Eric Burdon & The Animals

Moltissime delle band inglesi dei primi anni ’60 ebbero nel blues e nel rhythm and blues americano la loro principale fonte di ispirazione. Digeriti e riletti secondo le proprie inclinazioni, quei due generi furono restituiti, nel giro di qualche anno, alla loro terra d’origine sotto forma di un’eccitante miscela sonora che aveva, nel frattempo, incorporato anche le sonorità travolgenti del rock’n’roll. Guidata dai Beatles, che si sarebbero progressivamente spostati su posizioni sempre più pop, la British Invasion diffuse sul mercato americano i dischi di Rolling Stones, Yardbirds, Dave Clark Five, Herman’s Hermits, Kinks, Who e Animals, giusto per citare le band più famose.

La saga degli Animals, formazione che più di chiunque altra contribuì, in terra inglese, a indicare una strada maestra verso un rhythm and blues dall’animo “bianco”, è strettamente legata alla figura del cantante Eric Burdon, che fin da ragazzo aveva mostrato un’insana passione per la musica blues. Nato il primo giorno di maggio del 1941 a Newcastle upon Tyne, una cittadina situata nel Nord dell’Inghilterra, Burdon formò la sua prima band (i Pagan Jazzmen) insieme all’amico John Steele, facendosi quindi notare nel 1958 come cantante di gran valore in alcune esibizioni dal vivo. Dopo essere entrato in contatto con altri esponenti del blues inglese, tra il 1962 e il 1963 Burdon divenne membro stabile dell’Alan Price Rhythm and Blues Combo, quintetto completato, oltre che dal leader Alan Price (organo e tastiere), dal chitarrista Hilton Valentine, dal batterista John Steele e dal bassista Bryan “Chas” Chandler. Assunto il più efficace nome di The Animals (che meglio rispecchia i loro selvaggi assalti sonori durante i concerti), la band riuscì a incidere un EP contenente quattro cover (“I Wanna Make Love to You” e “Big Boss Man” di Willie Dixon, “Boom Boom Boom” di John Lee Hooker e “Pretty Thing” di Bo Diddley) e distribuito in cinquecento copie solo localmente. Fortuna volle, comunque, che su quei solchi posasse le orecchie anche il promoter e produttore Giorgio Gomelsky che, alla fine del 1963, si spinse fino a Newcastle per registrare un paio di loro concerti, in seguito raccolti in The Animals Live At The Club A Go Go e The Animals With Sonny Boy Williamson.

Grazie ai contatti con Gomelsky, all’epoca manager degli Yardbirds, la band iniziò a respirare l’atmosfera eccitante di Londra, città in cui alla fine la stessa decise di trasferirsi. Grazie all’ottimo lavoro svolto dal loro manager Michael Jeffery, nella capitale inglese Burdon e soci riuscirono a strappare un contratto con la Emi Columbia, che nel gennaio del 1964 li volle subito in studio con il produttore Mickie Most. Esperto di produzioni pop-oriented, Most consigliò alla band di ammorbidire leggermente il proprio sound. Fu così che il primo 45 giri degli Animals (“Baby Let Me Take You Home” / “Gonna Send You Back to Walker”, entrambe cover) si fece apprezzare (ventunesimo posto nelle classifiche) grazie a una deliziosa variante beat del rhythm and blues. Per il secondo singolo, la band opta ancora per la rilettura di brani altrui, questa volta prendendo in prestito la canzone tradizionale “The House of the Rising Sun” (la cui origine sembra addirittura risalire al XVII secolo), già ripresa, tra gli altri, da Woody Guthrie, Dave Van Ronk e Bob Dylan. Ma la versione più conosciuta è proprio quella che gli Animals fecero uscire nel giugno del 1964, schizzando immediatamente al vertice delle classifiche inglesi e americane, cosa che fece sobbalzare dalla sedia i capoccia della Columbia, che avevano fatto il diavolo a quattro affinché Burdon e compari registrassero un brano meno lungo (“The House of the Rising Sun” ferma il cronometro a quattro minuti e trenta secondi), insomma più adatto al formato delle trasmissioni radiofoniche.

