The Beach Boys (Parte 1)

La storia dei Beach Boys, la formazione più importante della saga del surf-rock, nonché una delle più importanti degli anni Sessanta, è legata a doppio filo a quella di Brian Wilson (Inglewood, California; 20 giugno 1942), musicista geniale e psicologicamente fragile che, a un certo punto della sua avventura con i «ragazzi da spiaggia», finì per essere folgorato dalla sperimentazione, costringendo la sua band a seguirlo lungo il crinale di una musica pop sempre più preziosa e barocca.

La nostra storia comincia nel 1961, a Hawthorne, una cittadina del sud della California. È qui che i fratelli Wilsons (Brian, Carl e Dennis) crebbero in una famiglia in cui la musica era una delle cose più importanti. Brian, il maggiore dei tre, alla fine degli anni Cinquanta era già in grado di arrangiare armonie vocali per quattro o cinque voci. A influenzarlo profondamente erano stati i Four Freshmen, un quartetto vocale di Indianapolis. Di solito, dopo aver messo sul piatto un loro disco, Brian si sedeva in religioso silenzio ad ascoltare, cercando, poi, di riprodurre al pianoforte l’essenza delle intersezioni delle voci dei quattro membri della band: Don Barbour, Ross Barbour, Bob Flanigan e Ken Errair. In quel modo, Brian finì per assorbire ogni singola nota ascoltata, sviluppando, al contempo, una profonda conoscenza dell’alchimia che era alla base di quelle bellissime armonie vocali. Provando a cantare su quei dischi, Brian definì, inoltre, anche il suo tipico falsetto, che tanta parte avrebbe avuto, un giorno, nell’economia del suono dei Beach Boys. Il maggiore dei fratelli Wilson si prese, quindi, la briga di insegnare ai suoi due fratelli le tecniche per armonizzare le voci. Col tempo, al terzetto si accodarono il talentuoso cugino Mike Love e l’amico comune Al Jardine: nacquero, così, i Pendletones. L’unico appassionato e praticante di surf era Dennis, che usò tutta la sua diplomazia per convincere gli altri a dedicarsi alla musica che Dick Dale aveva inventato per celebrare la magia di quello sport. I cinque iniziarono a farsi le ossa nei locali della zona, presentando un sound fresco e sbarazzino, il cui unico scopo era quello di far divertire il pubblico. Murry Wilson, cantautore per diletto e padre dei tre fratelli, era nel frattempo diventato il manager della band e, facendo leva sulle sue conoscenze, riuscì a organizzare un’audizione presso il produttore Hite Morgan. Le cose andarono per il verso giusto e così, nell’autunno del 1961, la band, firmato un contratto con la Candix Records, incise il suo primo singolo, “Surfin’” / “Luau”, mettendo in mostra il suo mix di solarità surf-rock e armonie vocali influenzate dal doo-wop. Il singolo andò benissimo nella classifica locale (salì fino al secondo posto), un po’ meno in quella nazionale (solo settantacinquesimo), ma diede comunque fiducia alla band, il cui nome, data l’insistenza dei capoccia della Candix, era stato cambiato in un più chiaro e diretto «Beach Boys». Con il successivo “Surfin’ Safari” / “409” (1962), la band rese omaggio anche a un’altra delle grandi passioni dei giovani californiani: le macchine da corsa. Così, i tempi divennero maturi per pensare a un vero e proprio album, che vide la luce nell’ottobre del 1962: si chiamava Surfin’ Safari e portava, impresso sulla copertina, il marchio della Capitol Records. A quel punto, la band si era così assestata: Brian Wilson (basso, voce, tastiere), Carl Wilson (chitarra elettrica, voce), Dennis Wilson (batteria, voce), Mike Love (voce solista) e David Marks (sostituto di Al Jardine) a chitarra ritmica, armonica e voce. Aperto dal loro più recente successo (registrato ex-novo, come la stessa “Surfin’”), Surfin’ Safari è un disco che cerca di ripetere ad oltranza l’effetto di festa infinita del brano guida, declinandolo con l’aggiunta di vocine gigionesche (“Cuckoo Clock”), il richiamo sensuale di qualche discinta fanciulla (“Country Fair”), oppure abbellendolo con piccoli, cristallini assoli di chitarra (“Ten Little Indians”, “Chug-A-Lug”). Solo la cover di “Summertime Blues” di Eddie Cochran lascia filtrare qualche barlume d’inquietudine. Il risultato è un’opera poco valida, in cui la sensazione più netta è quella di ascoltare più o meno sempre la stessa canzone.

