Laurel: indie pop da Southampton

L’inaudita potenza della rete ha creato negli ultimi due lustri sia dei mostri, sia dei piccoli grandi miti, soprattutto in ambito musicale. Quantificare l’effettiva qualità della sostanza diventa giorno dopo giorno sempre più arduo. Esistono però quei casi particolari in cui l’ansia da prestazione è talmente forte da rendere praticamente inutile l’immediatezza del web. Giovani musicisti di belle speranze tanto perfezionisti da rimandare continuamente il loro album d’esordio, con il rischio di ridurre la bontà e l’effetto dei primi singoli lanciati nella mischia. E’ il caso di Laurel Arnell-Cullen, in arte Laurel, cantautrice ventiquattrenne proveniente da Southampton. Munita di una voce particolarissima, capace di alzarsi a dovere così come stendersi (e stendere) al meglio, la giovane Laurel ha iniziato a interessarsi ai blog di musica nell’ormai lontano 2013, pubblicando una versione demo del brano Blue Blood, al quale sono seguite le varie Mankind e Fire Breather. Primi timidi tentativi di affacciarsi sul campo musicale muniti di qualche ingenuità produttiva di troppo, ma allo stesso tempo capaci di mostrare chiaramente una scrittura a suo modo efficace e straniante. A metà dello stesso anno, l’ancora sconosciuta Laurel firma un contratto discografico con la Turn First Artists – agenzia tra le più quotate nel vecchio continente, capace di sviluppare e preparare talenti alle prime armi come Ellie Goulding, Iggy Azalea, Rita Ora, e Jessie J – pubblicando di lì a poco sul portale Soundcloud Fire Breather, in sostanza il suo primo singolo ufficiale. L’Ep di debutto, To The Hills, arriva nel 2014 tramite l’etichetta discografica Next Time Records. Mentre il secondo Ep, Holy Water, giunge verso la fine dello stesso anno.

A differenza delle prime uscite, Laurel comincia a mostrare una scrittura più matura, lasciandosi influenzare nettamente da certo indie rock, lasciando dunque a casa velleità electro pop evidentemente poco sentite. Nel maggio del 2016, una sempre più prolifica Laurel decide di cavalcare l’onda rilasciando un secondo singolo intitolato San Francisco, brano che la proietta di scatto verso l’alto, con tanto di premio come artista della settimana su Apple Music. La firma per la label Counter Records, appartenente alla sfera della prestigiosa Ninja Tune, arriva poche settimane dopo. Un contratto che la porta alla sua prima tournée britannica nel Novembre dello stesso anno. E’ il preludio a una carriera ormai pronta a decollare, se non fosse per l’estrema accortezza della stessa Arnell-Cullen, ancora una volta poco propensa al grande salto e indecisa sulla pubblicazione del tanto agognato primo Lp. Un passo ovviamente importante, e a cui Laurel tiene evidentemente tantissimo, al punto da rimandare il tutto al 2018.

Il 24 Agosto diventa dunque il grande giorno per la giovane cantautrice inglese, e viene finalmente dato alle stampe Dogviolet. Il disco viene lanciato dal singolo Lovesick, munito di charme indie-pop 3.0, pregevoli chitarre in appoggio, e un gancio melodico in vaga nostalgia eighties, a metà strada tra Natalie Prass e Rose Elinor Dougall, e al quale funge da volano una voce sempre più vicina alle inclinazioni canore della divina Florence Welsh. Ed è proprio l’improbabile incrocio stilistico tra le prime due che domina qui e là nei vari episodi del disco. La formula cantautorale di stampo pop della Laurel fonde elementi rock e impercettibili sfumature electro poste da tappeto soprattutto nelle cavalcate dell’album, i cosiddetti episodi più sostenuti. Ma la cantautrice inglese sa anche graffiare, mostrare il proprio disappunto, quel grido di dolore prettamente sentimentale, mediante pezzi più disinibiti e sciolti come l’incalzante Adored, munita di riff sbilenco e stoppato irregolarmente, con tanto di improvvisa ripartenza alla Pj Harvey che davvero non guasta mai. Un’elettrificazione mediata da ballate poste spesso immediatamente dopo e in controluce, come l’intensa e struggente Sun King. A sostenere il canto di Laurel è ancora una volta una chitarra scarna e lievemente scomposta, così come appaiono frastornati i suoi umori interiori, evidenziati da parole ben precise, esaltanti rancori e attimi di pura quotidianità:

He has bedroom eyes, they’re just like mine
And when we walk the streets
I see people wondering
If we’re true or troubled then
I say, “He’s my sun king”
Through thick, or thick, or thin
And on a Sunday we like to watch the TV
I’m the hole in his heartbeat
And in this summer full of lovin’
How could I ever be without?
Sailing the seas had doubt that I’d never find you babe

Ben altra direzione risulta invece intraprendere Take It Back, canzone sinuosa e dal passo esotico, con un morbido refrain a mordere dolcemente, senza mai affondare più di tanto. Anche questa volta la produzione risulta pregevole, soprattutto se confrontata con quella del primo passato. Arrangiamenti dosati al meglio e laccature mai invadenti contraddistinguono l’esordio di una musicista certamente ancora giovane, ma pronta già da diverso tempo a sfondare, e a salire i gradini più alti dei circuiti alternativi, ma anche quelli del mainstream più remunerativo.

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