Rispetto alla versione originale, in cui si racconta di un bordello di New Orleans (la “casa del sole nascente” del titolo) che aveva allietato i maschietti tra il 1862 e il 1874, quella degli Animals trasforma la prostituta protagonista del brano in un giocatore d’azzardo, almeno in questo venendo incontro alle richieste della casa discografica, che ovviamente temeva la longa manus della censura. Sorretto dai fraseggi altamente drammatici della chitarra di Valentine e dell’organo di Price, il brano trova in Burdon un performer accorato e incisivo. Per il lato B fu scelta “Talkin’ ‘bout You” che, nel nome di Ray Charles, si lascia apprezzare per la sua sana energia soul.

Quando tutti ormai pensavano che gli Animals altro non erano che un’ottima band di folk-rock, ecco arrivare il terzo singolo (“I’m Crying” / “Take It Easy”) a rimettere le cose a posto con un sound più ruvido che, in ogni caso, non riuscì a far scattare la molla delle vendite.

Nell’ottobre del 1964, la band pubblicò anche il suo primo, omonimo LP, che nella versione americana era aperto da “The House of the Rising Sun”, brano che fu espunto da quella inglese, la cui tracklist era inaugurata, invece, dal «diddley beat» di “The Story Of Bo Diddley”. Per quanto non fosse in grado di restituire intatta la forza d’urto che la band possedeva dal vivo, il disco, soprattutto nella sua versione inglese, è tutt’altro che disprezzabile nel suo declinare blues e rhythm and blues (“Dimples”, “I’m Mad Again”), non di rado contraddistinto da un piglio pop (“I’ve Been Around”) o virato rock’n’roll (“The Girl Can’t Help It”, “She Said Yeah”, “Memphis Tennessee”).

Farà leggermente meglio, di lì a qualche mese, Animal Tracks (maggio 1965), disco lontano dal restituire una fotografia veritiera della band, ma comunque capace di mettere sul piatto, soprattutto nella sua versione inglese, brani mediamente più creativi, dai numeri rock’n’roll di “Mess Around”, “Roberta” e “I Ain’t Got You”, alle dinamiche cangianti di “Bright Lights, Big City”, passando per il Chuck Berry romanticizzato di “How You’ve Changed”, il Ray Charles gigione di “Hallelujah, I Love Her So” e gli echi vaudeville di “Let The Good Times Roll”. Sull’edizione americana del disco, tra i brani più interessanti vanno annoverati “We Gotta Get Out of this Place”, dal groove contagioso e dal ritornello luminoso, l’omaggio a Nina Simone di “Don’t Let Me Be Misunderstood” e “Club A Go-Go”, quest’ultima scritta a quattro mani da Burdon e Price.

La popolarità della band continuava ad aumentare soprattutto grazie ai 45 giri, egregiamente curati dal produttore Most. A sugellare il tutto, anche le partecipazioni ai film Get Yourself a College (1964) di Sidney Miller e Pop Gear (1965) di Frederic Goode, in cui la band venne filmata mentre eseguiva, rispettivamente, “Around And Around” e “The House of the Rising Sun”. Subito dopo la registrazione del singolo “Bring It On Home to Me” / “For Miss Caulker” (aprile 1965), Alan Price lasciò la band, accampando come scusa la sua paura di viaggiare in aereo. In realtà, a fargli prendere quella decisione furono soprattutto le tensioni che, negli ultimi mesi, si erano innescate tra lui (che, al pari di Most, voleva continuare lungo il solco di sonorità più marcatamente pop) e la coppia Burdone-Valentine, desiderosa, invece, di far emergere l’anima più ruvida e blueseggiante della band.

Ingaggiato Dave Rowberry come sostituto di Price, gli Animali si liberarono, così, della Columbia e di Mostre e firmarono per la Decca, l’etichetta che aveva promesso loro un maggior controllo sui propri lavori. I primi due singoli pubblicati per la nuova etichetta (“Inside – Looking Out” / “Outcast” e “Don’t Bring Me Down” / “Cheating”), usciti tra il febbraio e il maggio del 1966, non solo fecero registrare ottimi risultati di vendita, ma presentarono, grazie anche al lavoro del produttore Tom Wilson, un sound tanto energico quanto ispido, capace di mettere gli Animals in diretta competizione con formazione di spessore quali i Rolling Stones e gli Yardbirds.

