Moses Sumney: spiritualismo e black music

Tra i nuovi fenomeni non sotterranei esplosi negli ultimi tempi troviamo di certo Moses Sumney, cantautore californiano apparso già nel “lontano” 2014 con l’Ep di debutto Mid-City Island Sumney, prodotto in totale autonomia con un registratore ricevuto in regalo da Dave Sitek dei Tv On The Radio. La sua voce calda, quanto estremamente sottile, si inserisce al centro di uno stile articolatissimo, sfuggente; una commistione d’intenti che trae giovamento dal jazz cosmico tanto in voga nei dintorni della città degli angeli, soprattutto nei piani alti della Brainfeeder di FlyLo, tra la combriccola di Chris Manak della Stones Throw e un po’ in tutto il sottobosco di beatmaker e rapper perennemente attratti dalle fughe spirituali dei fari Sun Ra e Alice Coltrane.

Nato il 19 maggio 1990 a San Bernardino, in California, da genitori ghanesi, Moses si è trasferito con la sua famiglia nella terra d’origine all’età di dieci anni, incontrando non poche difficoltà di adattamento alla cultura ghanese. Tornato nei natii States, Sumney ha frequentato l’Università della California, a Los Angeles, ristabilendo quel contatto fondamentale con quella che resta, in sostanza, la sua nazione. Ripresa piena confidenza anche con la musica, il giovane Moses ha iniziato subito a sfoggiare il proprio talento compositivo, dando prova della sua bravura in luoghi come l’Hollywood Bowl, così come accanto ad artisti rinomati, quantomeno in ambito “indipendente”, del calibro di Dirty Projectors, Junip, St. Vincent e Local Natives, arrivando finanche a cantare nell’open-track dell’album Song Reader di sua maestà Beck. Il 30 settembre 2016 viene poi pubblicato Lamentations, nuovo Ep che vede, tra gli altri, anche la partecipazione come bassista di Thundercat. Ma è nel 2017 che Moses Sumney entra nel mondo della musica dalla porta principale grazie all’uscita dell’atteso Lp, Aromanticism, uscito per conto della nobile etichetta Jagjaguwar. L’album riceve immediatamente applausi a destra e a manca, e ogni webzine, portale, blog o rivista che si rispetti lo saluta come il nuovo potenziale messia della black music più emancipata. A esaltarsi sono soprattutto i vari Rolling Stone, Guardian, e New York Times. Insomma, tutti pazzi per Sumney. Compreso il Belpaese che si unisce al coro mediante recensioni a dir poco entusiastiche apparse sui migliori portali.

A dar man forte a quella che a un primissimo impatto risulta un’alchimia musicale essenzialmente difficile da inquadrare, sono sopra ogni cosa le parole legate al concept del disco; esternazioni che trascinano l’ascoltatore in una costante ricerca della felicità interiore, per essere ancora più chiari la caccia all’altra metà che ogni umano intraprende per tutta la sua esistenza; quella metà delle cose, della vita, del tutto e il suo contrario ritenuta salvifica, che completa e che l’uomo rarissimamente riesce a individuare durante la sua celere permanenza terrena; un uomo spesso incapace di venirne a capo, e che rimane il più delle volte con la testa “nel secchio”, o se preferite, per dirla alla Platone, chiuso nella sua caverna. I più giovani la chiamerebbero sicuramente “comfort zone”, ma questa è un’altra storia.
Tornando alla musica del buon Sumney, l’overture introduttiva è affidata alla doppietta Man On The Moon (Reprise)/Don’t Brother Calling, nella quale archi e una sopita speranza affondano lemme lemme, con frasi poste a metà tra la ricerca del divino e l’innata incomprensione del medesimo:

I’m not a body, the body is but a shell
I disembody but suffering is sovereign
Still no grasp of reality
The world is a wonderland scene
I don’t know what we are
But every cell in the corpus resembles stars
Signal into the sky
God sings to me in reply

Un tentativo di evasione che crolla dinanzi alla realtà, al vivere quotidiano. Il giovane Moses è perlopiù attratto dal possibile aggancio tra materia e spirito che ciascuno di noi “avverte”, e prova a unire i “propri” cocci mediante una ballata dolcissima, nella quale non manca una velata ironia sulla dimensione concreta di certi voli interiori: “My wings are made of plastic”; una dichiarazione emblematica, che suona quasi come una sconfitta, e che diventa definitiva dinanzi alla constatazione dell’esistenza delle più svariate distanze umane, tutte inesorabilmente legate al turbocapitalismo e alla finanza. E’ certamente una situazione che scuote dalle fondamenta l’artista californiano, e ben inquadrata tra le pieghe del brano Quarrel, con il basso del sopracitato Thundercat alternato all’arpa di Brandee Younger a fungere da tappeto a un refrain avvincente e pregno di sgomento. E’ lo stesso Sumney a spiegare il senso di questa canzone in un podcast apparso su Song Exploder; una traccia venuta a galla durante una crociera intrapresa assieme a un sacco di persone molto ricche tra cui diversi scienziati ambientali: “erano molto appassionati per l’ambiente, ma erano contemporaneamente sprezzanti della discriminazione razziale esistente”, dichiarerà in seguito il musicista. Sumney ha scritto gran parte del testo nella sua cabina, concentrandosi sulla distanza tra persone di diversa estrazione sociale. La canzone parla di potere, e coinvolge la strana relazione tra due individui appartenenti a gruppi estremamente distanti. Infine, afferma che “un disaccordo tra due persone non può essere chiamato semplicemente una lite tra amanti“, perché ciò implicherebbe che siano uguali, mentre nella realtà non è affatto così.

Un mondo dunque difficile, che vive in solitudine, come quello descritto nella magica Lonely World, con il basso dell’amico Thundercat che torna ancora una volta a vibrare e il corno di Mike Rocha a spingere verso l’alto, in un crescendo enfatico davvero irresistibile. Ben più bucolico è il passo folk di Make Out In My Car, nel quale spuntano il flauto e il clarinetto, entrambi ben posizionati sullo sfondo, di Nicole Miglis e Tracy Wannomae. Certo, non avrà l’impeto di un Donald Glover, aka Childish Gambino, ma il giovane Moses sa come sfruttare al meglio la propria teatralità, sondando lidi per certi versi decisamente più ricercati nei quali trasmettere le proprie riflessioni. Un’inclinazione entusiasmante, che lo porterà a scalare vette artistiche sempre più assolate.

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