Giovani ribelli americani lungo il sentiero del «Rock’n’Roll»
Usciti vittoriosi dalla Seconda guerra mondiale, dopo aver sganciato ben due bombe atomiche su un Giappone già sconfitto, gli Stati Uniti affrontarono, tra il 1945 e la metà circa degli anni Cinquanta, un periodo florido, caratterizzato da un incessante sviluppo economico che ben presto avrebbe innescato il fenomeno del “consumismo”.
Su questa fase di benessere, in ogni caso, si allungò l’ombra della cosiddetta «guerra fredda», combattuta, a suon di proclami bellicosi e di corsa agli armamenti atomici, dalla potenza a stelle e strisce e dai suoi rivali dell’Unione Sovietica. Il “pericolo” comunista fu esorcizzato in patria con politiche molto severe (indirizzate dal senatore del Wisconsin Joseph Raymond McCarthy, da cui il nome di «maccartismo») nei confronti di quanti professavano quelle idee che avevano trovato una prima e fondamentale elaborazione nel XIX secolo grazie agli scritti di Karl Marx.
Nonostante l’imporsi di un subdolo conformismo, le generazioni più giovani – quelle che non avevano conosciuto la guerra e che a stento si ricordavano delle difficoltà vissute dai loro padri durante l’epoca della Grande Depressione, inaugurata dal crollo della Borsa di Wall Street il 29 ottobre del 1929 – iniziarono a sperimentare ideali di “diversità”, mediante i quali rintracciare soluzioni di vita alternative rispetto a quelle che il sistema politico americano aveva in serbo per loro, ma anche per esorcizzare la paura di morire, da un momento all’altro, in seguito allo scoppio di una devastante guerra atomica.
Non si trattò, comunque, di un evento casuale: infatti, fu proprio intorno agli inizi degli anni Cinquanta che i giovani iniziarono ad assumere i connotati di un soggetto sociale ben definito. All’interno di esso, alcuni gruppi marginali presero a vivere la “diversità” come un’esperienza di radicale distacco dal conformismo imperante. Per darsi un’identità, questi gruppi spesso si affidavano a precisi codici vestimentari o culturali.
Ecco, quindi, salire alla ribalta nomi come quelli di Marlon Brando e James Dean, attori che, in film quali “Il selvaggio” (uscito nel 1953 e diretto da László Benedek) e “Gioventù bruciata” (diretto nel 1955 da Nicholas Ray), prestarono i loro volti a personaggi ribelli che ben incarnavano gli ideali e le aspirazioni di molti giovani americani.
Ovviamente, una parte decisiva nello sviluppo di questi nuovi codici comportamentali giovanili la ebbe la musica: una musica che, sembra superfluo rilevarlo, non aveva nulla a che fare con quella, spesso mielosa e priva di mordente, che trasmettevano i grandi network radiofonici e che aveva in nomi quali Patti Page, Perry Como, Doris Day o Eddie Fischer alcuni degli interpreti più famosi. Ai giovani interessava ora scatenarsi. Ecco, quindi, che la musica da ballare diventò per loro una delle maggiori attrazioni, mentre il ballo assunse lo status di forma di espressione primaria, perché incarnava la metaforica liberazione del corpo dai vincoli morali e, soprattutto, da quelli di una sessualità fin troppo bigotta. Così, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, numerosi furono i brani “ballabili”, il più celebre dei quali fu il “Twist” che Chubby Checker portò al successo nel 1960, un successo poi bissato, un anno dopo, da “Let’s Twist Again”.