Al pari dei suoi predecessori, anche l’album Animalism (novembre 1966) uscì in versioni differenti, al di qua e al di là dell’Atlantico. In quella inglese, da ricordare una “One Monkey Don’t Stop No Show” dall’animo soul, l’incedere spaccone di “Maudie”, la ripresa del singolo “Outcast” (con chitarra in bilico tra fuzz e tinte surf), i battimani di “Clapping”, il rock’n’roll pulsante di “Squeeze Her – Tease Her” e la rutilante “That’s All I Am to You”. Sulla versione americana, la band si ritrovò a collaborare addirittura con Frank Zappa, che scrisse, produsse e probabilmente suonò anche sul brano che apre la scaletta, “All Night Long”, e sulla rilettura di “The Other Side of This Life” di Fred Neil. Facendo leva su di una vibrante sintesi di rhythm and blues, soul e rock’n’roll, gli Animals riempiono questi solchi di omaggi a Sam Cooke (“Shake”), B. B. King (“Rock Me Baby”), Little Richard (“Lucille”), Howlin’ Wolf (“Smokestack Lightning”), il menestrello Donovan (“Hey Gyp (Dig the Slowness)”) e Muddy Waters (“Louisiana Blues”).

Nel frattempo, la formazione aveva subito un nuovo scossone con l’abbandono del batterista John Steele, il cui posto venne preso da Barry Jenkins, subito pronto a sposare l’idea del lider maximo Burdon di portare gli Animali su posizioni psichedeliche, secondo la moda che, proprio in quel periodo, stava prendendo piede in ambito pop e rock. Ma non tutti erano d’accordo. Le frizioni interne alla band divennero così insostenibili che i suoi membri decisero di porre fine alla sua avventura. Burdon, però, non aveva alcuna intenzione di starsene con la mani in mano. Così, dopo aver cercato di trovare nuovi membri in terra inglese, fece armi e bagagli e, una volta convinto Jenkins a seguirlo, se ne volò in California, lì dove il suono psichedelico era in piena fioritura. Firmato un contratto con la MGM, Burdon registrò nuovo materiale insieme a Jenkins e alle orchestre di Horace Ott e Benny Golson.

Il risultato, Eric Is Here (marzo 1967), uscito a nome di Eric Burdon & The Animals, è un lavoro poco a fuoco, indeciso tra il pop vagamente psichedelico (“In the Night”), il sole (“Mama Told Me Not to Come”, “I Think It’s Gonna Rain Today”), il rhythm and blues (“That Ain’t Where It’s At”) e una versione più orecchiabile dei Rolling Stones (“Losin’ Control”, “It’s Not Easy”, “The Biggest Bundle Of Them All”).

Completata la nuova line-up con l’arrivo del bassista John Weider e dei chitarristi Danny McCulloch e Vic Briggs, Burdon riuscì a registrare un primo, convincente esempio del nuovo sound in bilico tra radici blues e nuove tendenze psichedeliche grazie al singolo “When I Was Young” / “A Girl Named Sandoz”, il cui lato B vantava anche una chitarra così distorta che poteva già dirsi proto-hard. Seguirono altri due singoli di successo, “San Franciscan Nights” / “Good Times” e “Monterey” / “Ain’t That So”, con cui il cantante inglese omaggiare, tra le altre cose, le notti acide della culla della cultura psichedelica (San Francisco) e il primo grande festival dell’epopea rock (Monterey Pop Festival), svoltosi tra il 16 e il 18 giugno di quell’indimenticabile 1967 (per la cronaca, Eric Burdon & The Animals vi suonarono durante la giornata inaugurale).

I “venti del cambiamento” che soffiavano sulla cultura giovanile furono intercettati dalla band con l’album Winds of Change (novembre 1967). Il disco è un’erma bifronte, diviso, com’è, tra un lato A in cui la psichedelica la fa da padrone, e un lato B in cui i brani sono strutturati in maniera più convenzionale. Ad aprire il disco, l’ipnotica litania, con violino indianeggiante, della title-track, che potrebbe essere scambiata per una versione pesantemente rallentata di “Tomorrow Never Knows” dei Beatles. A seguire, la ballata dolente di “Poem by the Sea”, che scivola progressivamente in un frastuono di echi e tonfi, da cui emerge, solitario, ancora il suono straziato del violino. Dopo la cover “raga-rock” di “Paint It Black” (Rolling Stones), si scivola nelle trame sinistre di “The Black Plague”, con Burdon a recitare versi surreali mentre tutt’intorno risuonano campane e si materializzano frammenti di canti gregoriani. E se “Yes I Am Experienced” omaggia, fin dal titolo, lo Jimi Hendrix del memorabile Are You Experienced, al ripescaggio del singolo “San Franciscan Nights” è affidato il compito di chiudere la prima facciata. Meno interessante della prima, la seconda apre con ritmiche tribali e recitativo incantatorio (“Man – Woman”), proseguendo, quindi, con le trame folk e gli umori morriconi anni di “Hotel Hell”, il beat di “Good Times”, la love-song un po’ barocca e tutto sommato prescindibile di “Anything” e, per finire, il soul-rock di “It’s All Meat”.

