Phil Ochs
Gli ultimi anni della sua vita, Phil Ochs li trascorse a rimuginare sul fallimento del suo sogno: la canzone folk non poteva incidere sulla realtà, non era in grado di cambiare il mondo. Così, l’abuso di alcol e la depressione presero il sopravvento e Ochs finì per impiccarsi un giorno di aprile del 1976, quando non aveva ancora compiuto trentasei anni. Era nato, infatti, a El Paso, in Texas, il 19 dicembre del 1940, ma crebbe a Perrysburg, nello stato di New York, dove iniziò a suonare il clarinetto, mostrando subito un certo talento. L’adolescenza fu segnata dall’incontro con il rock’n’roll e il country, ma sarà solo la musica folk, a cavallo tra gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, ad affascinarlo a tal punto da convincerlo che quella del folk singer poteva essere una maschera perfetta per lui. Pete Seeger, Woody Guthrie e i Weavers costituivano la triade di santini che si portava dietro. Divenne, così, un «topical artist», cioè un artista interessato più alla realtà dei fatti che alla loro trasfigurazione poetica. Ciò era dovuto anche alla sua passione per il giornalismo (carriera che, per qualche tempo, cercò anche di coltivare), ma Ochs era convinto che la canzone potesse e dovesse fare molto di più: scuotere le coscienze, indurle a ribellarsi contro lo status quo e, se possibile, provare anche a porre rimedio alle ingiustizie del mondo.
Dopo aver fondato, insieme all’amico Jim Glover (colui che lo aveva introdotto nel tempio della musica folk, convertendolo anche alle idee politiche della sinistra) il duo The Singing Socialists (divenuto, poi, The Sundowners), e dopo essersi fatto le ossa come solista in alcuni locali di Columbus, Ohio (dove la famiglia si era trasferita), Ochs decise di partire per New York, città in cui il movimento del folk-revival era in ascesa. Aveva con sé la chitarra donatagli da Glover, che l’aveva persa a causa di una scommessa: Ochs aveva puntato tutto su John F. Kennedy come nuovo presidente americano, mentre Glover si era fatto prendere dal pessimismo, affermando che non ci sarebbe stato nulla da fare contro Richard Nixon. E, invece, in quel 1960 tutto faceva presagire tempi nuovi all’ombra della bandiera a stelle e strisce. Ochs arrivò a New York e scoprì che non era l’unico a essere interessato alla musica folk. Anzi: doveva mettersi in fila. E aspettare pazientemente.
Questo rinnovato interesse per le musiche tradizionali americane aveva trovato linfa vitale grazie al lavoro dei Lomax (il padre John Avery e il figlio Alan): a partire dagli anni Venti, i due avevano percorso in lungo e in largo gli Stati Uniti, registrando sul campo, dalla viva voce di perfetti sconosciuti, un numero impressionante di canti e ballate appartenenti al patrimonio popolare. Il loro impegno trovò, quindi, in musicisti come Leadbelly, Woody Guthrie e Pete Seeger degli alleati eccezionali, tanto che, anche per il tramite dei movimenti politici di sinistra (che rivendicavano condizioni di vita migliori per le fasce più deboli della popolazione), la musica folk divenne un vessillo di libertà e di rivoluzione. Fu solo, comunque, con la pubblicazione, nel 1952, dei sei vinili della Anthology of American Folk Music, messa a punto da Harry Smith, che molti appassionati riuscirono ad avere una panoramica più che soddisfacente degli stili musicali che si potevano incrociare nelle zone rurali degli Stati Uniti agli albori dell’industria discografica. Per molti musicisti folk, la Anthology divenne un testo fondamentale da studiare e approfondire. Fu grazie a essa che molti di loro ascoltarono, per la prima volta, bluesmen come Blind Lemon Jefferson, Mississippi John Hurt e Blind Willie Johnson, più, naturalmente, una miriade di altri musicisti (del tutto sconosciuti o giù di lì) alle prese con ballate popolari, gospel, hillbilly e via discorrendo.