All’inizio del 1963, Brian Wilson scrisse “Surfin’ USA”, un brano che associava liriche ispirate al mondo del surf a una musica che riprendeva quella di “Little Sweet Sixteen” di Chuck Berry. Uscito nel marzo successivo (con “Shut Down” sul lato B), “Surfin’ USA” divenne la prima hit nazionale dei Beach Boys, raggiungendo la terza posizione nella classifica di Billboard. L’onda di quel successo accompagnò, pochi giorni dopo, la pubblicazione del loro secondo disco, ovviamente chiamato Surfin’ USA. Diversamente da quanto accaduto sul precedente, in questo nuovo lavoro compaiono anche alcuni strumentali, i migliori dei quali, però, appartengono al repertorio di Dick Dale: “Misirlou” e “Let’s Go Trippin'”. Quanto al resto, le tenere ballate di “Lana” e “Farmer’s Daughter” (incentrata sulle fantasie sessuali degli adolescenti) e quella, introspettiva, di “Lonely Sea” mostrano che la band (sempre più incline a seguire le direttive di Brian), si stava incamminando, anche se ancora con una certa timidezza, verso soluzioni inedite. In fase di produzione, il maggiore dei fratelli Wilson aveva anche iniziato a pretendere che le armonie vocali fossero sovraincise almeno due volte, per conferire loro più profondità e brillantezza. Esemplare, in tale senso, è “Finders Keepers” che, non a caso, s’impone anche come uno dei migliori risultati di Surfin’ USA .

In poco più di due anni, tra il settembre del 1963 e il novembre del 1965, i Beach Boys, stuzzicati da una vena creativa che sembrava inesauribile, ma anche spinti dalle richieste dei discografici, che cercavano di capitalizzare quanto più possibile il loro investimento, pubblicarono la bellezza di otto album! Il primo della serie (il terzo in assoluto) fu Surfer Girl (settembre 1963), anticipato dall’omonimo singolo, una ballata romantica che Brian aveva scritto in onore del suo primo grande amore, Judy Bowles, prendendo come modello musicale la versione che Dion and the Belmonts avevano fatto di “When You Wish Upon a Star”, uno dei brani inseriti nella colonna sonora del film Pinocchio, edito dalla Walt Disney nel 1940. Il disco è anche il primo interamente prodotto da Brian, che ebbe così modo di continuare a sviluppare le sue idee intorno alla registrazione delle voci e della musica, variando gli accordi durante lo sviluppo dei brani (“Your Summer Dream”, dall’atmosfera insieme sognante ed enigmatica), aggiungendo qua e là qualche tocco di archi (“The Surfer Moon”) o proponendo arrangiamenti più inusuali, come quello di “South Bay Surfer” (caratterizzato da un sound percussivo) e dello strumentale “The Rocking Surfer” (dal piglio rock’n’roll, con coloriture melodiche di tastiere). E, mentre la coppia di brani “Little Deuce Coupe” / “Our Car Club” sazia gli amanti delle cosiddette «car songs», l’uptempo di “Catch A Wave” invita anche a ballare. Tra i brani più evocativi, da ricordare invece “In My Room”, in cui la “stanza” evocata dal titolo nient’altro è che un simbolo di un’interiorità da scoprire e custodire, lontano da ogni disimpegno e da tutte i beach-party californiani.

Nemmeno un mese dopo, nei negozi di dischi era già possibile acquistare Little Deuce Coupe (con Al Jardine di nuovo in formazione), disco costruito intorno all’idea delle car songs. Vi trovarono posto quattro brani già pubblicati in precedenza (la title-track, “Shut Down”, “409” e “Our Car Club”), più una manciata di inediti la cui qualità è a dir poco altalenante.

