The Yardbirds

Gli Yardbirds furono una delle formazioni più importanti e influenti della prima metà degli anni Sessanta. La fama della band inglese, oltre che alla capacità di trasformare il blues-rock in un linguaggio estremamente dinamico, direi quasi “progressivo”, è legata all’importanza che nel suo sound assunse lo strumento principe della musica rock, la chitarra elettrica, di volta in volta imbracciata da chitarristi destinati a restare leggendari quali Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. E scusate se è poco!

La loro storia ha inizio nel 1963: siamo nella periferia londinese e il cantante Keith Relf e il bassista Paul “Sam” Samwell-Smith si gettano nella mischia del blues elettrico fondando il Metropolis Blues Quartet, che nel giro di pochi mesi, dopo aver rimuginato su un provvisorio Blue-Sounds, assumerà il nome definitivo di Yardbirds, la cui line-up era completata dal batterista Jim McCarty e dai chitarristi Chris Dreja e Anthony “Top” Topham, provenienti dai Suburban R&B. Per problemi familiari, Topham darà forfait nel giro di qualche mese, lasciando spazio a un amico di Relf di cui si diceva un gran bene: Eric Clapton. Grazie ad alcune scoppiettanti esibizioni dal vivo, in cui vengono proposti i classici di Howlin’ Wolf, Muddy Waters, John Lee Hooker, Chuck Berry, Bo Diddley, Sonny Boy Williamson II e via discorrendo, la band si guadagna un consenso di tutto rispetto nei circuiti inglesi del rhythm and blues, mostrando di essere tecnicamente più smaliziata di Rolling Stones e Animals, ma meno carismatica, soprattutto perché priva di un frontman che potesse competere con il sensuale Mick Jagger o l’”animalesco” Eric Burdon.

Oltre alla loro bravura strumentale, gli Yardbirds colpivano molto l’immaginario del pubblico grazie ai cosiddetti «rave up» (letteralmente, «festa scatenata»), lunghe, a volte lunghissime (anche trenta minuti di durata!) digressioni strumentali (pare che l’idea fosse stata di Samwell-Smith) a base di assoli, distorsioni e feedback, e non di rado prossime alle libere elucubrazioni del jazz. Di solito, i loro rave up erano guidati da Clapton, tipo perbene e timido, ma che durante quelle vibranti cavalcate strumentali assumeva le vesti di uno sciamano elettrico, facendo leva su di una straordinaria capacità improvvisativa. Secondo alcuni critici, le radici delle lunghe meditazioni psichedeliche che, di lì a qualche anno, sarebbero diventate un must per molte formazioni americane e inglesi, ebbero proprio nei rave up degli Yardbirds il loro progenitore più diretto.

Preso il posto dei Rolling Stones al Crawdaddy Club e guadagnatisi la stima del promoter Giorgio Gomelsky, la band partì per un tour britannico insieme a uno dei suoi eroi, Sonny Boy Williamson II. Alcune delle registrazioni di quei concerti finiranno, tre anni dopo, su Sonny Boy Williamson and The Yardbirds.

Nel febbraio del 1964, gli Yardbirds firmarono il loro primo contratto con la Emi/Columbia, registrando, appena un mese dopo, una decina di tracce dal vivo al Marquee Club di Londra, destinate a Five Live Yardbirds, pubblicato nel dicembre successivo. Composto di sole cover, per lo più di provenienza blues e rhythm and blues (fatta eccezione per il rock’n’roll di “Too Much Monkey Business”, che apre le danze omaggiando Chuck Berry), Five Live Yardbirds è uno dei momenti decisivi nella definizione del blues-rock inglese, oltre che uno dei  dischi dal vivo più importanti della sua epoca, nonostante una registrazione non proprio all’altezza della situazione, causa l’acustica del locale e l’utilizzo di un misero registratore a due piste. Dei loro lunghi e sfrenati rave up non vi erano ancora tracce consistenti, ma solo piccole avvisaglie, come quelle che si ascoltano in “Smokestack Lightning”, “Respectable”, “Louise”, “I’m A Man” e “Here ‘Tis”. Da segnalare, infine, la performance di Clapton, la cui chitarra regala, qua e là, brevi ma incisive improvvisazioni.

