Ipek Gorgun: bagliori elettroacustici

Ipek Gorgun appartiene a quella piccola schiera di compositrici elettroacustiche moderne la cui esplorazione non conosce soste. Nata e cresciuta ad Ankara, dopo aver conseguito la laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Bilkent, la Gorgun ha completato gli studi ultimando un Master in Filosofia alla Galatasaray University, ed è attualmente iscritta al programma di dottorato Sonic Arts alla Technical University di Istanbul. Un percorso accademico al quale la manipolatrice di macchine elettroniche turca ha saputo affiancare un’intensa attività produttiva. Come partecipante alla Red Bull Music Academy, nel 2014 si è esibita a Tokyo in apertura a mostri sacri del calibro di Ryoji Ikeda, finendo per affiancare anche un certo Otomo Yoshidide per un’improvvisazione collettiva a dir poco straniante. E’ stata bassista e vocalist per progetti e gruppi quali Bedroomdrunk e Vector Hugo, e si è esibita anche in un concerto di apertura per Jennifer Finch delle L7 e Simon Scott degli Slowdive, oltre a esibirsi con David Brown dei Brazzaville. Ha rilasciato due EP con il progetto Bedroomdrunk, intitolati This is What Happened e Raw, rispettivamente nel 2003 e nel 2007. Il suo album di debutto, Aphelion, è stato invece autoprodotto nel febbraio del 2016 e ristampato da Touch nel mese di dicembre dello stesso anno. Lo scorso anno, invece, ha pubblicato un album con il produttore canadese Ceramic TL (aka Egyptrixx) intitolato Perfect Lung, e un mini-album con il duo elettroacustico italiano, Alberi, su Floating Forest Records. Si è esibita anche al Sonar di Istanbul, e ha aperto per la Royal Philharmonic Orchestra con una rielaborazione elettronica de The Firebird di Igor Stravinsky. Inoltre, la Gorgun si occupa anche di performance, street art e fotografia astratta. Ha ottenuto anche l’honorable mention al concorso IPA – International photography awards per il suo lavoro intitolato Bubblegun Daydreamer e nel 2013 ha lavorato come fotografa pubblicitaria per la Contemporary Art Fair di Istanbul.

Ma è con le proprie esplorazioni elettroniche che la Gorgun riesce a dare il meglio di sé. Dopo aver dato prova del suo vasto campionario, denso di partiture sfibrate, field recordings, contorsioni voltaiche, scariche elettriche, beat decompressi, tintinnii, cascate, micro-variazioni tonali, e chi più ne ha, più ne metta, la manipolatrice turca ha deciso di dare alle stampe quello che si configura come il suo primo vero manifesto elettroacustico, Ecce Homo,  secondo album in carriera, ma de facto prima vera e propria opera sganciata con un’impostazione ben precisa. Ipek Gorgun esplora i chiaroscuri della psiche umana e la capacità dell’umanità di creare al contempo bellezza e distruzione. L’album cerca di scorgere gli strati “emotivi” situati all’interno della carne e delle ossa, avvalendosi di uno spettro sonoro ampio e spesso sfuggente ai più, con una varietà impressionante di micro-particelle, trame esuberanti, paesaggi ambient e rumori assortiti, incisi in vivacissime strutture musicali. Una capacità creativa ben delineata, quella della Gorgun, che la porta dritto nell’Olimpo delle nuove leve dei più raffinati circoli avanguardistici del pianeta.

Si potrebbero scomodare Daniel Lopatin e Olivia Block allo stesso tempo, ovverosia manipolazione mainstream e sperimentazione colta, senza tuttavia cogliere la vera anima dell’artista turca. Da poco stampato per l’importantissima label Touch, Ecco Homo pone in atto una serie di destrutturazioni atte a delineare un concept contemplativo estremamente orientato alla sublimazione di uno stato emotivo perennemente afflitto dalla stupidità umana, dall’evolversi di paradossi solo in apparenza irrisolvibili a monte, e reiterati conflitti sociali. Nel mare magnum di suoni paventato dalla musicista di Ankara è possibile scorgere questo tormento, la visione di un crollo costante, eppure il più delle volte dannatamente silenzioso, ma non per questo meno letale. Undici movimenti a creare un substrato particolarissimo di battiti incontrollati, a suggerire una percezione del mondo che rifiuta i suoi contrasti, dimenandosi a getto continuo in un magma ribollente di filamenti elettronici talvolta impercettibili, eppure caldissimi. A suggellare tale frastagliato intarsio di variazioni e sovrapposizioni, è l’abilità costante della Gorgun di definire un climax personalissimo di suggestioni e piroette assolutamente formidabili, come accade in Knithscope K5, con il Klaus Schulze ispiratissimo e afflitto di Mirage come unico possibile riferimento. Del resto, nei mondi paralleli della Gorgun non c’è spazio per la linearità. Tutto sfugge, in un’incredibile varietà di soluzioni, come il piano isolato e spiazzante di Reverance, o il drone celeste di Mileva, fino a raggiungere il torpore claustrofobico della conclusiva To Cross Great Rivers. Un fenomeno tanto “nuovo”, quanto irraggiungibile nella sua infinità visionarietà.

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