Uscito di scena David Marks (pare per incomprensioni con il manager Murry Wilson), i Beach Boys veleggiarono senza battere ciglio verso la registrazione e la pubblicazione del loro disco numero cinque, Shut Down Volume 2 (marzo 1964), il cui titolo ripescava quello di una compilation che la Capitol aveva un anno prima dedicato alle hot rod, le auto da corsa modificate. Aperto dal clima di festa di “Fun, Fun, Fun” il cui riff iniziale è apertamente ispirato a quello di “Johnny B. Goode” di Chuck Berry, il disco riprende il discorso delle sperimentazioni musicali e vocali con la ballata di ”Don’t Worry Baby”, in parte ispirata a “Be My Baby” delle Ronettes, un brano che nel 1963 aveva rivelato le meraviglie del wall of sound1 di Phil Spector. Sulla stessa falsariga si muovono anche “The Warmth Of The Sun” (scritta da Brian Wilson e Mike Love il 22 novembre del 1963, lo stesso giorno dell’assassinio di John F. Kennedy) e “Keep an Eye on Summer”. Una citazione la meritano anche la filigrana hony-tonk di “This Car of Mine”, la deliziosa cover di “Why Do Fools Fall in Love?” (brano del 1956 di Frankie Lymon & The Teenagers) e l’esordio alla voce solista di Carl Wilson su “Pom, Pom Play Girl”. Ci sono, infine, due brani che possono tranquillamente essere derubricati alla voce “riempitivi”: “Denny’s Drums” (interamente costruito intorno a un assolo di batteria di Dennis) e “Cassius” Love vs. “Sonny” Wilson”, in cui Mike e Brian (novelli Cassius Clay e Sonny Liston) si sfidano a suon di metaforici pugni, tirando in ballo i rispettivi stili vocali.

Nel frattempo, l’avvento, in territorio americano, della Beatlemania e della British Invasion causò una diminuzione anche delle vendite dei dischi dei Beach Boys. Tuttavia, il loro nuovo lavoro, All Summer Long, pubblicato nel luglio di quello stesso anno, riuscì ad arrampicarsi fino al quarto posto della classifica nazionale. Ultimo loro disco a essere influenzato dalla cultura surf californiana, All Summer Long apre con uno dei brani più celebri e importanti del loro catalogo, “I Get Around”, un piccolo congegno di pop evoluto che, oltre a testimoniare la crescita esponenziale della band nel maneggiare le armonie vocali (qui costruite intorno allo svettare iperbolico del falsetto di Brian), evidenziava anche l’abilità di quest’ultimo nell’utilizzare lo studio di registrazione come un vero e proprio strumento. Non da meno sono quella nostalgica ricognizione di un’estate indimenticabile che si ascolta nella title-track (accompagnata da uno xilofono claudicante e colorata con guizzi di sax e flauto) e il doo-wop etereo di “Hushabye” (l’unica cover del disco, proveniente dal repertorio dei Mystics), mentre le trame percussive di “Little Honda” e quelle dinamiche di “Do You Remember” pagano pegno, rispettivamente, alla stagione del surf-rock e a quella del rock’n’roll. L’uptempo di “Wendy” e il lento, avvolgente incedere di “Girls on the Beach” costituiscono, invece, il nucleo più nostalgico del miglior disco dei Beach Boys fino a quel momento. A consolidare la loro fama presso il pubblico giovanile arrivarono, tra l’ottobre e il novembre di quell’anno, il live Beach Boys Concert e il superfluo Christmas Album.

Intanto, nella mente di Brian qualcosa si stava agitando. La fama raggiunta e la continua tensione verso un sound sempre più sofisticato finirono per incidere profondamente sulla sua psiche. Il momento di rottura si registrò durante gli ultimi giorni del dicembre 1965: la band era in tour e stava volando da Los Angeles a Houston quando, all’improvviso, un attacco di panico lo colpì violentemente. La misura era colma. Brian (che nel frattempo aveva anche scoperto di essere parzialmente sordo all’orecchio destro) decise di abbandonare il tour e la band, per onorare gli impegni già presi, fu costretta a sostituirlo momentaneamente con Glen Campbell. Alcuni giorni dopo, Brian convocò gli altri membri della band e comunicò loro che, da quel preciso momento, la sua unica preoccupazione sarebbe stata quella di concentrarsi sulla composizione e sul lavoro in studio. La band cercò di opporsi, ma tutto ciò che potè fare fu ingaggiare in pianta stabile Bruce Johnston per sostituirlo nelle esibizioni dal vivo.