Tra il maggio e l’ottobre del 1964, la band pubblicò due singoli di discreto successo (“I Wish You Would”/ “A Certain Girl” e “Good Morning Little Schoolgirl” / “I Ain’t Got You”), ma sarà soltanto con “Four Your Love” (marzo 1965; lato B: “Got To Hurry”) che la band spiccherà il volo, raggiungendo la terza piazza della classifica inglese e salendo fino alla sesta in quella americana. Registrato con l’aggiunta del clavicembalo di Brian Auger e dei bonghi di Denny Piercy, “For Your Love” trasformò il loro classico rhythm and blues in un accattivante congegno pop (l’autore, Graham Gouldman – futuro membro dei 10cc – lo aveva scritto pensando alle ultime prove dei Beatles), cosa che non piacque a Clapton, che si era sempre contraddistinto come uno dei membri più ortodossi, in fatto di venerazione del blues e del rhythm and blues, degli Yardbirds.

Il 25 marzo, lo stesso giorno della pubblicazione del singolo, Clapton fece così armi e bagagli, non prima, però, di aver consigliato, come suo sostituto, un certo Jimmy Page. Tuttavia, una volta interpellato da Relf e soci, Page rifiutò, probabilmente perché non voleva mettersi in competizione con il suo vecchio amico. A sua volta, però, indirizzò la band verso un altro chitarrista, Jeff Beck, il quale accettò senza battere ciglio. Beck non era mai stato un vero amante del blues, ma aveva dalla sua una fantasia sfrenata e un desiderio di sperimentare nuove soluzioni timbrico-stilistiche che avrebbero portato la musica degli Yardbirds a un nuovo livello. Durante le esibizioni dal vivo, il chitarrista originario del sobborgo londinese di Sutton, poteva arrivare a torturare letteralmente la propria chitarra, ricavando da essa, grazie all’uso di diversi effetti, sonorità proto-metalliche, atonali, percussive o prossime al rumore puro. La sua influenza sui chitarristi degli anni Sessanta sarà seconda soltanto a quella dell inarrivabile Jimi Hendrix.

Guidati dall’istinto sperimentale di Beck, gli Yardbirds si avvicinarono anche alle sonorità orientaleggianti che proprio all’epoca stavano iniziando a penetrare nel recinto del pop-rock. Fu così che, il 20 aprile del 1965, gli Yardbirds incisero “Heart Full Of Soul”, brano su cui, oltre al suono di una tabla1, si ascolta anche una linea di chitarra che prova ad imitare il suono di un sitar (a suonarla fu proprio Jeff Beck, che per ottenere quel suono combinò il bending2, il sustain3 e il legato4, cimentandosi anche nella «prima “estesa improvvisazione modale”5 alla chitarra elettrica»6. Con questo brano (che uscì come singolo tre mesi dopo), gli Yardbirds realizzarono, in pratica, uno dei primissimi esempi di quello che, di lì a poco, sarebbe stato chiamato «raga rock». Curiosità: sulla primissima registrazione del brano, non pubblicata, compariva il suono di un vero sitar. Come rilevato anche da Gianfranco Salvatore, si trattava della «prima registrazione di un brano pop con una parte affidata al sitar.»7

Nel frattempo, era stato preparato anche il primo Lp in studio della band, il cui titolo ricalcava proprio quello del singolo di successo che aveva causato l’abbandono di Clapton. For Your Love (giugno 1965) uscì solo sul mercato americano, presentando, oltre alla già citata title-track, decisi “indurimenti” della materia blues-rock (“I Ain’t Done Wrong”, “A Certain Girl” e, soprattutto, il proto-metal di “I’m Not Talking”, brani che da soli basterebbero a dimostrare l’importanza di Jeff Beck nella storia del rock), escursioni rhythm and blues più o meno canonici (“I Ain’t Got You”, “I Ain’t Done Wrong”, “I Wish You Would”), un paio di rock’n’roll (“Putty (In Your Hands)”, “Good Morning Little Schoolgirls”) e qualche concessione a sonorità più marcatamente pop (“Sweet Music”, “My Girl Sloppy”).

