Stefano Solventi, i Radiohead e il crepuscolo del rock
Intro
The Gloaming – I Radiohead e il crepuscolo del rock, nuovo libro edito da Odoya di Stefano Solventi (già firma del «Mucchio Selvaggio» e, al momento, in forza alla webzine «Sentireascoltare») non vuole essere solo un libro sui Radiohead e la loro vicenda musicale, ma anche, e soprattutto, un’indagine sulla progressiva perdita di centralità patita dal rock a partire dalla prima metà degli anni Novanta. Analizzandone il percorso discografico, Solventi mostra, infatti, come la band inglese sia stata, durante gli anni, megafono di quello stesso decentramento, invitandoci a riflettere sul presente e sul futuro di quella musica che, nonostante tutto, continuiamo a definire “rock”. Perché, come lo stesso Solventi scrive nelle prime pagine di un libro che vi consiglio assolutamente di leggere, il rock «non è morto, è vivo. Lo sarà sempre finché dei ragazzi su un palco o in una cantina sentiranno di poter cospirare la più eccitante e scomoda manifestazione di se stessi, in faccia a un mondo che sembra accontentarsi di continue rassicurazioni.»
Di seguito, la nostra intervista con l’autore.
Francesco Nunziata
Allora, Stefano, per prima cosa, vuoi dirci quali sono state le ragioni che ti hanno spinto a scrivere questo libro?
Stefano Solventi
Tutto quello che scrivo ha un’origine piuttosto istintiva. Ma razionalizzando penso che la ragione principale sia stata rispondere alla domanda: come siamo arrivati fino a qui? Come dice il mio amico Ivo Grande (uno che, prima o poi, scriverà il romanzo che tutti stiamo aspettando), in questo gran casino che è diventato il presente c’è bisogno di mappe, di punti di riferimento. Credo che ripercorrere i passi che hanno portato alla dissoluzione o quasi del supporto fonografico e allo sconvolgimento delle prassi di produzione, distribuzione e fruizione della musica – assieme a tutto quello che è cambiato in termini di costume, comunicazione e abitudini culturali – serva se non altro a chiarirci le idee, a vederci un po’ più chiaro nella nebbia di un incantesimo che ci delizia giorno dopo giorno con la sua deliziosa abbondanza, ma che allo stesso tempo ci angoscia con la sua pervadente richiesta di controllo, di informazioni.
Francesco Nunziata
Nel tuo libro, il racconto dell’avventura musicale dei Radiohead va di pari passo con quello, spesso impietoso, della progressiva perdita di centralità del rock, del suo «ruolo», per dirla con le tue parole. Ti va di approfondire la questione?
Stefano Solventi
È stata una scelta precisa, voluta ma anche in un certo senso obbligata. Non avrei scritto l’ennesima monografia sui Radiohead, sarebbe stato inutile, ma neppure un saggio sulla crisi del rock tout-court, perché avrebbe significato adottare una forma troppo tecnica, da saggio appunto, che non amo. Avevo bisogno di una chiave narrativa per raccontare quello che è accaduto al rock e a tutti noi in questo ultimo quarto di secolo, ne avevo bisogno per rendere la narrazione dinamica, appassionata, emotiva. Farlo seguendo il percorso discografico della band di Yorke mi è sembrata la scelta più naturale e opportuna, perché in effetti ho sempre sentito – l’ho sentito in tempo reale – che i Radiohead raccontavano in ogni disco proprio l’allargarsi del solco tra fattore umano e dimensione post-umana nell’era dell’automazione. Un’era che tende a tagliare fuori il rock dalla zona nevralgica dell’immaginario collettivo.
Francesco Nunziata
A dirla tutta, non sono un grande estimatore dei Radiohead, anche se, nel periodo compreso tra l’uscita di Ok Computer (1997) e quella di Amnesiac (2001), li seguivo con attenzione. A conti fatti, quei due dischi, con l’intermedio Kid A (2000), sono i loro dischi che preferisco e che, ancora oggi, ascolto con piacere. In ogni caso, non si può negare l’impatto che la band di Thom Yorke ha avuto, durante gli anni, sugli appassionati di musica rock. Quale, a tuo avviso, il loro merito maggiore?