Molto del fascino che la folk-music esercitava sui giovani adulti degli anni Cinquanta dipendeva dalla sua mitologia anti-eroica, dal suo essere, insomma, un veicolo di storie e speranze legate ai membri più nascosti della società, ai reietti, quando non a veri e propri vagabondi (si pensi, ad esempio, allo hobo Woody Guthrie) o malviventi (è il caso di Leadbelly, che i Lomax avevano scoperto proprio in prigione, dove era stato rinchiuso per l’accusa di omicidio), la cui esperienza di vita poteva comunque essere esibita come un vessillo di libertà contro la vuota e plastificata routine dell’uomo medio americano, sempre più in balia dei meccanismi del consumismo e della massificazione. Negli ambienti del Greenwich Village, la Anthology divenne una vera e propria bibbia musicale, ascoltata e discussa da un numero sempre più crescente di folksinger. Anche Phil Ochs ne subì il fascino: durante i suoi primi mesi a New York, mentre suonava in strada, cercando di raccogliere quanti più centesimi possibili per assicurarsi un pasto decente e un posto dove dormire, avrà sicuramente pensato che, dopo tutto, se voleva farsi ascoltare dal maggior numero possibile di persone, doveva farsi le ossa, sperimentando sulla propria pelle la durezza di una vita fatta di sacrificio.
Nel Greenwich Village, oltre a stringere rapporti di amicizia con Dave Van Ronk e Bob Dylan, Ochs si fece subito notare per un indomito spirito polemico e per la passione che metteva nel difendere i più deboli e nel condannare l’intervento militare statunitense in Vietnam. Guadagnatasi una discreta fama negli ambienti dei folk club newyorkesi (Pete Seeger arrivò addirittura a dirgli che gli sarebbe piaciuto avere un decimo del suo talento come cantautore!), Ochs ricevette l’offerta di cinquanta dollari per registrare alcune campfire songs (in pratica, quelle canzoni tradizionali che, solitamente, i giovani si divertivano a suonare intorno a un fuoco di bivacco) insieme al banjoista Dick Weissman e a un gruppo di giovani cantanti. Accreditato ai The Campers, Camp Favorites uscì nel 1963 e resta nient’altro che una sfiziosa curiosità, cosa che dovette essere chiara anche allo stesso Ochs, il cui nome, su sua esplicita richiesta, fu omesso dalle note di copertina.
Ochs partecipò, quindi, alle edizioni del Newport Folk Festival del 1963 e del 1964, ottenendo in entrambi i casi riscontri più che positivi. Erano gli anni dell’ascesa di Bob Dylan, ma tutto lasciava presagire che quello schivo folksinger venuto dal Texas sarebbe diventato un personaggio di prim’ordine della scena folk. Alcune sue canzoni avevano, intanto, trovato posto su New Folks Vol. 2, una compilation messa a punto nel 1964 dalla Vanguard. Fu soprattutto “There But Fortune”, un brano che invitava a essere misericordiosi nei confronti dei meno fortunati, a suscitare un certo interesse tra gli addetti ai lavori, spingendo addirittura Joan Baez a registrarne una propria versione da destinare al suo nuovo disco, Joan Baez/5, previsto per l’autunno di quello stesso anno.
La Elektra aveva intanto intuito il potenziale di quello schivo cantautore e lo aveva messo sotto contratto, mandandolo immediatamente in studio a registrare un disco che avrebbe visto la luce nel giro di pochi mesi. All the News That’s Fit to Sing è l’opera cui Ochs affidò la sua idea di «giornalismo cantato» (il titolo del disco – che s’ispirava al motto del New York Times: “All the news that’s fit to print” – può essere tradotto con «tutte le notizie che sono adatte per essere cantate»). Vi compaiono brani di grande impatto, in cui gli intrecci delle due chitarre acustiche (la seconda suonata da Danny Kalb) e gli occasionali interventi dell’armonica di John Sebastian costruiscono efficaci contrappunti musicali per le dissertazioni polemiche di Ochs, spesso veicolate attraverso lo stile del talking blues, una via di mezzo tra i moduli del canto e quelli del parlato. I temi affrontati vanno dalla pace nel mondo (“One More Parade”) alla guerra nel Vietnam (“Talking Vietnam”, uno dei primi brani in assoluto ad affrontare quella spinosa questione), dallo squallore sociale che porta a commettere i più efferati omicidi (“Lou Marsh”) all’automazione che toglie posti di lavoro (“The Automation Song”), passando per la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre del 1962, che solo per un soffio non gettò il mondo nel baratro del disastro nucleare (“Talking Cuban Crisis”), e i martiri della lotta per i diritti degli afroamericani (“Too Many Martyrs”), fino a toccare il tema universale dell’amore, comunque calato nella concretezza della vita vissuta (“Celia”). Uno dei brani più famosi del disco è senza dubbio “The Power and the Glory”: in esso Ochs dichiara, nonostante tutto, il suo amore per gli Stati Uniti, in ciò riecheggiando il suo maestro Woody Guthrie, che nel disco è esplicitamente omaggiato in “Bound For Glory”.