Ripescando sul lato B quattro tracce provenienti da Five Live Yardbirds, il successivo Having a Rave Up With the Yardbirds (novembre 1965) continuò a mantenere bella accesa la fiammella della band inglese in terra americana, grazie a brani incredibilmente in anticipo sui tempi come “You’re a Better Man Than I” (andamento marziale, piglio pop “scurissimo” e grande assolo distorto di Beck), “Evil Hearted You” (dalle sinistre atmosfere proto-psichedeliche), “Still I’m Sad” (in cui l’atmosfera orientaleggiante è resa ancora più cupa da vocalizzazioni gregoriane in controcanto) e il blues rockeggiante di “The Train Kept A-Rollin’” (il brano che gli Yardbirds finiranno a suonare in una delle scene di Blow Up, il capolavoro di Michelangelo Antonioni uscito nel 1966). A completare una delle più grandi prime facciate dell’epoca, il ripescaggio di “Heart Full Of Soul” e una versione di “I’m A Man” con “grattugia” di corde sordinate.

La fama conquistata dalla band fu tale che anche gli organizzatori del nostro Festival di Sanremo li vollero tra i partecipanti. Così, nel gennaio del 1966 salirono sul palco della città dei fiori per ben due volte: nella prima, insieme a Lucio Dalla, intonarono il pop sbarazzino di “Paff… Bum!”; nella seconda, invece, accompagnarono Bobby Solo nella melensa “Questa volta”. Inutile dire che le due canzoni furono subito eliminate e che, nel complesso, il tutto si risolse in un’esperienza molto deprimente per la band.

«[Quelle due canzoni furono] le nostre cose peggiori di sempre. (…) Fu molto strano. Quando salimmo sul palco, il pubblico, che non aveva mai davvero visto, prima di allora, una band elettrica, iniziò a rumoreggiare e a fischiare. Fu orribile.»8 (Jim McCarty)

Dopo essere tornati a dimensioni musicali a loro più congeniali, gli Yardbirds misero mano al disco più ispirato e compatto della loro carriera, non prima però di aver licenziato Gomelsky, causa varie incomprensioni, e reclutato un nuovo manager nella figura di Simon Napier-Bell. Interamente composto di brani autografi, registrato nel giro di una settimana e pubblicato nel luglio 1966, Yardbirds (conosciuto anche con il nome di Roger The Engineer) mostra un grande equilibrio tra la ruvidezza del loro hard blues-rock e le tensioni sperimentali della musica psichedelica, che proprio all’epoca stava iniziando a vivere la sua fase più creativa. Come testimonia la prima traccia, “Lost Woman”, la band continuava ad affidarsi a lunghe divagazioni strumentali che oggi diremmo “proto-progressive”, ma che all’epoca semplicemente rispecchiavano il desiderio delle formazioni più smaliziate di oltrepassare le strutture canoniche della forma canzone. Un desiderio che gli Yardbirds erano stati tra i primi ad intercettare, quando, agli inizi della loro carriera, avevano approcciato il repertorio del blues di Chicago con quel piglio avventuroso poi trasfigurato nelle torride trame dei rave up.

Dopo il boogie scalpitante, con battimani, controcanti di giubilo e armonica sbuffante di “Over Under Sideways Down” (che fu anche il titolo con cui il disco uscì negli Stati Uniti e in altre nazioni), le dodici battute di “The Nazz Are Blue” fanno spazio alla chitarra di Jeff Beck, protagonista anche in “Rack My Mind”, nello strumentale “Jeff’s Boogie” e nella sbrigliata “What Do You Want”. Quello di “I Can’t Make Your Way” è, invece, un delizioso esempio di pop psichedelico, privo di veri eccessi ma contraddistinto da una cantabilità contagiosa. Anche le ballate di “Farewell” e “Turn Into Earth” profumano di coscienze leggermente alterate. I brani più particolari del disco sono comunque “Hot House Of Omagararshid” (un party latino-acquatico) e “Ever Since the World Began”, che procede da un sabba psichedelico verso uno scanzonato pop-rock.