Stefano Solventi
Penso che sia stato quello di resistere. Stanno insieme da trent’anni, la formazione è sempre la stessa, un caso pressoché unico per band di questo livello. I loro dischi sono in tutto e per tutto loro, non si sono mai prestati al vizio/vezzo/trucco del featuring. Ci sono soltanto loro e il modo in cui si evolve, assieme all’idea sonora, la loro visione delle cose. Una visione cui ho già accennato prima, ma che ovviamente investe molti altri temi e aspetti. Ecco, in questa loro continuità e identità produttiva, il fatto che si avverta un senso di evoluzione, di cambiamento (dentro e attorno il fare e farsi della musica) costante, necessario e incontenibile, ha del prodigioso. A parte la coppia Kid A–Amnesiac – quasi un album doppio fantasma – ogni disco pubblicato dai Radiohead li ha colti in una fase espressiva peculiare. In ogni disco ci sono ossessioni nuove, un oltrepassarsi, un accartocciarsi, uno sterzare di lato. Ogni disco ha saputo fare a pezzi le aspettative dei fan per dimostrarsi la proiezione dello stato dell’arte attraversato dalla band, un’istantanea ricca di dettagli e profondità di campo, che il disco successivo avrebbe sbaragliato. Questo, tanto dal punto di vista artistico che simbolico, trovo che sia un merito enorme.
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Francesco Nunziata
Mi ha fatto molto sorridere il passaggio del libro in cui parli della «sindrome del 6,5», un voto che spendevi – ti cito – «per album oggettivamente buoni», ma dai quali non ricevevi «la tipica scintilla della frattura, dello scarto espressivo che illumina un percorso proprio, ineludibile, necessario.» Mi ha fatto molto sorridere, ripeto, perché è quello che mi è capitato (e ancora mi capita!) in qualità di redattore della webzine OndaRock. In molti casi, quella valutazione dipende, almeno per quanto mi riguarda, anche dalla presenza di brani superflui, che finiscono per abbassare la qualità di dischi la cui durata media è, ormai e, aggiungo, purtroppo, sempre più lunga.
Stefano Solventi
Concordo, ma negli anni ‘90 era anche peggio: i 74 minuti del cd sembravano spingere i musicisti – incoraggiati forse anche dalle case discografiche che puntavano a un prodotto più “ricco” – a utilizzarli tutti. Iniziarono a uscire CD infiniti pieni di pezzi trascurabili e immancabili tracce fantasma. All’epoca del vinile sarebbero stati tutti album doppi, e sappiamo quanto sia difficile mantenere alta la qualità complessiva di un doppio. Oggi mi sembra che quella frenesia, almeno dal punto di vista del rock, sia un po’ passata, i migliori album rock che ho ascoltato recentemente si attestano tra i 40 e i 50 minuti di durata, prendi gli Shame, le Goat Girl, il recente dei Low, la “nostra” Any Other… Fermo restando che resta la piaga degli album che avrebbero avuto più senso come EP.
La “sindrome del 6,5” però si riferisce a un altro aspetto, più sottile, ovvero a quella sorta di formattazione operata da produttori e discografici che tendono a livellare, in positivo e in negativo, la qualità delle band proposte. Finisce che da certe case discografiche sai che più o meno otterrai quel certo tipo di disco, fatto bene, che toccherà quei determinati tasti e sonorità, ma senza slanci, senza reale coraggio. Un prodotto, né più né meno. Un “conformismo alternativo”. Una cosa dignitosa ma piuttosto triste, soprattutto perché proviene dalla cosiddetta dimensione indipendente.
Francesco Nunziata
Nelle pagine iniziali del libro, dici che non ami la parola “critica”, perché presuppone un’autorevolezza, una profondità di analisi e un rigore che non rientrano nei tuoi obiettivi. Tuttavia, non credi che proprio in un’epoca come la nostra, così ricca di proposte discografiche (spesso e volentieri davvero sommerse), la critica (con la sua profondità di analisi – derivante anche da uno “studio” della storia del rock – e il suo rigore) possa rivelarsi più che necessaria per “separare” i dischi superflui da quelli che hanno ancora qualcosa da dire?
Stefano Solventi
No, non lo credo. Credo anzi che tocchi alle recensioni farlo, perché sono loro che stanno sul pezzo, in prima linea e in tempo reale. Penso che la critica e la recensione appartengano a “momenti” e modi diversi. La critica agisce a un livello più profondo e con sguardo più ampio, deve storicizzare, rivelare connessioni culturali e interdisciplinari, magari entrare nel merito di aspetti musicologici, tutte cose che al recensore non sono necessariamente richieste. La critica quindi ha bisogno di tempi più lunghi per agire. Selezionare i dischi che hanno qualcosa da dire oggi tocca invece ai recensori, ai quali secondo me bisogna chiedere sostanzialmente due cose: sincerità e passione. Poi, certo, devi saper scrivere. In ogni caso, credo che a gioco lungo i lettori sappiano riconoscere e selezionare i recensori validi.