Quanto proposto da Winds Of Change trovò piena realizzazione sul successivo The Twain Shall Meet (maggio 1968), disco ancora più ambizioso, cui dà il via la “Monterey” già apparsa su singolo alla fine del 1967. Facendo leva anche sul lato più introspettivo della sua creatività, Burdon pennella una ballata suadente e oscura come “Just the Thought” (affidata alla voce di Danny McCulloch), lasciando campo libero al blues-rock con una “Closer to the Truth” che deve qualcosa di sicuro anche ai Doors. Sia “No Self Pity” che “We Love You Lil” si concentrano, invece, sulla descrizione di una psiche alterata dalle droghe psichedeliche, laddove “Orange And Red Beams” (cantata ancora da McCulloch) si affida a orchestrazioni soul-pop e “All Is One”, ancora in modalità raga-rock, ma con un effetto trance più marcato, eleva un’ode all’unità del Tutto. I momenti più epici, però, si annidano negli oltre sette minuti di “Sky Pilot” che, servendosi di cornamuse, rumori di guerra, ascensioni supersoniche e barocchismi pop, scaglia l’ennesimo atto d’accusa contro tutte le guerre, spesso e volentieri appoggiate dalla Chiesa, qui simboleggiata dalla figura del cappellano (lo “sky pilot” del titolo), il cui compito principale è quello di assicurarsi che i soldati siano anche “soldati di Dio”.

He mumbles a prayer and it ends with a smile
The order is given, they move down the line
But he’ll stay behind, and he’ll meditate
But it won’t stop the bleeding, or ease the hate

As the young men move out into the battle zone
He feels good, with God you’re never alone
He feels so tired as he lays on his bed
Hopes the men will find courage in the words that he said

Sky Pilot
Sky Pilot
How high can you fly?
You’ll never, never, never, reach the sky

Mormora una preghiera e finisce con un sorriso
l’ordine è dato, si muovono verso il fronte
ma lui rimarrà nelle retrovie a meditare
e non fermerà il massacro né placherà l’odio

Mentre i ragazzi si spingono alla zona di combattimento
lui si sente bene, con Dio non sei mai solo
si sente tanto stanco mentre se ne sta a letto
spera che gli uomini saranno incoraggiati dalle sue parole

Pilota nel cielo
pilota nel cielo
quanto alto puoi volare?

Meno incisivo, ma comunque ancora fascinoso, fu il successivo Every One Of Us (luglio 1968), che si avvale della partecipazione, alle tastiere e alla voce, di Zoot Money, costretto, per ragioni contrattuali, ad essere accreditato con il nome di George Bruno. Facendo satira sulla scottante situazione che gli Stati Uniti stavano vivendo in quel torrido 1968, “White House” tira su il sipario con fragranze latin-folk, lasciando, quindi, il posto al brevissimo interludio di “Uppers and Downers”, cui segue il pensoso strumentale in chiave bossanova di “Serenade to a Sweet Lady”, che però fa molto poco per giustificare i suoi sei minuti e rotti di durata. Ancora più lunga è “The Immigrant Lad”, che si affida a un folk acustico intervallato dal rumore delle onde del mare e dal verso dei gabbiani, prima che una coda dialogata ne abbassi clamorosamente la qualità complessiva. Dopo l’hard-blues, con groove vibrante, di “Year of the Guru” e la ripresa del classico blues di “St. James Infirmary”, ecco arrivare il momento più interessante del disco, la lunga (circa diciannove minuti di durata) jam blues di “New York 1963-America 1968”, che si tira dietro altri riferimenti alle disparità e alle ingiustizie sociali dell’America del tempo.