I giovani di quest’epoca, inoltre, avevano mediamente più soldi in tasca dei loro padri, sentivano la necessità di muoversi oltre i limiti imposti dalla morale corrente e, cosa non meno importante, avevano anche più tempo libero a disposizione. Se ne accorse, forse prima di tutti, il mondo della pubblicità, che prese a guardare il mondo giovanile con occhi sempre più interessati, propagandando un modello edonistico secondo cui lo scopo ultimo di un giovane degno di questo nome non può che essere il piacere puro e semplice. La ricerca del quale, non a caso, cozzava contro quanto, invece, imponevano le istituzioni familiari e scolastiche, decisamente più conservatrici e meno propense ad ascoltare le richieste delle masse giovanili. Mettendo in campo tutte le sue tecniche di persuasione, il mondo della pubblicità fece in modo che si diffondesse all’interno di quelle masse l’idea dello “stile” come elemento fondamentale della comunicazione. Ecco, quindi, che tutti gli oggetti di consumo non potevano essere più equiparati tra di loro, ma assumevano un determinato valore a seconda di quanto si cercava di comunicare attraverso di essi. Il giovane, allora, non avrebbe dovuto più comprare questo o quell’oggetto “a caso”, ma doveva sceglierlo con cura, perché solo grazie ad esso poteva essere in grado di definire o, quantomeno, “confermare” la propria identità, cosa che gli avrebbe consentito, in un secondo momento, di incontrare e comunicare con altri suoi “simili”.
Allo stesso modo, anche la musica doveva essere scelta con accuratezza, perché essa non rappresentava più un semplice passatempo, ma era ormai diventata uno strumento necessario per dare voce a emozioni, desideri e speranze, oltre che un momento fondamentale nella definizione della personalità.
È in questo contesto che, a un certo punto, si sviluppò il cosiddetto «rock’n’roll», un nuovo genere musicale che nasceva dall’incrocio tra il rhythm and blues e il country & western. Con il primo termine, nel 1949 il giornalista Jerry Wexler decise di indicare la musica destinata ai neri afroamericani, quella che, fino ad allora, era stata chiamata con il termine, politicamente poco corretto, di «race music», la “musica della razza” nera. Il rhythm and blues – sviluppatosi nella zona di Chicago in seguito alle migrazioni di numerosi afroamericani provenienti dalle regioni più povere del Sud degli Stati Uniti – traeva linfa vitale anche da suggestioni provenienti dal jazz e dal gospel, caricando le dodici battute del blues di una forte cadenza ritmica, attraversata dai ruggiti di una strumentazione elettrica e spesso accompagnata anche da sassofoni e trombe. I giovani americani “bianchi” si appassionarono ai ritmi scatenati e trascinanti del rhythm and blues, individuando in essi un modo per scaricare energia e sensualità.
Il country & western, invece, era la musica popolare che affondava le sue radici nello stile folk degli Stati Uniti rurali meridionali, riflettendo, inoltre, le influenze della musica tradizionale anglo-scoto-irlandese portata in dote dai numerosissimi immigrati di origine britannica che, nei secoli passati, si erano riversati sulle coste americane alla ricerca di un futuro migliore. La strumentazione base di quello che, comunemente, viene chiamato semplicemente country, era costituita dal banjo (uno strumento a corde – da quattro fino a un massimo di nove – di origine africana), dalla chitarra e dal «fiddle» (il violino di origine popolare), strumenti che avevano sia un ruolo melodico che ritmico, giacché, il più delle volte, i brani venivano suonati senza l’accompagnamento di una sezione ritmica.
Quando, agli inizi degli anni Cinquanta, il country incontrò il boogie-woogie (un tipo di jazz pianistico propulso da ritmi incalzanti e ripetitivi), venne alla luce il rockabilly, il «beat-heavy boogie-bop made by hillbillies1». Si trattava, in ultima istanza, di un altro passo decisivo in direzione di quello che, di lì a poco, si sarebbe chiamato «rock’n’roll», la musica destinata ad incidere profondamente sulla società americana e, quindi, sul mondo intero.
- Con il termine «hillbilly» s’intende, di solito in senso dispregiativo, un abitante delle regioni rurali degli Appalachi del Sud. Il termine potrebbe essere tradotto in italiano con “buzzurro”, “montanaro”, “cafone”.
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