Cercando di alleviare lo stress, ma anche per tentare la sua musa, Brian iniziò a fumare marijuana. Prese, quindi, a lavorare spasmodicamente alla realizzazione di The Beach Boys Today!, disco che fu pubblicato nel marzo del 1965. Abbandonati i temi legati all’universo del surf, agli amori giovanili e alle auto veloci, il nuovo lavoro mostrò un’ulteriore maturazione a livello di arrangiamenti, cosa che richiese, in fase di registrazione, l’intervento di una trentina di session-man (!), molti dei quali componevano la cosiddetta Wrecking Crew, utilizzata per le sue produzioni dall’amato Phil Spector. Per la prima volta, inoltre, in fase di produzione Brian focalizzò la sua attenzione sul suono di ogni singolo strumento, in seguito costruendo il “muro del suono” come un vero e proprio mosaico. Anche a livello di testi il cambio di rotta fu eclatante: in essi Brian si concentrò sulla meraviglia che solo l’amore adolescenziale è in grado di farci provare, portando allo scoperto, di rimando, molte delle sue inquietudini e delle sue fragilità. La scrittura in prima persona è la spia più evidente di questo cambio di rotta: adesso, ciò che egli scrive è, niente più, niente meno, che la trasfigurazione poetica di quel magma di sensazioni e di emozioni che s’agitava in fondo alla sua anima. La prima parte di The Beach Boys Today! è costituita da brani ritmati molto accattivanti e ovviamente conditi con quelle armonie vocali che, sempre più complesse, costituivano ormai uno dei tratti più caratteristici della loro musica. “Do You Wanna Dance” (brano di Bobby Freeman del 1958, qui trattato secondo i dettami dello spectoriano wall of sound), “Good To My Baby” (il titolo riecheggia, certamente non a caso, il successo delle Ronettes), “Don’t Hurt My Little Sister”, “When I Grow Up (To Be a Man)” (altro esempio di brano uptempo dai toni malinconici), “Dance, Dance, Dance” e la prima versione, con variazione di volume nel finale, di “Help Me, Ronda” (fortemente influenzata da quella “Fanny Mae” del bluesman Buster Brown che anche Dick Dale aveva reinterpretato) fotografano, insomma, i Beach Boys alle prese con il sound più sbarazzino delle loro origini, ma ormai trasformato da Brian in qualcosa di completamente nuovo, in cui le sfumature, le stratificazioni e la scelta della strumentazione hanno un significato preciso: spingere il pop verso dimensioni sempre più ambiziose.

Sul vinile, il lato B (i cui brani furono interamente scritti e arrangiati da Brian sotto l’effetto dell’LSD) si apriva con “Please Let Me Wonder”, proseguendo, quindi, nel solco di ballate atmosferiche in cui si riconoscono più marcati accenti doo-wop (“I’m So Young”, da un singolo del 1958 degli Students) o in cui l’afflato romantico è, più o meno, rimarcato da una tensione estatica (“Kiss Me Baby”, “She Knows Me Too Well”). L’orchestrazione in punta di piedi (con uso vagamente psichedelico degli archi) di “In The Back of My Mind” è perfetta, invece, per guidarci nelle stanze più intime di Brian. La traccia più debole (del tutto inutile, a dirla tutta) è “Bull Session with ‘Big Daddy'”, nient’altro che una porzione di un’intervista che i membri della band avevano recentemente concesso al giornalista Earl Leaf.

Le vendite di The Beach Boys Today! non soddisfecero la Capitol, che fece pressioni su Brian affinché realizzasse un disco più commerciale, magari con un maggior numero di hit. A malincuore, Brian accettò e il risultato fu Summer Days (And Summer Nights!!) (luglio 1965), lavoro che, in termini artistici, fece segnare almeno un passo indietro rispetto al suo predecessore, per quanto la strumentazione messa in campo fosse ancora ragguardevole. Così, la maggior parte dei brani che riempiono questi solchi non fa altro che ancorarsi a un’idea di pop-rock solo appena sfiorato dal gusto per l’eccentrico e contraddistinto da armonie vocali non così affascinanti (“The Girl from New York City”, “Amusement Parks U.S.A.”, “Girl Don’t Tell Me”, “You’re So Good to Me”), fatta salva la sola “California Girls”, gioiosa ballata dedicata alle ragazze californiane che Brian scrisse dopo la sua prima esperienza con le droghe psichedeliche, immediatamente riconoscendovi la sua miglior produzione fino a quel momento. La nuova versione di “Help Me Rhonda” (che qui guadagna una “h”) è probabilmente migliore di quella apparsa su The Beach Boys Today!, forte di un sound più rotondo e privo della coda, invero poco convincente, giocata sulle variazioni di volume. Dal canto suo, “Let Him Run Wild” è una delle più interessanti prefigurazioni del trionfo sonoro di Pet Sounds. E se lo strumentale di “Summer Means New Love” ripesca lo spirito del surf-rock per rigurgitarlo in modalità easy-listening, la rilettura di “Then I Kissed Her” dei Crystals getta ancora fiori ai piedi di Phil Spector.