Dopo la pubblicazione di Yardbirds [Roger the Engineer] (che sarà il loro unico disco a raggiungere la Top 20 inglese), Samwell-Smith decise di mollare. Venne rimpiazzato da Jimmy Page che, pur essendo un chitarrista, imbracciò il basso per dare il tempo a Chris Dreja di fare pratica con lo strumento. Quando Jeff Beck, prima di un concerto al Carousel Ballroom di San Francisco, accusò un improvviso malessere, Page prese il suo posto, mostrando tutto il suo valore sullo strumento prediletto. Così, quando Beck si riprese, a nessuno venne più in mente di affidargli il basso (che passò definitivamente nelle mani di Dreja), ma tutti furono concordi nel proseguire con una formazione comprendente due chitarre soliste. L’unico frutto discografico di quella che, senza ombra di dubbio, resta una delle line-up più esplosive di quel periodo, fu il singolo “Happening Ten Years Time Ago” / “Psycho Daisies” (ottobre 1966), il cui lato A offre un pulsante connubio di sonorità psichedeliche e umori orientaleggianti, stravolte dalle torride stilettate delle due chitarre, protagoniste anche sul lato B, più orientato sul versante garage-rock/proto-hard. Per la cronaca, su “Happening Ten Years Time Ago” il basso fu suonato da John Paul Jones, altro futuro Led Zeppelin.

In quel fatidico 1966, la band comparve anche nel film capolavoro Blow Up di Michelangelo Antonioni. Il regista italiano era, in realtà, interessato alla figura di Pete Townshend, il chitarrista leader degli Who che aveva l’abitudine di chiudere i concerti sfasciando la propria chitarra contro gli amplificatori. Per contattarlo, Antonioni chiese aiuto a Simon Napier-Bell, che tuttavia non riuscì a convincerlo. All’astuto manager, però, non sfuggì che quella poteva essere una grande occasione, e così dirottò il regista su Jeff Beck, dicendo che anche lui, quando suonava con gli Yardbirds, si divertiva a sfasciare chitarre… Non era vero, eppure, quando la band fu filmata mentre suonava “Stroll On” (un rifacimento di “Train Kept A-Rollin'” di Tiny Bradshaw), Beck non ebbe problemi a mettere in scena un’efficace imitazione della furia distruttiva di Townshend.

Agli inizi del novembre 1966, Jeff Beck fu escluso dalla band perché, nel bel mezzo di un concerto in terra texana, aveva improvvisamente abbandonato il palco senza apparente motivo. Nonostante il suo allontanamento, gli Yardbirds non persero il gusto per la ricerca sonora, come dimostra Little Games, il loro quarto disco uscito nel luglio del 1967. Anche se la Epic affidò la produzione a Mickie Most (già al lavoro con gli Herman’s Hermits e Donovan), nel tentativo di tirare fuori un disco relativamente più commerciale, da cui magari ricavare anche qualche singolo di successo, Little Games non divenne un best-seller, ma confermò in ogni caso lo status di una band che faceva dell’eclettismo una delle sue armi migliori. Lo dimostrano una title-track che gioca la carta del pop barocco vestendolo di tribalismo, il rock’n’roll virato honky-tonk di “Smile On Me”, il raga-folk acustico di “White Summer (con un assolo di Page che dona all’insieme un’atmosfera quasi orientale, rinforzata da percussioni indiane e tablas suonate da Chris Karan e da un oboe affidato a un non meglio identificato session-man), il garage-rock in orbita The Who di “Tinker, Tailor, Soldier, Sailor” e “No Excess Baggage”, lo strumentale “Glimpses” (un’ipnosi psichedelica con stratificazioni di chitarre, canto simil-gregoriano e sample vari) e una “Stealing Stealing” che ripesca un brano folk tradizionale portato al successo dalla Memphis Jug Band alla fine degli anni Venti. E se con “Drinking Muddy Water” la band ripercorre le strade che portano direttamente al blues chicagoano, la marcetta di “Little Soldier Boy” punta invece verso un universo parallelo in cui i trip lisergici assomigliano a fiabe per l’infanzia.

