The Beatles (Parte 2)

Poco dopo aver pubblicato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, i Beatles confermarono lo status di stelle di prima grandezza della scena musicale partecipando, il 25 giugno del 1967, ad Our World, prima trasmissione televisiva a essere trasmessa in mondovisione grazie al satellite. Dinanzi a quasi quattrocento milioni di telespettatori, i Fab Four presentarono una canzone nuova di zecca, “All You Need Is Love”, un innocuo inno corale incentrato sul tema dell’amore universale, così caro a molta della controcultura dell’epoca. Appena un paio di mesi dopo, però, il momento di grazia venne tragicamente interrotto a causa della morte del loro manager Brian Epstein, a seguito di un’assunzione sconsiderata di psicofarmaci. Quasi a voler reagire con forza a quella tremenda notizia, i Beatles, su insistenza di McCartney, si misero a lavorare a un nuovo film, Magical Mystery Tour, basato sulle vicende surreali di un gruppo di personaggi che viaggia attraverso l’Inghilterra meridionale a bordo di un autobus. Il film (diretto dagli stessi Beatles e da Bernard Knowles) era stato ispirato dal viaggio compiuto nel 1964, a bordo di un autobus coloratissimo, dallo scrittore Ken Kesey (l’autore del bestseller One Flew Over the Cuckoo’s Nest, che in Italia avremmo imparato a conoscere con il titolo di Qualcuno volò sul nido del cuculo) e da un gruppo di suoi amici che si erano denominati Merry Pranksters. Partiti dalla California, Kesey e i suoi «Allegri Burloni» avevano attraversato gli Stati Uniti fino a New York, prima di fare ritorno alla base. Il loro scopo era quello di diffondere il verbo liberatorio e rivelatorio delle droghe lisergiche.

Anche se la pellicola di Magical Mystery Tour si tradusse in un fiasco commerciale – cosa a cui i Beatles non erano per niente abituati -, l’omonima colonna sonora è, a detta di alcuni appassionati (tra cui il sottoscritto), un’opera musicalmente più intrigante del disco del Sergente Pepe, grazie ad almeno cinque-sei brani che sono da annoverare tra le vette del canzoniere beatlesiano.

Magical Mystery Tour, il disco, uscì inizialmente come LP il 27 novembre 1967 negli Stati Uniti, mentre in Inghilterra fu distribuito una decina di giorni dopo come doppio EP contenente solo sei brani, quelli che effettivamente erano stati utilizzati nel film. Poco alla volta, però, l’edizione americana finì per diventare quella più accreditata, anche in ragione di una scaletta più corposa (undici brani in tutto).

Aperto dall’atmosfera chiassosa della title-track, Magical Mystery Tour ha nel recupero delle superbe “Strawberry Fields Forever” e “Penny Lane” (uscite a ridosso di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band solo su singolo) il suo più grande merito, ma tra le sue vette non vanno dimenticate le ambientazioni svagate ed eteree di “The Fool On The Hill”, il blues sonnolento dello strumentale “Flying” (inizialmente intitolato “Aerial Tour Instrumental”), una “Blue Jay Way” in cui Lennon trasfigurò le sue sensazioni legate al jet-lag armeggiando con ADT, phasing e nastri mandati al rovescio e, soprattutto, “I Am The Walrus”, in cui lo stesso Lennon, diede spazio alle sue visioni in acido e alla sua passione per l’universo letterario di Lewis Carroll, quello, per intenderci, di Alice nel paese delle meraviglie. Sorpreso dal fatto che presso la Quarry Bank High School di Liverpool, la scuola che aveva frequentato da adolescente, i testi delle canzoni dei Beatles erano letti e interpretati come vere e proprie poesie, Lennon si divertì a riempire il testo di “I Am The Walrus” di giochi di parole e nonsense, in pratica mettendo in atto un vero e proprio sabotaggio della boriosa prosopopea con cui i docenti della sua vecchia scuola affrontavano le parole delle sue canzoni…

I am he as you are he as you are me
And we are all together
See how they run like pigs from a gun
See how they fly
I’m crying

Sitting on a corn flake
Waiting for the van to come
Corporation T-shirt, stupid bloody Tuesday
Man you’ve been a naughty boy
You let your face grow long