Facendo ancora seguito alle pressioni della Capitol, che a questo giro richiedeva un disco da immettere sul mercato in tempo per Natale, la band approntò Beach Boys’Party! (novembre 1965), uno dei momenti più bassi della loro discografia. Registrato dal vivo in studio, il disco raccoglieva per lo più riletture di brani altrui (tra cui quelle di “I Should Have Known Better”, “Tell Me Why” e “You’ve Got to Hide Your Love Away” dei Beatles e quella di “The Times They Are a-Changin'” di Bob Dylan), infarciti di chiacchiere estemporanee, di risate e quant’altro per dare la sensazione di stare ascoltando proprio la registrazione, catturata in diretta, di un party. L’unica vera perla è “Barbara Ann”, brano del 1961 dei Regents che i Beach Boys trasformano in uno dei momenti più divertenti e contagiosi di tutta la storia del pop.

Pochi giorni dopo la pubblicazione di Beach Boys’Party!, venne pubblicato il singolo inedito “The Little Girl I Once Knew”: si trattava di un ritorno alla forma migliore, a dimostrazione del fatto che il “party album” era stato solo un incidente di percorso.

A quell’altezza (novembre 1965), Brian stava già lavorando a Pet Sounds, disco che doveva rappresentare, nelle sue intenzioni, il compimento della ricerca sonora iniziata con The Beach Boys Today! A spingerlo verso soluzioni sempre più ardite fu l’ascolto di Rubber Soul, che i Beatles avevano rilasciato nel dicembre del 1965. Il sesto album dei quattro di Liverpool lo mise alle corde, perché in esso Brian vide qualcosa di più che una semplice raccolta di canzoni: vide un lavoro artisticamente coerente, privo di riempitivi. Fu così che Brian annunciò a tutti che avrebbe realizzato il «più grande disco mai fatto». Per raggiungere lo scopo, avrebbe ovviamente continuato a percorrere la strada indicatagli da Phil Spector e dal suo wall of sound, una tecnica che egli aveva appreso anche grazie alla frequentazione degli studi nei quali il produttore newyorkese andava registrando, di volta in volta, i brani dei suoi assistiti. Brian divenne un discepolo così devoto che, come avrebbe dichiarato alcuni anni dopo, per lui i Beach Boys si erano ormai trasformati nei «messaggeri» di Spector.

Per mesi, dunque, lavorò come un matto nello studio di registrazione, componendo, arrangiando e producendo il materiale destinato al nuovo disco, che in pratica fu un lavoro solista di Brian Wilson più che l’ennesimo parto dei Beach Boys. Gli altri membri della band si limitarono, infatti, a fornire le registrazioni delle loro voci, in modo che Brian potesse lavorarle, stratificarle e, quindi, amalgamarle, al pari di un vero e proprio strumento, al resto del wall of sound, in cui, lentamente, egli andava anche posizionando percussioni di ogni tipo, fisarmoniche, bassi, chitarre, pianoforti, archi, ottoni, campanelli per bicicletta e finanche un Tannerin, uno strumento approntato verso la fine degli anni Cinquanta dal trombonista Paul Tanner e dall’inventore Bob Whitsell, in modo da riprodurre il suono del theremin2.

