Il beneventano Enrico Falbo inizia la sua avventura musicale nel 2002, quando entra a far parte dei Lamia (nome ispirato a un brano dei Genesis, contenuto sul capolavoro The Lamb Lies Down on Broadway del 1974), in cui suona voce e chitarra. Con quella formazione, di ascendenza Radiohead-iana, riesce a pubblicare due Ep (Lamia, nel 2005 e, un anno dopo, Eufonia), risultando tra i vincitori di Rock Targato Italia (2007) e Sanremo Rock (2006).

In quegli stessi anni, Falbo canta e scrive i testi per i Chaos Conspiracy, formazione post-hardcore che riuscì a pubblicare, per l’etichetta britannica Copro Records, l’album Out of Place. Successivamente, tra il 2009 e il 2012, si dedica al post-rock insieme a Il Cielo di Bagdad, in cui suona, chitarra, viola e harmonium. Si tratta di esperienze formative, che mettono Falbo in condizione di scrivere i brani destinati al suo primo disco solista, che uscirà nel 2010 con l’emblematico titolo di Canti Silvani. Messe da parte le tentazioni rock e hardcore, Falbo opta per una decisa virata verso un suono caratterizzato da tensioni ancestrali e sfumature arcane, nel solco di un’immersione psichica dentro i bellissimi paesaggi del suo territorio d’origine.

I boschi, il verde, il blu, i tramonti e le aurore del Sannio, l’orfismo, le creature infraterrene (elfi, fate, streghe, spiriti e demoni) tanto care al folklore magico-popolare del territorio beneventano sono stati la principale fonte di ispirazione per una “musica altra”. Ho composto ed eseguito le musiche impiegando vari strumenti come viola, violino, harmonium, chitarra classica ed elettrica, sarangi (strumento indiano ad arco con trenta corde di risonanza), taisho koto (modernizzazione del koto giapponese con tasti simili a una macchina da scrivere),“elettronica-sampler”, tamburelli e sonagli. La voce è sempre usata come uno “strumento”, come se recitasse ancestrali formule “sonore-sciamaniche”. I Canti Silvani sono canti provenienti dalle selve oscure, dalle radure e vogliono esprimere l’invisibile nel visibile, una sorta di “pan-psichismo” sonoro, l’henosis di spirito e materia, uomo e natura, “naturale” e “sovrannaturale”. L’energia generatrice e divoratrice della Natura sono stati per me la fonte di ispirazione per una musica aurale, tra l’oscurità e la luce, “misterica” oserei dire. In sintesi, ritrovo nel mio percorso musicale l’impulso dissonante del rock, l’armonia e la solennità della musica classica, la frenesia della musica rituale e l’atmosfera eterea e sconfinata della “musica cosmica”.

Canti Silvani è un disco prezioso, attraversato da echi di misteri sepolti nel tempo, lì dove la memoria può rispecchiarsi dentro le architetture musicali di una “città invisibile” come la Zora di Italo Calvino. Ecco, quindi, che i primissimi secondi del disco – percussività di corde e canto misterico – rapiscono corpo e anima, spingendole a danzare dentro il cerchio di uno stupore millenario (“Viaggio verso Zora”). Nel brano che dà il titolo al disco, invece, energia e disincanto metafisico sono tesi a ridestare gli umori più ancestrali della terra, tessendo trame vibranti e sciogliendone, a più riprese, i fili in dissimulato abbandono, anticipando, quindi, l’unità primordiale che, a ritmo marziale, distilla la sua essenza dentro i labirinti della “Henosis” mistica. Come da titolo, poi, “Valzer stellare” proietta girandole dentro la curva immota di un cielo che, a ben ascoltare, nasconde quella solarità che tanto ci piacque riscoprire anche tra i solchi di un altro grande disco “sommerso” del Bel Paese: Spartenza dei romani Sinenomine. Man mano che scorrono i secondi, prendono forma inquietudini e austerità cameristica (“Canto elfico dell’aurora”), architetture di solennità e incanto (“La solitudine è vento”), si risalgono i sentieri del mito, fino a incrociare “colui che guarisce attraverso la luce” (“Fabula di Orfeo”), fino a perdersi dentro i vortici di “Espiazione della luce”, tre minuti e mezzo scarsi che fanno venire in mente anche i Black Tape For A Blue Girl, laddove, invece, “La danza delle fate” assomiglia a una ninna-nanna arrangiata da Colleen. In coda, infine, l’“Overture del Non-Ritorno”:

Tutti i brani del disco sono “in progressione”, si aprono incessantemente ad “altro da sé” verso il “Non-Ritorno”. Questo è un fondo di risonanza metafisica, una tonalità emotiva che pervade tutte le composizioni. Credo possa avvicinarsi al “Moksa” dei Veda, al “lasciar scorrere” inteso come disfacimento di ogni “ritornare” nel manifestato, come liberazione da ogni “ciclo”, come abbandono ad una specie di “nostalgia” che disorienta ogni sentimento nostalgico.

Pubblicato quello che, a conti fatti, è uno dei dischi più interessanti della musica italiana degli ultimi anni, Falbo lascia passare ben sette anni prima di ritornare sulle scene con Tranceformer, uscito proprio quest’anno per la Vulpiano Records. Il disco, un vero e proprio “rituale di trance” registrato in presa diretta, abbandona il folk ancestrale di Canti Silvani per concentrarsi su un affascinante mix di musica cosmica e ambient-tribale. In apertura, l’epica cavalcata di “Dei Divini” riporta alla memoria le partiture più metronomiche di Klaus Schulze, un nome che torna buono anche per le evoluzioni più rilassate, ma comunque attraversate da una nitida tensione metafisica, di “Trance-Forme”. In “Prakriti”, le percussioni in ostinato fanno da sfondo a un panorama cangiante, con voce sciamanica in penombra e scintille di India. Ancora percussioni, ma stavolta con lento andamento ritualistico, circoscrivono il raggio d’azione di “Psychostasis”, in cui la voce filtrata assume toni sinistri. L’influsso della musica indiana è ancora più evidente nella prima parte di “Del Remoto”, un brano che assume toni minimalisti, andando alla ricerca di un effetto ipnotico. Il sipario cala sulle note di “Tejas”, dove ritualismo ed elettronica s’incontrano in tono minore.

Ciò che più mi affascina ed inquieta nella musica non è tanto la sua dimensione estetica, ma la sua dimensione “estatica”. Il mio percorso musicale procede verso questa direzione “non-lineare”. Tranceformer è stato registrato interamente in presa diretta, con loopstation ed effetti, strumenti indiani ad arco (dilruba ed esraj), viola, elettronica, chitarra e voce. Le influenze musicali spaziano dalla “musica cosmica” alle sonorità dei rituali estatici e di trance e dalla drone-ambient all’avant-rock. Ci tengo a precisare che il disco non è il risultato di un sincretismo musicale, che riunisce esteriormente più generi, per apparire interessante e fruibile, ma nasce dall’idea di una sintesi che vive nell’interiorità della mia ricerca musicale ed esistenziale. Non si tratta di ri-proporre musiche tradizionali in chiave moderna. Il mio intento musicale non è la sterile contaminazione per un’esibizione fine a se stessa, ma il ritorno all’Origine per un suono originario e originale.

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