Nel febbraio del 1965, Ochs, questa volta senza l’aiuto della seconda chitarra di Kalb, proseguì il suo viaggio cantautorale con il meno convincente I Ain’t Marching Anymore. L’iniziale title-track è uno dei suoi brani più famosi, anche perché se la prendeva con la politica militarista degli Stati Uniti, che fin dalla guerra del 1812, combattuta contro l’Inghilterra, non aveva fatto altro che confermare l’inutilità della guerra come soluzione per risolvere i conflitti internazionali. A discapito di tutte le fandonie patriottiche (alla fine, “sono sempre i vecchi che ci conducono alla guerra”, mentre sono “sempre i giovani a morire”), Ochs dichiara, anche a costo di essere definito un traditore, che “non marcerà più”. Con l’occhio puntato sulla realtà, il “singing journalist” passa in rassegna, quindi, le sommosse razziali del 1965 a Watts, presso Los Angeles (“In The Heat Of The Summer”), si fa carico di condannare la pena di morte (“Iron Lady”: la «signora di ferro» è la metafora della sedia elettrica…), se la prende con i veri responsabili che si nascondono dietro le atrocità compiute dai soldati americani (“The Men Behind The Guns”), mentre affida a “That’s What I Want to Hear” la speranza che i disoccupati possano far sentire la propria voce. E se la rilettura di “The Ballad of the Carpenter” di Ewan MacColl suggerisce, invece, che Gesù Cristo, a conti fatti, non era altro che un socialista ante litteram, una certa leggerezza, nonostante la satira antibellica e il problema della segregazione razziale in Alabama, si respira in numeri quali “Draft Dodger Rag” e “Talking Birmingham Jam”. Come già fatto nel suo primo disco con “The Bells” di Edgar Allan Poe, anche in questi solchi Ochs riprende un poema (“The Highwayman” dell’inglese Alfred Noyes), adattandolo al suo fluido cantautorato.
Nel 1966, Phil Ochs in Concert, al netto della presenza di più di un brano sottotono, confermò il cantautore come uno degli artisti più apprezzati da critica e pubblico. Il disco, che segnò la fine della sua fase acustica e del suo rapporto con la Elektra, affronta altre tematiche rilevanti quali l’immigrazione (“Bracero”), la religione (“Canons of Christianity”), il colonialismo (“Santo Domingo”, “Cops of the World”) e l’abisso che separa il «dire» e il «fare» in campo politico (“Love Me, I’m a Liberal”).