Uscito nel maggio del 1966, Pet Sounds (titolo che Brian scelse dopo aver ascoltato un commento negativo di Mike Love sulle sue nuove canzoni, una roba tipo: «Chi vuoi che ascolterà questa merda? Le orecchie di un cane?»3) è un concept-album incentrato sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, un tema articolato in tredici brani i cui testi Brian affidò al paroliere Tony Asher, che lo aiutò a tradurre in un linguaggio poetico più rifinito quei sentimenti confusi che da qualche tempo lo perseguitavano.

Introdotto da un piccolo fraseggio di chitarre che suonano come arpe, il primo brano del disco, “Wouldn’t It Be Nice”, s’impone come uno snodo tra il disimpegno degli esordi e la complessità del nuovo corso, procedendo, con piglio sinfonico, tra chiassose sarabande e oasi di nostalgico stupore. Tutto, comunque, nel complesso suona carico di giubilante ottimismo, come è giusto che sia all’inizio di ogni viaggio che si rispetti. A una ninna-nanna rinascimentale assomiglia, invece, “You Still Believe In Me”, mentre “That’s Not Me” ha un afflato devozionale e porta con sé i dubbi e i dolori che accompagnano sia la scoperta della propria identità che la ricerca della propria indipendenza. La love ballad di “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)” assume, invece, un tono austero, avanzando con solennità regale tra la voce che si riflette nella sua eco e gli archi che mimano il vibrante mistero di un amore che non ha bisogno di parole. Dal canto suo, “I’m Waiting for the Day” alterna invece brevi momenti di riflessiva introspezione ad altri dominati dal vigore delle percussioni. Preceduto dai toni meditativi dello strumentale “Let’s Go Away for Awhile” (in cui archi e sassofoni sembrano seguire il flusso irregolare di un’intima mareggiata), il mulinello di chitarre celestiali (quasi in orbita Byrds) e il passo bandistico di “Sloop John B” (un vecchio brano tradizionale delle Bahamas che Carl Sandburg aveva messo su disco, per la prima volta, nel 1927 con il titolo di “The John B. Sails”) ci accompagnano verso la fine del lato A con un misto di grazia festante e soffocata inquietudine. Il viaggio verso la maturità è a una svolta, ma il refrain “let me go home, I wanna go home” (“lasciami tornare a casa, voglio andare a casa”) mostra che i dubbi e le paure sopravvivono ancora nell’ombra, perché qui, a conti fatti, la “casa” null’altro è che il simbolo di una giovinezza ormai perduta per sempre.

Si riparte, dunque, con uno dei brani più belli scritti da Brian: “God Only Knows”, guidata dai corni francesi e impreziosita da un refrain che assomiglia a una preghiera affidata agli angeli. Brian non è capace di spiegare il suo amore per l’amata: solo Dio sa cosa egli sarebbe senza di lei.

If you should ever leave me
My life would still go on believe me
The world could show nothing to me
So what good would living do me
God only knows what I’d be without you

Se un giorno deciderai di lasciarmi
La mia vita, credimi, continuerà comunque
Il mondo non avrebbe nulla da mostrarmi
Perciò che senso avrebbe vivere?
Dio solo sa cosa sarei senza te

La stesura di “I Know There’s An Answer” risaliva a un periodo antecedente la prima idea del disco. Brian la scrisse dopo l’ennesima esperienza con l’acido lisergico. Musicalmente, il brano presenta ancora un arrangiamento molto particolare, costruito amalgamando sassofoni, flauti, un organo, un banjo, un’armonica (il cui suono, durante l’assolo, assomiglia molto a quello di un kazoo4) e finanche un pianoforte preparato. Nel viaggio che tutti affrontano dall’adolescenza alla maturità, la risposta da cercare è racchiusa nella propria interiorità: questo il messaggio del brano.

“Here Today” ruota, invece, intorno al tema dell’amore messo a dura prova dal tempo, bagnandosi nelle acque del pessimismo e della disillusione (sensazioni che il rude borbottio del trombone mima efficacemente). Il disincanto di Brian è ancora più evidente in “I Just Wasn’t Made for These Times”, un brano in cui egli dichiara, fin dal titolo, di sentirsi fuori dal suo tempo. Si tratta di una condizione che lo rattrista molto, anche perché, ogni volta che avverte su di sé la luce dell’ispirazione per cambiare le cose, le persone che lo circondano non sono in grado di aiutarlo.