Infine credo che la critica rock debba prevedere una quota di passione e trasporto, debba cioè perdere un po’ il controllo (come il rock, del resto), anche se questo finisce per farla sembrare meno autorevole, meno “critica”. In questo senso sostengo di non amare il termine e di non ritenermi affatto un critico.
Francesco Nunziata
Mi risulta difficile, però, pensare che, in sede di recensione, accanto al “recensore” non ci sia anche il “critico”, insomma, colui il quale, proprio perché continua a non perdere di vista la storia del rock, è in grado di mettere in relazione passato, presente e, perché no?, anche il futuro. Senza lo spirito “critico”, diciamo così, la recensione, quando è positiva, finisce per diventare un semplice “consiglio per gli acquisti. Cosa che, oggi come oggi, mi sembra essere diventata, ahimè, la norma.
Stefano Solventi
Hai ragione, il rischio c’è e può essere grave se vengono a mancare appunto la sincerità e la passione. Di recensioni scritte come un riaggiustamento delle cartelle stampa preparate dalle etichette se ne leggono tantissime, se fai un po’ di attenzione le riconosci al volo. Di contro però credo che la recensione per sua natura tenda a farsi cliché, non fosse perché devi scriverne tante e piuttosto in fretta. La conseguenza è che quando la recensione tenta di farsi critica tende ad avvitarsi in una serie di formulette o slogan che raccontano più la saccenza del recensore/critico che non il perché del disco in questione. Forse una ricetta per sfuggire a questa doppia trappola non c’è, o forse sì: forse bisognerebbe pensare da critico ma scrivere da recensore. Ovvero avere ben presente il contesto, le provenienze, le connessioni e le possibili prospettive, e alla luce di questo scrivere – possibilmente bene, in modo intrigante – soprattutto di cosa il disco è capace di darti sul piano delle emozioni. Il recensore dovrebbe essere una specie di critico riluttante, ecco. Questa potrebbe essere una soluzione.
Francesco Nunziata
Esatto! Bisognerebbe cercare di raggiungere un equilibrio tra “critico” e “recensore”. Un recensore che non è “critico” è semplicemente uno che ha ascoltato il disco e mi dice se gli è piaciuto o meno. Ma questo, allora, può farlo chiunque, anche il “primo venuto”…
Stefano Solventi
Concordo. Ma confido nel fatto che il direttore della testata e i lettori riconoscano il primo venuto e lo evitino.
Francesco Nunziata
Certo: l’importante, comunque, è avere sempre di mira l’equilibrio di cui parlavo poc’anzi. Ma passiamo ad altro. A un certo punto scrivi: «Mi sentivo sempre più solo (…) in compagnia dei dischi che amavo.» Capisco bene quello che intendi… E non credo che le cose siano migliorate, vero?
Stefano Solventi
Quanto a me, sono migliorate, nel senso che mi sono messo il cuore in pace. Ho quasi 50 anni, una famiglia, amo sempre il rock ma anche leggere, scrivere, organizzare eventi. Insomma, non si vive di solo rock. Però, continuo a vivere con amarezza il fatto che l’uscita di dischi anche molto belli sia “vissuta” solo da un numero relativamente esiguo di persone. Sto ascoltando molto il nuovo di Any Other, per dire, credo che meriterebbe di lasciare un segno profondo in una platea vastissima. Ma non lo fa e non lo farà. Lo stesso vale per il nuovo dei Low, un album difficile, certo, volutamente ostico, squarciato da momenti di abbacinante bellezza. E lo ascolteranno in pochissimi, che si consoleranno tra loro sui social scrivendo che è uno dei dischi dell’anno, nell’indifferenza generale. Insomma, essere appassionati di rock oggi significa non avere più la sensazione di far parte di un popolo, di un sentire diffuso, ma di appartenere semmai a una compagine marginale, un po’ snob se vogliamo, a tratti brancaleonesca per non dire sfigata. Comunque preferisco mille volte sentirmi così che essere un fan di Ed Sheeran, per dire.
Francesco Nunziata
Il rock, è vero, non ha più la centralità che aveva un tempo nel panorama della cosiddetta “popular music”. Eppure, credo che questo, in molti casi, abbia fatto sì che i musicisti riuscissero ad avere più libertà d’azione, spingendoli magari a sperimentare soluzioni, non necessariamente creative, ma, quantomeno, coraggiose e/o originali. Alcuni dei miei dischi rock preferiti degli ultimi anni provengono proprio da quello che mi piace chiamare «il sottosuolo del sottosuolo». Tu come la vedi?