Dopo aver sostituito Briggs con Andy Summers (sì, proprio quel chitarrista che, anni dopo, avrebbe incrociato il successo con i Police!), Eric Burdon and The Animals tornarono in pista con il doppio Love Is (dicembre 1968), con cui il cantante diede libero sfogo alla sua passione per il rhythm and blues, genere di cui diede un esuberante saggio nella rilettura di “River Deep, Mountain High”, tratta dal repertorio di Ike & Tina Turner. Quasi interamente composto di sole lunghe cover (fatta eccezione per le autografa “I’m Dying (Or Am I?)”, che gioca la carta di un bel folk-rock ricco di armonie sfuggenti), il disco vale complessivamente più del suo predecessore, grazie a robuste versioni di “I’m An Animal” (che, risalendo alla sorgente di Sly Stone, miscela il blues-rock con il funk e la psichedelia), “Ring Of Fire” (brano che Johnny Cash aveva, a sua volta, preso in prestito dalla Carter Family e che gli Animals trasformarono in un epico e commovente mix di innodia corale e tensioni laceranti), “Coloured Rain” (con lungo assolo chitarristico, contrappunto di fiati e cori di Robert Wyatt dei Soft Machine), “To Love Somebody” (scritta dai Bee Gees quando erano ancora una band di psych-pop barocco), “Madman” (una rilettura quasi pedissequa di “The Madman Running Through The Fields”, un brano che il chitarrista Andy Summers aveva scritto durante la sua precedente esperienza con i Dantalion Chariot) e, per finire, una “As the Years Go Passing By” (Fenton Robinson) carica di tormento. Per chiudere il disco, Burdon chiese al chitarrista Steve Hammond, amico di Zoot Money, di scrivere un lungo brano psichedelico che evocasse sia gli esperimenti più acidi di Jimi Hendrix (avete presente “Third Stone from the Sun”?) che le perlustrazioni astrali dei Pink Floyd. Il risultato, “Gemini”, è uno dei brani più creativi mai apparso su un disco degli Animals, con il suo mix di progressioni hard-psichedeliche, digressioni progressive e smarrimenti siderali, quest’ultimi chiaramente ispirati a quelli che si ascoltano su “Interstellar Overdrive”, uno dei brani cardine dello storico esordio della band all’epoca guidata dal genio di Syd Barrett.

Love Is rappresenta anche il canto del cigno di Eric Burdon and The Animals, che si sciolsero all’inizio del 1969. Guidato dalla sua passione per la black-music, Burdon iniziò, quindi, una collaborazione con i War, compagine californiana (di San Francisco, per la precisione) artefice di un ibrido di funk e rhythm and blues. La sua formazione era così composta: Howard Scott (chitarra), Lee Oskar (harmonica), Charles Miller (sax tenore, flauto), Lonnie Jordan (organo, pianoforte), Bee Bee Dickerson (basso), Harold Brown (batteria) e Dee Allen (conga, percussioni).

Accreditato a Eric Burdon and War, nel maggio del 1970 venne pubblicato Eric Burdon Declares “War”, disco che inietta nel funk/rhythm and blues dei War dosi di soul e psichedelia, senza comunque raggiungere particolari vette di creatività. Farà meglio il successivo e doppio The Black-Man’s Burden (dicembre 1970), in cui i brani danno vita a un continuum “progressivo” di groove jazz-funk e latineggianti, fughe tribali, dilatazioni bluesy e recitativi tra il surreale e il satirico, come ben esemplificato dagli oltre tredici minuti del capolavoro del disco, quel “Paint It Black Medley” in cui la rilettura del classico dei Rolling Stones è solo una scusa per gettare il cuore oltre l’ostacolo. Accanto ad altre lunghe meditazioni in cui si rincorrono miraggi doorsiani (“Spirit”, caratterizzata da un bel assolo di sax), sensualità blues (“Sun / Moon”) e vampate soul (“Pretty Colors”), trovano spazio ipotesi di canzoni in cui si passa da incontri di poesia “acida” e jazz (“Out of Nowhere”) ad atmosfere romantiche-appassionate (la stucchevole ripresa, in due parti, di “Nights in White Satin” dei Moody Blues e la conclusiva “They Can’t Take Away Our Music”), quando non chiassosamente ubriache (“Beautiful New Born Child”). Soprattutto per l’uso del flauto, “The Bird and the Squirrel” fa pensare, invece, ai Jethro Tull, mentre, se “Bare Back Ride” schiamazza e saltella in modalità boogie, “Home Cookin’” ha chiaramente in mente i Rolling Stones.

Nel 1971, per ragioni mai chiarite, Burdon lasciò i War al loro destino, stabilendo, di lì a poco, un contatto con il cantante Jimmy Witherspoon, col quale registrerà un prescindibile album di blues elettrico (Guilty!, uscito nel dicembre dello stesso anno).