Nel 1967, stuzzicato dai più recenti sommovimenti in ambito pop-rock (la svolta elettrica di Dylan, la crescita artistica dei Beatles, la diffusione della musica psichedelica, etc.), Ochs offrì, con Pleasures of the Harbor la sua idea di cantautorato evoluto con brani mediamente più lunghi. Il disco era introdotto da “Cross My Heart”, un delizioso esperimento di folk-pop barocco in cui il tema della fragilità dei progetti umani è comunque accompagnato da una certa dose di ottimismo. Arrangiata con archi e pianoforte, “Flower Lady” riflette tangenzialmente il credo hippie: così come evita di comprare i fiori che la ragazza vende in strada, la stragrande maggioranza delle persone non vuole avere niente a che fare con l’idea del “flower power”. Affidandosi a uno spassoso Dixieland jazz, “Outside of a Small Circle of Friends” e “Miranda” vertono, invece, rispettivamente sul tema dell’apatia delle persone e sull’innocua passione di una ballerina per Rodolfo Valentino. Toni fiabescamente depressi assume, dunque, “I’ve Had Her”, in cui, secondo alcuni emergono toni misogini, mentre secondo altri Ochs canta semplicemente il dolore per la perdita di una donna. Trasformatosi in un pianista di musica lounge, in “The Party” Ochs disegna, invece, un efficace ritratto dell’alta società, quella che anche i ricchi socialisti frequentavano… Il momento più intenso del disco è rappresentato probabilmente dalla lunga title-track, una solenne, quasi cameristica ode a tutti quei marinai che, mentre si godono i piaceri sensuali che le donne sanno offrire sulla terraferma, non possono evitare di correre col pensiero alle incertezze che li attendono durante i lunghi viaggi in mare. Comparando John F. Kennedy e Gesù Cristo e suggerendo l’idea che il sacrificio di grandi uomini è un evento che ricorre, tragicamente, lungo tutto il corso della storia umana, la conclusiva “The Crucifixion” gioca, infine, la carta di un arrangiamento molto ambizioso, che il compositore Joseph Byrd, su esplicita richiesta dello stesso Ochs, pensò come una sintesi di Schoenberg, Stravinsky, Cage e musica elettronica, affidandosi, dunque, a organo, clavicembalo elettrico, percussioni, ottoni, flauti, archi, nastri mandati al rovescio e oscillatori per tradurre il tutto in una tessitura musicale di stampo avanguardistico. A conti fatti, si può tranquillamente convenire con Mark Brend quando afferma che, quello di “The Crucifixion”, è «uno degli arrangiamenti più audaci di tutta la pop music»1.
Mentre continuava le sue battaglie per i diritti civili e per la fine della guerra in Vietnam, che, di anno in anno, diventava sempre più un affare complicato per gli Stati Uniti (soprattutto in termini di morti e di impatto sulle generazioni più giovani), Ochs andava lentamente realizzando, con crescente delusione, che le sue canzoni e il suo impegno sociale e politico non avevano ottenuto, nonostante tutto, gli effetti desiderati. Con Tape From California (1968) tentò, allora, una sorta di compromesso tra la canzone di protesta dei suoi primi dischi e le istanze artistico-sperimentali di Pleasures of the Harbor, cercando anche di realizzare, come egli stesso ebbe a dire in quel periodo, un disco che rappresentasse «un commento spirituale del declino della società americana». I risultati furono, comunque, altalenanti: dal jazz-lounge della title-track all’incerto folk-barocco di “Half a Century High”, passando per le tirate anti-militariste di “White Boots Marching in a Yellow Land” (con l’eclatante verso “Stiamo combattendo una guerra che abbiamo perso ancor prima che la guerra iniziasse”) e “The War Is Over” (ancora folk-barocco, ma questa volta a ritmo marziale), l’ode a “Joe Hill” (cantautore e sindacalista vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento), una “The Harder They Fall” che tenta la carta dell’orecchiabilità, mediando tra valzer e cantilena, e le immagini di decadenza che s’incontrano lungo la maratona di tredici minuti (un po’ troppi, a dirla tutta!) di “When In Rome”. Tutto sfocia, alla fine, nelle poetiche immagini e nelle delicate trame cameristiche di “Floods Of Florence”, brano dedicato all’alluvione che colpì Firenze nel novembre del 1966 e che tanta eco ebbe in tutto il mondo.
Picasso leans out of the window, looks out on the ghetto
Changing the shapes he sees.
His old friend El Greco, soon is expected,
Now just an echo of Spanish seas.And outside, the people stare;
Wondering what’s going on in there!
Tossing the dice they pay the price,
So they can compare.And the holy words of love and reverence
Fell beneath the floods of Florence.
Picasso si sporge dalla finestra, fa attenzione al ghetto
Cambiando le forme che vede.
Presto si attende il suo vecchio amico, El Greco,
Ora soltanto un’eco di mari spagnoli.Fuori la gente resta fissa a guardare
e si chiede cosa stia succedendo là!