Stefano Solventi
In un certo senso ho già risposto, è proprio così. Svincolarsi dalla necessità di confezionare un prodotto-disco da vendere il più possibile può rappresentare la base per una forma espressiva libera, liberata. Di contro, penso che in alcuni casi la brama di appartenere a questa dimensione “carbonara” rischi di produrre situazioni “ombelicali”, autoreferenziali e autoindulgenti. Il confine tra masturbazione pseudoartistica e avanguardia è sempre sottile. La differenza, al solito, la fa la qualità del musicista, della sua proposta. In generale però penso che il rock debba porsi come obiettivo quello di piacere al maggior numero di persone possibile: se guardo agli artisti e ai gruppi rock che più amo vedo che per tutti loro è stato così: da Nick Drake agli Stooges passando da Bowie ai Velvet Underground. Tutti volevano vendere, nessuno voleva rimanere “di culto”.
Francesco Nunziata
Come tu stesso ricordi, il vinile di The King Of Limbs, ottavo disco dei Radiohead, è il secondo più venduto, nell’ultimo decennio, in Gran Bretagna. In generale, a cosa è dovuto, a tuo avviso, il ritorno di fiamma degli appassionati per un supporto come quello del vinile che, con l’avvento, a metà degli anni Ottanta, del Cd, sembrava essere destinato all’estinzione?
Stefano Solventi
I numeri dicono che questa rinascita c’è. Ma i numeri dicono anche che rispetto alle prospettive dello streaming è un fenomeno destinato a rimanere molto marginale. Amo il vinile, ovviamente. Lo amo perché racchiude tutta un’eredità “hauntologica” di gesti, di rituali, capaci di definirti come individuo. Il fatto che tu sia disposto a compiere tutti quei gesti (scegliere un disco, toglierlo dalla copertina, pulirlo con cura, avviare il giradischi, posizionare la puntina, girarlo alla fine del lato A…) per procurarti il piacere di ascoltare, significa che quel piacere ha una sua dimensione, un tempo e uno spazio, che sai di dover proteggere perché può darti molto. L’ascolto di un vinile, al di là delle ormai logore questioni legate all’audiofilia, può darti molto appunto per questo, perché è naturalmente “caldo”, esclusivo, meno soggetto a distrazioni rispetto a un ascolto “facile”, automatico, che sei portato a consumare coi social connessi e le notifiche pronte a invadere il campo.
Infine ci sono gli aspetti legati al collezionismo, spesso indistinguibili dal feticismo: ecco, di questi davvero non mi frega niente.
Francesco Nunziata
Quale futuro per il rock?
Stefano Solventi
Esserci, resistere. Lo scorso anno ho pubblicato un romanzo distopico – Nastri (Eretica Edizioni) – che in un certo senso è il sequel fiction di The Gloaming (o, se preferisci, The Gloaming è il suo prequel non-fiction), perché tenta di rispondere alla domanda: “e adesso che siamo arrivati fin qui, cosa succede?” In quel libro immagino un futuro post-apocalittico in cui il rock viene messo al bando, ma il rock trova il modo di esistere in maniera clandestina, perché la sua esistenza risponde a un’esigenza primaria: dimostrare che non puoi controllarmi del tutto, e che non posso controllarmi del tutto. Inoltre, il fatto che da situazioni critiche escano rock band dalla forza particolare (la Brexit che “produce” la foga degli Shame e delle Goat Girl, la devastazione urbana di Detroit da cui spuntano i Protomartyr…) dimostra che il rock sa ancora recepire la rabbia, l’insoddisfazione, il lato selvaggio dei marciapiedi, del battito metropolitano. La civiltà ne ha bisogno, non è concepibile un modello sociale che non preveda valvole di sfogo, e il rock è una valvola di sfogo formidabilmente creativa, connettiva sia in senso sociale che culturale, in questo senso positiva.
Francesco Nunziata
Stefano, di seguito tre domande inviatemi da Massimo Padalino, altro “addetto ai lavori” che tu conosci benissimo”…
Chi anticipa i tempi, e mescola il passato al presente con un occhio al futuro, è più influenzato o influenzatore, e quali sono le band “della terra di mezzo”, nella storia del rock, che hanno percorso (loro malgrado, forse, chissà, ma anche no) tale parabola?