L’altro momento strumentale del disco è quello della title-track, il cui feeling esotico e tribale è rinvigorito dal suono dei bonghi e delle lattine di Coca-Cola percosse dal batterista Ritchie Frost su esplicita richiesta di Brian.

Il compimento del viaggio è perfettamente esemplificato dalla malinconica ballata di “Caroline No”: la giovinezza è passata e con essa anche la donna amata. Non è più possibile riportarle in vita. Al massimo, si possono trattenere sul bagnasciuga della memoria.

Could I ever find in you again
The things that made me love you so much then
Could we ever bring ‘em back once they have gone
Oh, Caroline no

Potrò mai ritrovare in te
Quelle cose di cui mi sono innamorato allora
Le potremmo riportare una volta che se ne sono andate
Oh, Caroline no

Per la musica pop americana (e non solo), Pet Sounds rappresentò un momento cruciale, un punto di svolta in direzione di sonorità consapevolmente sperimentali ed elegantemente colte. Per molti addetti ai lavori, il disco non solo fece guadagnare alla pop-music un posto tra i ranghi delle espressioni creative più importanti cui l’uomo può affidare le proprie idee ed emozioni, ma contribuì anche a diffondere il verbo della musica psichedelica (che proprio in quel 1966 stava iniziando a muovere i suoi primi, consapevoli passi) e ad anticipare la tendenza “barocca” di quella “progressiva” (non a caso, nel suo lancio in Inghilterra, il disco fu presentato come «the most progressive pop album ever!»). I “rivali” Beatles presero nota e ascoltarono il disco mentre erano alle prese con gli ultimi ritocchi da dare a Revolver, in uscita nei primi giorni di agosto, nemmeno due mesi dopo il lancio di Pet Sounds. La ricerca del Sacro Graal del Pop era nel pieno dei suoi sviluppi e Brian, una volta ascoltato il nuovo disco dei Fab Four, volle subito replicare, mostrando di essere ancora un passo avanti. Nell’ottobre di quel denso 1966 i Beach Boys pubblicarono, quindi, “Good Vibrations” (liriche di Mike Love; oltre un milione di copie vendute), destinato a diventare uno dei singoli più grandi e rivoluzionari della storia della popular music. Assemblando vari frammenti musicali nati in situazioni diverse, Brian (che lavorò al brano per mesi e mesi, registrando in totale oltre novanta ore di nastro magnetico – per venti versioni differenti del brano! – e facendo spendere in tutto alla benemerita Capitol la cifra, per l’epoca esorbitante, di 75mila dollari!) cesellò una gemma di pop psichedelico ispirata sia dall’assunzione di LSD che da un impellente bisogno di scrivere “musica spirituale”. Come ebbe a dire lo stesso autore, quel brano rappresentò la sintesi della sua visione musicale, «un’armonica convergenza di immaginazione e talento, qualità di produzione e artigianato, songwriting e spiritualità.»

I Beatles accusarono il colpo e iniziarono a pensare a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Brian, però, non aveva certo intenzione di starsene con le mani in mano. Anzi: a quell’epoca, nella sua testa andava già materializzandosi una serie di brani in cui il pop barocco di Pet Sounds lasciava campo libero a qualcosa di davvero avanguardistico.

Note:

  1. Letteralmente «muro del suono», uno sfondo sonoro ottenuto aggiungendo, alla classica strumentazione fatta di chitarre, basso e batteria, strumenti quali ottoni, archi, percussioni varie, etc.
  2. Strumento musicale elettronico la cui caratteristica principale è quella di poter essere suonato senza essere toccato; è costituito da una cassa, al cui interno sono custoditi i componenti elettronici, e da due antenne di metallo poste sopra di essa, delle quali una controlla l’altezza del suono e l’altra la sua ampiezza: l’utilizzatore agisce con le mani sulle onde prodotte dalle antenne, producendo suoni diversi (che variano dal timbro vocale a quello di un violino) a seconda del movimento realizzato. (treccani.it)
  3. In inglese, il termine «pet» sta a indicare un «animale domestico».
  4. Strumento musicale a fiato di origine africana consistente in un piccolo tubo di metallo o di canna fornito di una membrana che entra in vibrazione quando il suonatore emette dei suoni dentro l’imboccatura. (treccani.it)
Discografia Consigliata

All Summer Long (1964)
The Beach Boys Today! (1965)
Pet Sounds (1966)

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