Assoldati, quindi, Aalon Butler (chitarra), Randy Rice (basso) e Alvin Taylor (batteria) per la Eric Burdon Band e registrati un paio di album in bilico tra hard e psych-rock (Sun Secrets del 1974, con una versione marziale di “Ring Of Fire” e la lunghissima meditazione blues di “Letter From the County Farm”; Stop del 1975, con le tracce jazz di “Gotta Get It On”), alla fine del 1975 Burdon tornò alle origini della sua avventura musicale, chiamando a raccolta i vecchi membri degli Animals (Alan Price, Hilton Valentine, Bryan “Chas” Chandler e John Steel). Ne scaturì Before We Were So Rudely Interrupted, pubblicato, però, soltanto nell’agosto 1977, in piena epoca punk. Nella scaletta, composta di sole cover, si spazia dal country-rock di “Brother Bill (The Last Clean Shirt)” (The Honeyman) al rock’n’roll di “Fire On The Sun” (Shaky Jake), dal blues di “As the Crow Flies” (Jimmy Reed) alla ballata languida di “Please Send Me Someone to Love” (Percy Mayfield). C’è spazio anche per il folk-rock, come accade nella bella versione di “It’s All over Now, Baby Blue” di Bob Dylan. Before We Were So Rudely Interrupted si fermò al settantesimo posto della classifica americana, ma ebbe comunque il merito di generare nuovo interesse intorno alla band, che addirittura nel 1982 si ritrovò a ridosso della Top Ten inglese con il suo vecchio cavallo di battaglia, “The House of the Rising Sun”.

Nel frattempo, il solo Burdon, aiutato dal vecchio amico Zoot Money, scrisse nuovo materiale da destinare al suo primo disco solista, previsto per il marzo del 1978. Survivor, questo il titolo del 33 giri, è un disco che ammorbidisce il blues-rock con massicce dosi di sonorità pop-rock, arrotondando il tutto con una produzione radio-friendly. Insomma, tra i suoi solchi ci sono brani ben suonati, ma destinati a un pubblico di bocca fin troppo buona. Curiosità: nel brano “The Kid”, dentro la voce di Burdon aleggiano strane inflessioni Lou Reed

Leggermente più riuscito fu, invece, Darkness – Darkness, registrato un paio di mesi dopo l’uscita di Survivor ma messo in commercio solo nel 1980. Era composto di sole cover, a cominciare dal brano di Jesse Colin Young che dà il titolo al disco.

Nel 1983, dopo aver firmato un contratto con la I.R.S. (per intenderci, l’etichetta che aveva da poco messo sotto contratto i R.E.M.), Burdon, nuovamente spalleggiato da Zoot Money, rispolvero la sigla Animals, tentando addirittura la carta delle sonorità new-wave con l’altalenante Ark (agosto 1983), su cui si incrocia anche il reggae (“Love Is for All Time”) e un delizioso brano di power-pop come “Being There”.

Nel 1984, dopo un fortunato tour mondiale, Burdon entrò in una fase critica per problemi legati alla droga. Dovettero passare ben quattro anni prima di poter tornare in pista con il prescindibilissimo I Used To Be An Animal, sul quale fu spalleggiato da una quindicina di musicisti che lo aiutarono a barcamenarsi tra pop, rock, new-wave, glam, disco-music, elettronica e quant’altro.

Nel 1991, insieme al tastierista Brian Auger formò la Eric Burdon – Brian Auger Band, artefice del disco dal vivo Access All Areas – Live (1993), spinto dal discreto successo della title-track.

Tutti gli anni Novanta proseguirono, dunque, tra il varo di nuove band (la Eric Burdon I Band), collaborazioni varie e qualche nuovo disco indeciso tra la nostalgia del passato e il desiderio di guardare ancora avanti.
Il suo ultimo disco in ordine di tempo, ‘Til Your River Runs Dry, risale al 2013. Blues e rock i suoi assi portanti, quasi a voler rimarcare l’imprescindibilità di un passato, il suo, che è anche il passato della musica che più ci piace.

Discografia Consigliata

The Animals
Animal Tracks (1965 – versione inglese)
Animalism (1966 – versione americana)

Eric Burdon & The Animals
Winds Of Change (1967)
The Twain Shall Meet (1968/)
Love Is (1968/)

Eric Burdon and War
The Black-Man’s Burdon (1970)

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