Stefano Solventi
Verrebbe da risponderti che non puoi influenzare se non hai saputo beccarti dei bei virus, quindi inevitabilmente l’influenzatore è il più grande influenzato di tutti. La differenza la fa il modo in cui sai elaborare o nutrire questi virus dentro di te, combatterli pure se è il caso. A mio avviso, una delle band che ha saputo muoversi meglio in questo senso, tra punk e post-punk, tra elettricità ed elettronica, tra pop e incendio, sono stati i Wire. Se ripercorri la loro discografia è come assistere a una continua “elaborazione” di forme e piani espressivi, mediati dalla capacità di saper mettere a punto una sintesi sonora efficacissima e scrivere canzoni fenomenali. Altre band, escludendo i mostri sacri, direi che si possono trovare in ambito più o meno psichedelico: vedi alla voce Flaming Lips (anche se mi piace poco la svolta sensazionalistica e quasi piacionesca degli ultimi anni), Bevis Frond, Julian Cope (compresi i Teardrop Explodes), e via discorrendo.
Francesco Nunziata
La voce di Yorke: alcuni la ritengono l’epitome massima di un certo confessionalismo british style (una specie di Morrissey al cubo che tenta il falsetto), altri invece la ritengono troppo monocorde o perfino lagnosa; tu, invece, che rapporto hai con l’ugola di Yorke?
Stefano Solventi
So che quella di Yorke è una voce molto ingombrante, che imprime un senso forte alle canzoni, a qualsiasi canzone, e che questo può rappresentare un limite. È vero anche che uno dei problemi più grossi del pop-rock contemporaneo è proprio il contrario, ovvero la tendenza a privilegiare voci e modalità di interpretazione all’insegna di doti e tecnica (tu chiamalo, se vuoi, talento) ma sostanzialmente indistinguibili l’una dall’altra, incapaci di trasmettere il senso preciso del loro trovarsi tra le nostre orecchie. Voglio dire, quando ascolti Billie Holiday, senti analiticamente che non è una voce bella in senso canonico, ma non dubiti un solo istante del fatto che è l’espressione irrinunciabile di una sensibilità in grado di toccare corde irraggiungibili da nessun altro, perciò l’ascolto della Holiday è un’esperienza meravigliosa (seppur dolorosa, a volte). Con Yorke sento di poter fare un discorso simile: la sua voce è un segno caratterizzante che, anche per questo, traccia un confine, all’interno del quale sai che accadranno solo determinate cose (non lo sentirai mai alle prese con un pezzo mod, per dire) ma quelle avranno un senso forte, rivelando tutto sommato molti risvolti (almeno quanti sono gli stili che un pezzo dei Radiohead può incarnare, dal soul al rock passando dal breakbeat a una certa psichedelia e via discorrendo). La fama di “lagnoso” per me è un po’ ingrata, soprattutto da Hail To The Thief in poi.
Francesco Nunziata
I Radiohead sembrano sempre più una band che agisce fuori dal tempo, o meglio che agisce in un tempo tutto suo, che poco o niente ha a che fare con quello che scandisce il mondo attorno a loro/noi. E qui scatta la domanda: il bozzolo dell’artista, per come la vedi tu, ha senso anche per una band come i Radiohead che di fatto funziona come una ricetrasmittente dei segnali (musicali e non) della contemporaneità?
Stefano Solventi
Di più: penso che abbia senso proprio perché è un bozzolo o, come dice Yorke, una “bolla super rinforzata”. Riallacciandomi a quanto dicevo sopra, il fatto che dopo trent’anni i Radiohead siano ancora gli stessi, non è un caso. A tenerli assieme – oltre che una grande amicizia, l’intesa artistica e comprensibili interessi professionali – penso che sia una vera e propria ossessione, o se preferisci il bisogno di trovare riparo nel gruppo stesso, nella band. Da molte dichiarazioni si percepisce che nel loro stare assieme, nel proteggere e rendere inaccessibile la loro dimensione creativa, c’è più che una prassi di lavoro, sembra anzi che ne abbiano bisogno a livello umano, è un rifugio, la camera di decompressione che consente di decantare l’overflow di dati, di istanze, di impulsi, di idee, di richieste, di pressioni. Come scrivo anche nel libro, il pensiero va alla “cospirazione” di Dylan assieme alla Band nella cantina della leggendaria casa rosa che portò al misterioso splendore dei Basement Tapes. In quel caso, come accade per i Radiohead, credo che l’isolamento determini per paradosso le condizioni ideali per connettersi realmente col proprio tempo. È la sensazione che provo anche in privato: leggendo tendo a isolarmi, a staccare, ma è anche il momento in cui più riesco, grazie a un buon libro, a entrare in connessione col mondo. Credo che dovremmo riflettere sulla vera natura del nostro stare connessi via web con gli altri e con ciò che accade: l’eccesso di informazione, di news, sembra tendere fisiologicamente a farsi “fake”, a disperdere i riferimenti in una nuvolaglia di riferimenti impazziti, che non riusciamo più semplicemente a verificare, a inverare. Isolarsi, ogni tanto, è un modo per restare umani.
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