I am the egg man
They are the egg men
I am the walrus
Goo goo g’joob

Sono lui come tu sei lui come tu sei me
e noi siamo tutti insieme
Guarda corrono come maiali da una pistola
vedi come volano
sto piangendo

Seduto su un fiocco di grano duro
aspettando che venga il furgone
La maglietta della Corporation, stupido fottuto Martedì
Uomo, sei stato un bambino cattivo
hai lasciato crescere il tuo viso

Io sono l’uomo delle uova
Loro sono gli uomini delle uova
Io sono il tricheco
“goo goo g’joob”

Un gradino più sotto, si attestano invece le spezie vaudeville di “Your Mother Should Know”, l’accattivante e solare “Hello Goodbye”, la marcetta sbuffante di “Baby You’re A Rich Man” (lavorata al banco del mix con più compressione del dovuto, in modo da conferirle un groove più marcato) e il ripescaggio di “All You Need Is Love”.

All’inizio del 1968, dando seguito ad alcuni precedenti approcci con la Meditazione Trascendentale, i Beatles partirono per l’India dove soggiornarono presso l’ashram del guru Maharishi Mahesh Yogi. A marzo uscì, dunque, il singolo “Lady Madonna” / “The Inner Light”: il primo, un brano di matrice boogie-woogie, il secondo, un esercizio di introspezione indianeggiante che Harrison aveva composto in India insieme a musicisti locali, gli stessi con i quali stava già lavorando al suo esordio da solista Wonderwall Music, colonna sonora del film Onyricon di Joe Massot.

Tornati delusi dall’India, i Beatles ripresero la loro avventura artistica. Nel luglio del 1968 fu distribuito il film d’animazione Yellow Submarine (regia di George Dunning), incentrato sull’invasione, da parte dei Biechi Blu (i cattivi di turno, odiatori della bellezza, dei fiori e della musica), di Pepelandia, un paese felice i cui abitanti finiscono per essere pietrificati. Si salva solo uno di loro, il capitano Fred. Costui, imbarcatosi con un sottomarino giallo, parte alla volta di Liverpool per chiedere aiuto ai Beatles, i quali riescono a liberare Pepelandia utilizzando l’unica arma che conoscono: la propria musica.

L’omonima colonna sonora di Yellow Submarine fu messa sul mercato il 13 gennaio del 1969, quando i Beatles avevano già pubblicato il cosiddetto White Album. È certamente la title-track (già uscita su Revolver) il momento più famoso di quei solchi. Musicalmente parlando, però, i momenti migliori del disco sono altrove e, per la precisione, nell’indolenza stratificata di “Only A Northern Song” (maldestramente scartata ai tempi di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band) e nell’incedere, insieme pomposo e robusto, di “It’s All To Much”. Prescindibili, invece, sono la pur spassosa “All Together Now”, la rockeggiante “Hey Bulldog” e l’ennesimo ripescaggio di “All You Need Is Love”. Una serie di partiture orchestrali scritte e arrangiate da George Martin finirono, invece, sul lato B, incapaci di schiodare il disco da una stentata sufficienza.

Anticipato dal singolo “Hey Jude” / “Revolution” (una tenera ballata e un incrocio di baldanza rock’n’roll e sonorità proto-hard), il 22 novembre del 1968 venne pubblicato The Beatles, un doppio album la cui copertina interamente bianca lo farà passare alla storia con il nome di White Album. È il disco di una band spossata, lacerata da conflitti interni e da progetti artistici sempre più diversi. A differenza di Revolver o di Sgt. Pepper, questo doppio è il disco di una band i cui membri ormai vanno, musicalmente parlando, in direzioni diverse. A dominare, quindi, è una certa anarchia. Un’anarchia che, se in certi momenti riesce a essere anche molto creativa, in altri fa sentire forte e chiaro tutto il suo peso.