Pagano il prezzo tirando a sorte coi dadi,
in modo da poter fare un confronto.E le sante parole d’amore e rispetto
Sono cadute nell’alluvione di Firenze
La disillusione del cantautore raggiunse il punto di non ritorno all’indomani dei fatti della convention democratica di Chicago del 1968. Mentre, infatti, all’interno del Partito Democratico si andava consumando la frattura tra le diverse fazioni relativamente alla posizione da assumere nei confronti della guerra in Vietnam, migliaia di contestatori di quella stessa guerra si scontrarono con la polizia. L’immagine del partito fu seriamente compromessa. Così, nelle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, il repubblicano Richard Nixon sconfisse il democratico Hubert Humphrey, avviando una fase di conservatorismo politico.
Ironicamente, ma non troppo, sulla copertina del suo nuovo disco, Rehearsals for Retirement (1969), Ochs fece piazzare la lapide di una tomba a suo nome. Luogo e data della morte: Chicago, Illinois, 1968. Si trattava di una morte simbolica, che non riguardava solo il cantautore Phil Ochs, ma soprattutto gli Stati Uniti in cui, non solo Ochs, ma milioni di persone avevano creduto: gli Sati Uniti fatti di pace, libertà e giustizia sociale. Da un punto di vista musicale, Rehearsals for Retirement si abbevera alla fonte del folk-rock, presentandosi con le agili trame di “Pretty Smart on My Part”, in cui il protagonista (un estremista di destra) si mette in viaggio facendo l’autostop e sognando di uccidere il presidente… Una marcata impronta rock possiedono anche “I Kill Therefore I Am” (dove un poliziotto sogna di ammazzare capelloni, “negri”, omosessuali e tutti quelli che non rispondono alle norme imposte dall’establishment) e quella dichiarazione di odio-amore per la città più popolosa della California che risponde al nome di “The World Began in Eden and Ended in Los Angeles”. Alla morte per overdose del comico Lenny Bruce (altra spina nel fianco dell’establishment americano) è dedicata, invece, la ballata agrodolce di “Doesn’t Lenny Live Here Anymore?”.
E quando l’aria diventa irrespirabile, ci si può sempre immergere nel fiabesco impressionismo della ballata dylaniana di “The Doll House”, alla ricerca di un mondo parallelo, di un paradiso tutto mentale (magari, quello spalancato dalle droghe lisergiche).
I fatti di Chicago tornano, però, come un incubo in “William Butler Yeats Visits Lincoln Park and Escapes Unscathed”, marcando una disillusione che affiora anche in “Another Age” (cosa aspettarsi, dall’elezione di Nixon, se non l’avvento di una nuova, dolorosa era?), “My Life” (in cui Ochs paragona la sua vita di un tempo – “piena di gioia” – a quella dei suoi giorni più recenti, sempre più “simile alla morte”) e, infine, nella stessa title-track, affidata a un doloroso duetto voce-pianoforte.
Il disco non convinse la critica e si trasformò in un disastro commerciale, finendo per confermare, in un certo senso, tutti i dubbi e le angosce di Ochs. Quasi a voler esorcizzare i suoi demoni con una bella presa in giro, nel 1970 decise così di trasformarsi in una via di mezzo tra Elvis Presley e Che Guevara, presentandosi, sulla copertina del suo nuovo disco (ironicamente intitolato Greatest Hits) in una mise che, mentre lo faceva assomigliare a una versione alla buona del bacino più famoso del rock’n’roll, rappresentava probabilmente anche un segnale in codice per tutti quei cantautori (Dylan compreso?) che avevano abbandonato la causa, vendendo, come il protagonista di “Chords of Fame”, la propria anima per un po’ di fama. Assistito in cabina di produzione da Van Dyke Parks e supportato da un nutrito gruppo di musicisti, tra cui anche membri dei Byrds e della stessa band che accompagnava Elvis, in quello che resterà il suo ultimo disco in studio Ochs si avvicina anche alla musica country, cantando canzoni in cui ormai non vi è quasi più traccia di protesta, ma al massimo un disimpegno molto ben lavorato, il cui unico scopo era quello di ottenere, se possibile, un po’ di successo commerciale. Era la reazione sarcastica di un cantautore che aveva dato tutto se stesso nel tentativo di smuovere le coscienze dei contemporanei, ottenendo in cambio solo tanta rabbia e delusione. Eccolo, quindi, invocare l’esilio in “One Way Ticket Home”, innalzare un’ode a James Dean, uno dei miti della sua giovinezza (“Jim Dean of Indiana”), cantare, a ritmo di honky-tonk, l’amore materialistico per una bella automobile (“My Kingdom For A Car”), ritornare con la purezza del cuore ai suoi sogni di ragazzo (“Boy In Ohio”), immaginarsi come l’ultimo grande compositore di una lunga serie fatta di monumenti assoluti della musica (“Bach, Beethoven, Mozart, and Me”) o lanciare segnali circa il suo imminente ritiro dalle scene (“No More Songs”).
