativo più omogeneo. Tra i momenti migliori – oltre al singolo “Sail On, Sailor”, la bifronte “The Trader” (divisa tra una prima parte molto accattivante e una seconda più riflessiva) e una “Steamboat” con cui Dennis tentava di “essere” Brian – c’è da segnalare sicuramente la “California Saga” (in tre parti), dove la band si confronta con temi ecologisti, gettando nella mischia la “Moonlight Sonata” di Beethoven, spoken-word, momenti di cupa desolazione e altri di solare vitalità, in una rivisitazione complessivamente efficace della strategia collagistica delle Smile Sessions. Quanti all’epoca acquistarono il disco, vi trovarono accluso anche l’Ep Mount Vernon and Fairway (A Fairy Tale), una “fiaba musicale” con cui Brian rievocava la sua infanzia.
Il pubblico, però, continuava ad allontanarsi dalla band, anche perché, nel frattempo, le cose nell’ambito della musica pop e rock erano molto cambiate. Per loro fortuna, però, in quello stesso 1973 George Lucas decise di inserire, nella colonna sonora del suo film American Graffiti (un “come eravamo” ambientato nel 1962), “Surfin’ Safari” e “All Summer Long”, brani che riportarono in auge il nome dei Beach Boys e molta della musica spensierata dell’epoca. Sfruttando quel ritorno di fiamma, prima della fine dell’anno la band diede alle stampe il live di successo The Beach Boys in Concert, seguito, di lì a poco, dalla compilation Endless Summer che, ripescando nel loro canzoniere del periodo ’62-’65, proiettò la band ai vertici delle classifiche.
Nei due anni successivi, non uscirono nuovi dischi. Brian li trascorse sostanzialmente abusando di alcol e di droghe, e scrivendo sempre meno. Poi, rimessosi un attimino in sesto, nel 1976 si sedette dietro il banco del mixer e produsse 15 Big Ones, che segnò il ritorno sulle scene dei Beach Boys con un mix di cover di rock’n’roll e doo-wop, più una manciata di brani originali. Un’operazione maldestra e veramente insopportabile, in cui l’unico brano da salvare è probabilmente “Had to Phone Ya”, che ha dalla sua il pregio di restituire miraggi del Brian Wilson più ispirato.
Più efficace fu Love You (1977), nonostante le bordate di sintetizzatore siano, in alcuni momenti, un po’ sopra le righe. Senza eccessivi clamori, il disco (originariamente pensato da Brian come un suo disco solista, tanto da dargli il titolo provvisorio di Brain Loves You) risulta ancora oggi molto godibile, grazie a brani di efficace pop-rock (“Let Us Go On This Way”, “Roller Skating Child”), ad una “Johnny Carson” in cui l’estro di Brian si diverte con una struttura tripartita e a qualche ballata che, senza colpo ferire, porta comunque fieno in cascina (“I Wanna Pick You Up”, “Airplane”, “The Night Was So Young”).
Nel settembre del 1978, uscì l’ultimo loro album per la Reprise, M.I.U. Album, dominato da canzoni orecchiabilissime che rispolveravano l’ebbra spensieratezza dei giorni del surf (“She’s Got Rhythm”, “Come Go With Me”, “Koana Coast”, la cover di “Peggy Sue” di Buddy Holly) ma comunque insidiato da quella nostalgia che, quando vuole, sa essere davvero una canaglia (“Sweet Sunday Kinda Love”, “My Diane”, “Winds Of Change”).
Un anno dopo, L.A. (Light Album) (con Bruce Johnston di nuovo in formazione), regalerà ancora qualche discreto momento (la gentilezza minimalista di “Sumahama”, la tenera ballata, ispirata da Bach, di “Lady Lynda”, che diventerà un brano di successo), altrove appiattendosi su soluzioni soft-rock, fino all’incredibile (e lunghissima: oltre dieci minuti!) concessione all’allora imperante disco-music di “Here Comes the Night”, che vince a mani basse il trofeo come “momento più imbarazzante della carriera dei Beach Boys”.
Mentre dal vivo la band continuava a riscuotere grande successo di pubblico, in studio le cose peggiorarono ulteriormente con la registrazione di Keepin’ the Summer Alive (marzo 1980), un disco stanco, privo di ispirazione, registrato e pubblicato per meri obblighi commerciali. Nel 1983, gli equilibri all’interno della band furono messi a dura prova dalla morte, per annegamento, di Dennis Wilson. Nonostante tutto, i Beach Boys decisero di proseguire il loro cammino, pubblicando, due anni dopo, un omonimo disco con cui, cercando di tenere il passo delle sonorità sintetiche degli anni Ottanta (c’è anche una drum-machine!), finirono per toccare il fondo in termini di qualità artistica.
Il passo successivo, Still Cruisin’ (agosto 1989), proseguì in quella direzione, proponendo una stramba collaborazione con il gruppo rap dei Fat Boys (“Wipe Out”) e regalando alla band un nuovo numero uno nella classifica dei singoli grazie a “Kokomo”, una deliziosa sciocchezzuola scritta da Mike Love insiema a John Phillips e Scott McKenzie. Quando, poi, giunse il momento dell’orrendo Summer Paradise (agosto 1992), ai più apparve chiarissimo che non c’era più nulla da fare: i Beach Boys erano ormai soltanto la parodia di loro stessi e l’estate che cantavano aveva, più che altro, il malinconico sapore di un rigidissimo inverno.
Nel 1998, con la morte di Carl Wilson il sipario sembrò calare definitivamente sulla loro avventura. Nel 2011, però, dopo essersi riunita, la band pubblicò addirittura un nuovo disco, That’s Why God Made The Radio (2012), un ritorno alle origini senza molte pretese, ma comunque capace di rievocare, per l’ultima volta, la California delle spiagge assolate, dei surf che sfidano le onde e degli amori che nascono e si consumano nel giro di qualche giorno o addirittura di qualche ora, lasciando, però, un segno indelebile in fondo all’anima. Lo stesso segno che la musica dei Beach Boys ha lasciato in milioni di appassionati di musica.
Note:
- In inglese, il pronome personale “io” si indica con la sola lettera “i” maiuscola (I).
Discografia Consigliata
Smiley Smile (1967)
Sunflower (1970)
Surf’s Up (1971)
The Smile Sessions (2011)
Newsletter Hive
Iscriviti e resta sempre aggiornato su articoli, news ed eventi di Hive Music