A fare la parte del leone tra i solchi di Little Games è Jimmy Page, che non solo sperimentò sulla propria chitarra – su suggerimento del violinista scozzese David Keith McCallum, Sr. – l’utilizzo di un archetto per violoncello (cosa che avrebbe, poi, continuato a fare anche con i Led Zeppelin), ma si divertì anche ad alterarne a più riprese il suono, utilizzando accordature aperte[9], un pedale wah-wah e varia effettistica fuzz. Nel frattempo, dal vivo aveva anche iniziato a servirsi di nastri preregistrati, su cui aveva precedentemente impresso rumori vari.

Little Games non vendette tantissimo, ma a rinforzare la posizione degli Yardbirds ci aveva pensato, qualche mese prima, The Yardbirds Greatest Hits, che aveva sfondato il muro della Top 30 di Billboard, diventando il maggior successo commerciale della band sul mercato americano.

Nel frattempo, Simon Napier-Bell, preoccupato per le sorti della band (che, pur avendo fatto un lungo tour attraverso l’Australia, la Nuova Zelanda, la Francia e la Danimarca, non poteva contare su introiti soddisfacenti), aveva chiesto a Peter Grant di prendere il suo posto di manager. Come ricorderà lo stesso Grant, al suo arrivò egli si rese conto che non c’era molto da fare per migliorare le sorti della band. Tuttavia, facendo leva sul suo senso pratico, riuscì a garantirle una certa stabilità economica e ciò nonostante essa avesse deliberatamente scelto di non suonare dal vivo il materiale più recente (quello, per intenderci, proveniente dalla session di Little Games e relativamente più pop, secondo i desiderata della Epic e di Mickie Most), concentrandosi, invece, sulla riproposizione dei brani più avventurosi dei suoi inizi, ma anche sulla rilettura di cose lontane dal proprio orticello, come “I’m Waiting for the Man” dei Velvet Underground, “Most Likely You Go Your Way And I’ll Go Mine” di Bob Dylan e “Dazed And Confused” del relativamente sconosciuto cantautore californiano Jake Holmes, che nell’agosto del 1967 aveva aperto un concerto newyorkese degli Yardbirds. “Dazed And Confused”, che Page avrebbe portato in dote anche nei futuri Led Zeppelin (lo trovate alla fine del lato A del loro epocale debutto del 1969), divenne, con un testo leggermente modificato e un nuovo arrangiamento (forte di un’introduzione e di una sezione improvvisata in cui si ascolta la chitarra suonata con l’archetto), uno dei momenti topici dei concerti degli Yardbirds a cavallo tra la fine del 1967 e il 1968. Insieme ad altre registrazioni live (catturate durante l’ultimo tour americano della band) e a diversi demo, “Dazed And Confused” finirà su Yardbirds ‘68.

Nel frattempo, all’interno della band iniziavano a montare le tensioni tra quelli che volevano spostare il baricentro della musica verso sonorità più folk e pop (Jim McCarty e Keith Relf) e quelli che, invece, desideravano proseguire lungo la traiettoria di un sound potente e vagamente psichedelico (Jimmy Page). Nel gennaio del 1968 venne pubblicato il singolo “Goodnight Sweet Josephine” / “Think About It” e non fu un caso che il lato A e il lato B riflettessero proprio la diversità di vedute tra le due fazioni interne alla band. Altro materiale venne registrato dal vivo in quel di New York tra marzo e aprile, ma nessuno dei membri della band se ne disse entusiasta, forse anche presagendo che l’avventura della band era ormai agli sgoccioli. Tuttavia, quando i Led Zeppelin divennero la gallina dalle uova d’oro dell’industria discografica (cioè, subito dopo aver pubblicato il loro primo disco), la Epic cercò di battere cassa rilasciando Live Yardbirds: Featuring Jimmy Page (settembre 1971), che raccoglieva brani provenienti da uno di quei concerti newyorkesi del 1968.