Aperto dalle reminiscenze rock’n’roll di “Back In U.S.S.R.”, il White Album si abbandona alle luccicanze arpeggiate di “Dear Prudence”, cui fanno seguito gli accenti psichedelici e i bagliori orchestrali di “Glass Onion”, la cantilenante banalità di “Ob-La-Di Ob-La-Da” e le storture nonsense di “Wild Honey Pie”. L’affresco del primo disco si compie, quindi, con numeri corali e stravaganti (“The Continuing Story Of Bungalow Bill”), poderose ballate in bilico tra rock, psych-folk e blues (“While My Guitar Gently Weeps”, con assolo di Eric Clapton e un McCartney più aggressivo del solito al basso), suite in sedicesimo (“Happiness Is A Warm Gun”), nuove rivisitazioni del vaudeville, con tanto di ottoni a borbottare in primo piano (“Martha My Dear”), crescendo irrequieti “(I’m So Tired”), bozzetti folk-pop pieni di candore (“Blackbird”, “I Will”), grottesche tirate satiriche conto la società benpensante (“Piggies”), umori western (“Rocky Raccoon”) e retaggi country (“Don’t Pass Me By”). E se in “Why Don’t We Do It In The Road?” McCartney immagina Little Richard alle prese con il gospel, nella tenebrosa ballata folk di “Julia”, Lennon si mette invece a nudo, ricordando la madre prematuramente scomparsa nel 1958 in un incidente stradale.

Con il rock’n’roll pulsante di “Birthday”, si entra, invece, nel secondo disco, i cui momenti migliori sono da rintracciare nella vibrante “Yer Blues”, nel tenero folk bucolico di “Mother Nature’s Son”, nella chiassosa “Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey”, nelle torride sonorità hard’n’heavy di “Helter Skelter” e nella versione lenta del singolo “Revolution” (qui intitolata “Revolution 1”). Tra alti e bassi, sfilano, quindi “Sexie Sadie” (con cui Lennon sfogava la sua delusione relativamente alla figura del Maharishi Mahesh Yogi), “Long, Long, Long” (trasognato esercizio folk di Harrison alle prese con i fantasmi di “Sad Eyed Lady of the Lowlands” di Bob Dylan), “Honey Pie” (ennesima ricognizione di McCartney nei territori del vaudeville), “Savoy Truffle” (uno shuffle in orbita soul), “Cry Baby Cry” (un folk-rock psichedelico vagamente sinistro) e la ninnananna cullata dall’orchestra di “Good Night”.

Una menzione a parte merita “Revolution 9”, oltre otto minuti di collage sonoro (il brano più lungo mai apparso su un disco dei Beatles). Fu messo a punto da Lennon insieme alla sua nuova compagna, l’artista giapponese Yōko Ono. Potrebbe essere il brano più sperimentale del catalogo Beatles o quello più autoindulgente. Anzi, è sia l’uno che l’altro.

A proposito del brano, Lennon disse:

Revolution 9 era un’immagine inconscia di quello che pensavo succedesse quando accade veramente; come un dipinto astratto di una rivoluzione. Tutto fu fatto con dei nastri. Impiegai circa trenta nastri che giravano, mischiandoli in un’unica traccia base. Presi nastri di musica classica, facendoli suonare al contrario e tagliandoli qua e là e cose del genere, per ottenere degli effetti sonori. Uno era la voce di un tecnico che testava i microfoni dicendo: “This is EMI test series number nine”. Io mi limitai a tagliare via la prima parte e così ebbi il numero nove. Il nove si rivelò essere il giorno del mio compleanno e il mio numero fortunato e tutto il resto. Non me ne resi conto subito: fu una coincidenza divertente, come uno scherzo, tutto qui.1

Al di là del suo valore artistico, “Revolution 9” ebbe comunque il merito di portare alle masse le tecniche della musica d’avanguardia di John Cage, Karlheinz Stockhausen, Pierre Henry, Pierre Schaeffer, etc.

Per quanto, durante gli anni, sia stato incensato come un’opera addirittura avveniristica, il White Album non regge minimamente il paragone con i grandi dischi che, all’epoca, stavano portando il Rock (insomma, la popular music nella sua versione più matura, perché consapevole di non essere soltanto oggetto d’intrattenimento, ma vera e propria forma artistica) verso vette di assoluta grandezza.