Seguì un tour in cui Ochs si esibì vestito «alla Elvis», ricevendo dal suo affezionato pubblico reazioni mediamente molto ostili. C’è chi parlò di tradimento, ovviamente. Pochissimi, tra quelli che all’epoca lo videro in concerto, compresero il significato di quello che stava facendo: il rock’n’roll come strumento per veicolare una nuova forma di ribellione e tutto il resto. La serata newyorkese del 27 marzo 1970 fu registrata e messa sul mercato con il titolo di Gunfight at Carnegie Hall. Nel frattempo, l’abuso di alcol e di droghe stava conducendo Ochs sull’orlo dell’abisso e il tutto fu aggravato da una crisi di ispirazione che, in pratica, mise fine alla sua carriera di cantautore. Continuò, comunque, a fare ancora qualche concerto, viaggiando molto, soprattutto in Sud America, dove fece sentire il suo impegno politico in Cile, Uruguay, Argentina, Bolivia e Perù. Nel 1972, scrisse “Kansas City Bomber”, un brano commissionatogli per l’omonimo film di Jerrold Freedman e dedicato alla vita della campionessa di pattinaggio a rotelle Kitty Carr. Rifiutato all’ultimo momento dalla produzione del film, il brano uscì come singolo. Un altro singolo, “Here’s to the State of Richard Nixon”, un feroce attacco al presidente americano messo sotto accusa dopo lo scandalo Watergate, uscì nel 1974, mostrando un autore tutto sommato ancora battagliero.
Durante quello stesso anno, mentre attraversava l’Africa, venne in contatto con molte realtà musicali locali, mettendo mano a un paio di brani (“Bwatue” e “Niko Mchumba Engamba”, poi finiti nel 1974 su un singolo intestato a Phil Ochs And The Panafrican Ngembo Rumba) in cui, oltre a utilizzare, rispettivamente, la lingua lingala del Congo e lo swahili tipico di molte regioni africane, faceva leva su sonorità world-music. Da quel viaggio, però, Ochs tornò sconvolto e mentalmente destabilizzato, a causa di una rapina subita in Tanzania e durante la quale aveva rischiato seriamente di essere strangolato. A suo dire, tutto era stato architettato dai servizi segreti americani che, come si scoprirà dopo la sua morte, a causa delle sue idee comuniste lo seguivano da tempo, controllandone ogni piccola mossa.
Dopo aver suonato concerti per portare all’attenzione del pubblico la tragica situazione in Cile (piombata nel 1973 in una feroce dittatura dopo il colpo di stato ordito dal generale Augusto Pinochet) e per celebrare la fine della guerra in Vietnam (aprile 1975), le sue condizioni psicologiche si aggravarono velocemente. Cercando di rimettersi in sesto, si trasferì a casa della sorella Sonny, nei pressi di New York. E fu proprio tra quelle mura che, il 9 aprile del 1976, Ochs si suicidò impiccandosi. Di canzoni, in quel suo ultimo, tragico periodo, non ne aveva più scritte. Se una canzone non può cambiare il mondo, si sarà detto, perché scriverne ancora una?
Note:
- Mark Brend, Strange Sounds: Offbeat Instruments and Sonic Experiments in Pop, Backbeat Books, 2005, p. 93
Discografia Consigliata
All the News That’s Fit to Sing (1964)
Pleasures of the Harbor (1967)
Rehearsals for Retirement (1969)
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