Dopo aver suonato due concerti in quel di Los Angeles (31 maggio e primo giugno, documentati sul bootleg Last Rave-Up in L.A.) e un altro paio in Alabama (4-5 giugno), gli Yardbirds persero per strada Relf e McCarty (per la diversità di vedute di cui si è detto poc’anzi). Tornarono quindi in Inghilterra, dove suonarono il loro ultimo concerto al College of Technology di Luton. Era il 7 luglio 1968.

A quel punto, Jimmy Page sembrava rivolto verso una carriera solista, eppure, giusto qualche mese dopo, per ragioni contrattuali, insieme a Dreja continuò a lavorare intorno all’idea di una nuova formazione degli Yardbirds, con un sound trasformato in un collage di suoni e arricchito dalla presenza di un mellotron, uno strumento musicale a tastiera la cui fama era in forte ascesa grazie al suo utilizzo nell’ambito dell’allora nascente progressive-rock. Alla fine, Dreja decise di lasciar perdere, rivolgendo la sua attenzione al campo della fotografia. Page, invece, non si diede per vinto e varò il progetto New Yardbirds, con John Paul Jones (vero nome James Baldwin) al basso, Robert Plant alla voce e John Bonham alla batteria. Di lì a poco, la band avrebbe cambiato nome in Led Zeppelin, andando a scrivere una delle storie più avvincenti della musica rock.

Nel 1992, dopo una serie di poco esaltanti esperienze in campo musicale, Jim McCarty e Chris Dreja, coadiuvati dal cantante e bassista John Idan, rimisero in piedi gli Yardbirds. Grazie all’appoggio del manager Peter Barton, per un decennio circa la band suonò molto dal vivo, ottenendo riscontri di pubblico più che soddisfacenti, cosa che portò naturalmente all’idea di registrare un nuovo disco. Uscito nel 2003, Birdland è un disco per i fan ad oltranza della band inglese, di sicuro stuzzicati dalla possibilità di riascoltare, oltre a qualche brano inedito, nuove versioni dei loro hit degli anni Sessanta, impreziositi dalla presenza, oltre che del vecchio amico Jeff Beck (nel brano “My Blind Life”), di alcuni ospiti di lusso, tra cui Joe Satriani, Steve Vai, Slash, Brian May e Steve Lukather.

Seguiranno tanti altri concerti, dischi dal vivo, qualche compilation. A tutt’oggi, la band è ancora attiva e ha suonato il suo ultimo concerto in ordine di tempo nel marzo scorso.

Note:

  1.  La tabla è un tamburo a una sola pelle appartenente alla tradizione musicale indiana
  2. Il bending, termine inglese che significa “piegatura”, è un effetto di glissando che mira ad alterare una nota musicale di partenza fino a portarla a una più alta nota di arrivo. L’intervallo tra le due note spazia dal semitono ai due toni, a seconda dei limiti fisici dello strumento utilizzato. (Wikipedia)
  3. Proprietà di uno strumento musicale di mantenere (in inglese sustain) il suono nel tempo dopo essere stato suonato. Designa il lasso temporale entro cui il suono è udibile prima di esaurirsi. (Wikipedia)
  4. Espressione che prevede che le note di una frase melodica siano accostate l’una all’altra senza interruzioni, in modo che il suono dell’una inizi non appena cessa quello della precedente. (Wikipedia)
  5. A differenza dell’improvvisazione tonale (basata su progressioni armoniche), quella modale è un’improvvisazione che utilizza strutture che fanno leva su pochissimi accordi, tenuti per più misure, e sui quali l’improvvisatore privilegia l’utilizzazione di scale “diverse” dalle scale maggiore e minore.
  6. Gianfranco Salvatore, I primi 4 secondi di Revolver. La cultura pop degli anni Sessanta e la crisi della canzone, EDT, 2016, pag. 259
  7.  Ivi, pag. 257
  8. Record Collector, n. 492, maggio 2019
Discografia Consigliata

For Your Love (1965)
Having a Rave Up With the Yardbirds (1965)
Yardbirds [Roger the Engineer] (1966)
Little Games (1967)

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