Léonie Pernet: sociopolitica e synth

Integrazione e contaminazione: è dall’accezione più nobile e profonda di questi due sostantivi che potremmo partire per comprendere al meglio la musica e l’approccio compositivo di Léonie Pernet, giovane cantante transalpina giunta al suo album esordio, Crave, il 21 settembre scorso. La musica e i testi della Pernet abbracciano temi come immigrazione, accoglienza e condivisione sociale. La musicista affronta tali problematiche con una certa frequenza, da un lato segnalando perdizione attraverso partiture stranianti, e dall’altro lato una buona dose di speranza mediante soluzioni irte di candore pop. Una paura per un’emergenza tanto complicata, quanto secolare, che da sempre attanaglia i pensieri della dolce Léonie. Basti pensare al singolo di lancio del disco, African Melancholia, il cui video affronta chiaramente la difficile situazione dei tantissimi rifugiati giunti negli ultimi anni nella capitale francese. Girato a nord della stessa Parigi, destinazione frequente per migranti in cerca di una nuova vita, il filmato mostra la corsa senza fine dell’attore sudanese Mohammed Mostafa, a sua volta profugo dopo essere fuggito dai massacri del Dafur in Sudan; un viaggio traumatico a cui è seguita ben presto la dura lotta burocratica (e politica) per ottenere asilo in Francia.

Pianista, arrangiatrice, cantante e batterista, Léonie Pernet integra la propria musica con la tradizione araba, come nel brano Auaati, che tanto ricorda la formula a metà tra trip-hop e puro arabic pop della libanese Yasmine Hamdan, guarda caso anche lei trasferitasi a Parigi assieme al marito, il cineasta palestinese Elia Suleiman. Dopo i primi anni di scuola vissuti burrascosamente, la Pernet ha messo la testa a posto, studiando musica liturgica e arti sacre, sbarcando poco dopo nell’universo dancefloor, con le prime serate organizzate nei club underground parigini, utili anche a diffondere i suoi primi mix. La brava Léonie ha anche mostrato talento per la poesia, spinta qui e là da una profonda coscienza sociopolitica; mentre nei primi anni del 2010, ancora giovanissima, ha suonato a più riprese come percussionista per il dj francese Yuksek, prima di trasferirsi a Brooklyn, iniziando finalmente a condividere la sua musica online. I primi brani della sua carriera sono inclusi nell’EP Two of Us, pubblicato sull’etichetta Kill the DJ nel 2014; un piccolo gioiellino che presenta campioni vocali stratificati, delicati slanci elettronici al piano e una sezione ritmica estremamente rock. In quello stesso periodo, la Pernet ha esordito anche al cinema con il dramma a tema immigrazione Bébé Tigre. Il cortometraggio Shamanic Killer è seguito due anni dopo, mostrando ancora una volta la sua sensibilità verso determinate tematiche. Di conseguenza, la musica ha risentito gradualmente di questo suo intenso impegno cinematografico, e lo stesso Crave, pur mantenendo una struttura sintetica a suo modo importante – su tutte le scorribande minimal wave presenti nella pulsante e androide Fatherfinisce per risultare nel complesso un’opera estremamente visionaria. Basti pensare alla cover riuscita di India Song, leit motiv dell’omonima pellicola di Marguerite Duras del 1975.

Le stesse tracce strumentali presenti nell’album, come la maestosa Nancy, sembrano per l’appunto uscite da un’intrigante soundtrack, mentre ballate ombrose come la delicatissima Rose, con il testo preso in prestito dal poeta e scrittore francese del tardo Cinquecento Francois de Malherbe, riappacificano solo in parte un sentimento di estremo disappunto verso la società odierna, in particolar modo nei riguardi di una politica che a volte sembra aver smarrito la propria missione umanitaria. Léonie Pernet è una musicista diretta, e colpisce in particolar modo per l’innata capacità di indurre l’ascoltatore a specchiarsi dentro se stesso prima di alzare lo sguardo verso l’esterno, cominciando così a osservare la realtà delle cose da una prospettiva nuova, di certo meno personalistica, più umile e consapevole. L’umore delle sue ripartizioni sonore è costantemente cupo e afflitto, e una traccia come Rotten Tree esterna pienamente tale inclinazione. Il carillon ipnotico di Story, inoltre, non fa altro che aumentare la sensazione di trovarsi dentro questo mondo misterioso, eppure a suo modo salvifico, liberatorio. Una liberazione contaminante, a cui spesso è davvero difficile resistere.

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