Gli attriti tra i quattro membri della band (che, a un certo punto, causarono l’addio di un esasperato George Martin) erano, nel frattempo, diventati sempre più problematici, probabilmente acuiti anche dalla presenza, sempre più ingombrante, di Yōko Ono. Ma è anche vero che la magia che li aveva tenuti insieme per tanti anni andava ormai (quasi naturalmente, mi verrebbe da dire) esaurendosi. Cercando di rinvigorirla, McCartney propose, allora, di mettere mano a un disco registrato in presa diretta, che fosse capace, insomma, di restituire la carica spontanea che aveva contraddistinto la band durante i bei, vecchi tempi. All’inizio dei lavori (in cui, per volontà di Harrison, fu coinvolto anche il tastierista d’estrazione jazz Billy Preston), il titolo scelto fu Get Back, che era anche quello che doveva accompagnare il film dedicato alla realizzazione dello stesso disco. McCartney pensò anche a un’esibizione dal vivo, in modo da riportare la band a contatto con la dimensione del concerto, da tempo abbandonata. Il progetto del film si arenò presto, mentre l’esibizione dal vivo venne filmata, ma in una location a dir poco particolare: il tetto del palazzo che ospitava gli uffici della Apple Corps Ltd. (l’azienda multidivisionale dei Beatles) al n° 3 di Savile Row in quel di Londra. Alcuni dei brani eseguiti in quello che sarebbe passato alla storia come il “Rooftop Concert” (il “Concerto del Tetto”), provenivano dalle session di Get Back, i cui nastri finirono, di lì a poco, in un cassetto, causa l’ennesimo e, in pratica, definitivo scontro tra i quattro, questa volta riguardante la strada da intraprendere per risanare le disastrate finanze della Apple (Lennon, Harrison e Starr volevano affidarsi ad Allen Klein, l’allora manager dei Rolling Stones, mentre per McCartney la soluzione migliore era mettersi nelle mani dello studio legale Lee Eastman Inc., gestito dal padre di sua moglie, Linda).

La Emi, però, premeva affinché le venisse consegnato nuovo materiale. Così, dopo aver richiamato George Martin (fu McCartney a voler fortemente il suo ritorno), i Beatles misero per qualche mese da parte i loro scazzi e si concentrarono sulla realizzazione dei brani destinati ad Abbey Road, disco che prendeva il nome dai londinesi studi di registrazione della Emi. Sulla famosa foto di copertina, i quattro membri della band sono immortalati mentre attraversano le strisce pedonali della strada che si trova proprio di fronte a quegli studi.

Molto più omogeneo del doppio bianco, Abbey Road (26 settembre 1969) si fa strada con il passo sornione e vagamente funky di “Come Together”, un brano che guadagna, secondo dopo secondo, una forza d’urto che molto deve al clima inquieto che si respirava all’epoca soprattutto negli Stati Uniti. Il brano era stato inizialmente scritto da Lennon a supporto di Timothy Leary, che aveva deciso di candidarsi a governatore della California. Scrive Ian MacDonald:

Con il suo titolo sessual-politico, “Come Together” rappresenta l’ultimo degli abbracci di Lennon alla controcultura nel periodo della sua attività col gruppo. Esortatoria e dogmatica nello stile delle sue prime canzoni post-Beatles, lancia una sequela di ampollosi nonsense di autoconfessione indirizzata ai violenti antagonismi di un mondo ignorante, insinuando che il linguaggio utilizzato in tali contestazioni è un tranello e, potenzialmente, una prigione.2

Dalla penna di Harrison arrivò, invece, una “Something” che alterna toni melliflui e incanti classicheggianti, mentre, se “Maxwell’s Silver Hammer” declina vaudeville in forma di marcetta, “Oh! Darling” si muove tra doo-wop e standard-pop d’antan. Tenendo fede al suo umore giocherellone, Ringo pennellò una “Octopus’s Garden” che, a suon di country & western, descrive l’abitudine del polpo (da lui appresa durante una vacanza in Sardegna) di raccogliere sassolini e oggetti lucenti per costruire quelli che, agli occhi degli uomini, appaiono come veri e propri giardini marini. Nei suoi sette minuti di durata, la progressiva “I Want You (She’s So Heavy)” mette uno dietro l’altro languori blues-rock, vertigini psichedeliche, digressioni jazz e una panoramica coda per minacciosi sciami di Moog. La linea di chitarra distorta che si ascolta nel brano è stata letta, in maniera fin troppo azzardata, come un’anticipazione dell’heavy-metal, come se non fosse mai esistito Link Wray e tutti quelli che, nel frattempo, avevano già iniziato a indurire e a “metallizzare” il rock.

Una volta girato il vinile, ci s’imbatte dapprima nel cristallino folk-rock di “Here Comes The Sun” e, quindi, nelle armonie vocali di “Because”, il cui impianto classicheggiante fu ispirato a Lennon dall’ascolto della sonata Al chiaro di luna di Beethoven.

Buona parte del lato B è occupata dal medley racchiuso tra il nostalgico boogie-woogie di “You Never Give Me Your Money” e il trionfo di assoli di “The End”. In mezzo, meriggi pallidi e assorti (“Sun King”), valzer per la banda del villaggio (“Mean Mr. Mustard”), pop-rock battaglieri (“Polythene Pam”) o corali (“She Came In Through the Bathroom Window”), ninne-nanne sinfoniche (“Golden Slumbers”) e filastrocche che citano il tema di “You Never Give Me Your Money” (“Carry That Weight”).

Il disco si chiude con i ventisei secondi di “Her Majesty”, uno scherzo folk che in un primo momento si era pensato di eliminare, ma che poi l’assistente del tecnico del suono, John Kurlander, finì per conservare, inserendolo venti secondi dopo l’ultima nota di “The End” e, a conti fatti, facendone la prima “ghost track” della storia del rock.

Dopo aver nominato, senza unanimità, l’americano Allen Klein nel ruolo di nuovo manager, i Beatles iniziarono a mostrare più di una crepa in fatto di rapporti umani. Lennon aveva intanto già registrato i suoi primi singoli (“Give Peace a Chance” e “Instant Karma!”), mentre sia Ringo Starr che McCartney stavano lavorando ai loro primi dischi solisti. A un certo punto, consapevole che ormai la situazione aveva preso una piega irreversibile, McCartney espresse agli altri membri della band la volontà di porre fine alla sua esperienza con essa. Era il 10 aprile 1970, data che è passata alla storia come “il giorno in cui i Beatles si sciolsero” (anche se, per dovere di cronaca, si dovette aspettare il 31 dicembre successivo perché la cosa diventasse veramente ufficiale: in quel giorno, infatti, lo stesso McCartney presentò, tramite i suoi avvocati, un’istanza presso l’Alta Corte di Londra per decretare lo scioglimento della band).

Harrison e Lennon, comunque, volevano che almeno un altro disco fosse pubblicato. Così, dopo aver ripescato i nastri del progetto Get Back, Lennon si rivolse al produttore Phil Spector, il mago del cosiddetto «wall of sound» («muro del suono»), una tecnica di produzione che, come abbiamo visto parlando dei Beach Boys, tanto peso aveva avuto nella sperimentazione pop di Brian Wilson.

In un album dignitosissimo ma lontano dalle loro vette, i momenti più interessanti sono da individuare nel folk-rock cristallino di “Two Of Us” (brano scritto da McCartney pensando al suo rapporto con la moglie Linda), nell’incantevole “Across the Universe” (con cui Lennon sembrava già anticipare alcune delle languide ballate che avrebbero caratterizzato la sua carriera solista), nelle commoventi e malinconiche trame di “The Long And Winding Road” (che Spector si preoccupò di rimpinzare con una piccola orchestra e un coro femminile), nella pulsante orecchiabilità di “Get Back” e, nonostante tutto, anche nella ballata pianistica, con rapimenti gospel, della title-track. Quanto al resto, tanto mestiere: dall’hard-rock al ralenti di “Dig A Pony” al blues, ora indolente, ora più vigoroso di “I Me Mine” (l’ultimo brano registrato dai Beatles, il 3 gennaio del 1970), passando per il rock’n’roll dozzinale di “One After 909” e le turgide fattezze soul di “I’ve Got A Feeling”.

Let It Be fu pubblicato l’8 maggio del 1970 e divenne un grande successo commerciale. A quell’epoca, però, i Beatles avevano smesso di esistere come band, istantaneamente trasformandosi in leggenda.

Note:

  1. The Beatles, 2000, pag. 307 (Wikipedia)
  2. Ian MacDonald, The Beatles. L’opera completa, Mondadori, 1997, pag. 345
Discografia Consigliata

Magical Mystery Tour (1967)
The Beatles [White Album] (1968)
Abbey Road (1969)

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