Jerry Lee Lewis

“Datemi i soldi e un pianoforte e, nel giro di quindici minuti, vi ritroverete tutti a urlare e saltare. Posso cantarvi una canzone diecimila volte, ma ogni volta in modo diverso, come se fosse nuova.”

Parole di Jerry Lee Lewis, detto “The Killer”, la prima feroce incarnazione dello spirito più ribelle e anarchico del rock’n’roll.

Nato in una famiglia povera a Ferriday, Louisiana, nel 1935, il piccolo Lewis fu iscritto dalla madre a un college cristiano, nella speranza che potesse, durante la sua vita, servire il Signore cantandone le lodi.

Secondo la leggenda, però, durante una cerimonia Jerry si lanciò sul pianoforte (lo strumento che aveva imparato a suonare dopo aver messo da parte la chitarra) in una versione boogie-woogie dell’inno religioso “My God Is Real”, un azzardo che gli costò l’immediata espulsione dal college. La scelta di quel brano non era stata casuale: al boogie-woogie, Jerry si era avvicinato attraverso l’ascolto della musica barrelhouse, che di quel genere rappresentava una versione più violenta e rozza. Altre influenze gli arrivarono dalla musica country & western, dal jazz, dallo swing delle big band e dal gospel bianco.

Tornato a casa, Jerry contrasse il suo primo matrimonio con Dorothy Barton, cui restò legata appena venti mesi. Ancor prima di ottenere il divorzio dalla prima moglie, si sposò nuovamente, questa volta con Jane Mitchum. I benpensanti erano serviti. Nel frattempo, iniziò a frequentare la scena del nascente rock’n’roll, esibendosi in diversi locali.

Sconvolto dall’ascesa della stella di Elvis Presley, un bel giorno decise di presentarsi alla porta della Sun Records, lasciando di stucco l’assistente di Sam Phillips, Jack Clement, al quale rivelò di essere capace di suonare il pianoforte al pari, se non meglio, di Chet Atkins (solo che, come dire?, Chet Atkins era un chitarrista!…) Quando Jerry mostrò quello che sapeva fare, Clement non ci pensò su due volte e gli fece registrare “Crazy Arms” (un brano country di Ray Price), che sarebbe uscito, nel dicembre del 1956, come singolo con l’inedita “End Of The Road” sul retro.

Fu però il suo secondo singolo, “Whole Lotta Shakin’ Goin’ On”, uscito nell’aprile dell’anno successivo, a far esplodere la bomba, grazie a un trascinante e lascivo connubio di honky-tonk e rhythm and blues che si poteva chiamare in un solo modo: rock’n’roll!

Come on over baby, whole lotta shakin’ goin’ on
Yes I said come on over baby, baby you can’t go wrong
We anin’t fakin’ a whole lotta shakin’ goin’ on

Il brano, originariamente scritto da Dave “Curlee” Williams, vendette oltre un milione di copie, lanciando il nome di Jerry Lee Lewis tra gli astri della nuova musica giovanile.

Sull’onda del successo, il 28 luglio di quello stesso anno fece la sua prima apparizione televisiva allo Steve Allen Show, dove, con i suoi capelli biondi scomposti e gli occhi spiritati, suonò la sua hit lanciandosi in una performance carica di selvaggia energia. I giovani lo amarono all’istante, i loro genitori e tutto l’establishment americano lo inserirono, invece, nella lista dei nemici da combattere. Fu chiaro, in quel momento, che Jerry Lee Lewis possedeva un impatto ben più rivoluzionario dello stesso Elvis Presley, perché le sue vibrazioni erano scopertamente anticonformiste e la sua musica rappresentava il simbolo di un assalto senza limiti alla roccaforte del buonismo.

Nel suo febbricitante stile pianistico convivevano elementari figure boogie, glissando impetuosi, assoli travolgenti, con i bassi martellanti della mano sinistra ad accompagnare i robusti accordi della destra. Quanto alla voce, essa era un torrente in piena, il perfetto contraltare di un pianoforte in perenne agitazione.

Dopo averlo visto in TV, Otis Blackwell, un cantautore e compositore di colore, decise di avvicinare Lewis per proporgli un brano che aveva scritto da poco insieme a Jack Hammer. Lewis accettò e il 15 novembre del 1957 nei negozi di dischi arrivò “Great Balls Of Fire”, il brano simbolo del suo oltraggioso rock’n’roll, forte di un ritmo d’impronta boogie continuamente spezzato e di una performance vocale perfetta nel sottolineare le diverse sfaccettature emotive di un testo dedicato ai timori e ai tremori della prima volta di due ragazzi innamorati.

Durante le registrazioni, Lewis, forse memore dello zolfo e del fuoco (“brimston and fire”) che Dio aveva promesso a tutti i peccatori, iniziò a temere che quelle “vampate di fuoco” (un’espressione del Sud degli Stati Uniti che stava a indicare qualcosa di pazzesco) lo avrebbero condotto direttamente alle soglie dell’inferno. Sam Phillips dovette armarsi di santa pazienza e dare fondo a tutta la sua conoscenza della Bibbia per riportarlo alla calma. Così, dopo ore di accesa discussione, Lewis si decise a registrare “Great Balls Of Fire”, un brano destinato a vendere cinque milioni di copie e a restare nell’immaginario collettivo come uno dei momenti cardine di quell’indimenticabile stagione.

You shake my nerves and you rattle my brain
Too much love drives a man insane
You broke my will
But what a thrill
Goodness gracious, great balls of fire!

Nell’ambito del blues e del rhythm and blues non erano di certo mancati i brani dedicati all’esperienza del sesso. Eppure, di solito essi esprimevano più che altro il desiderio di consumare l’atto sessuale, mentre quello che ascoltiamo dalla voce di Lewis riguarda l’atto stesso, colto sul momento.
Nel 1958, fu la volta di “Breathless” e “High School Confidential”, singoli che consolidarono il suo ruolo di star assoluta del rock’n’roll. Non pago di aver già messo a soqquadro la morale dei benpensanti con la sua musica, nel corso di quello stesso anno Lewis pensò bene di sposare Myra Brown, una sua cugina di terzo grado che, all’epoca, aveva appena tredici anni!

Nel giro di qualche mese, tutti i principali media del paese lo boicottarono, dando un duro colpo alla sua carriera. Aveva fatto in tempo, comunque, a registrare il suo primo LP, chiamato semplicemente Jerry Lee Lewis. Privo delle sue hit più clamorose, il disco è un discreto amalgama di accensioni rock’n’roll (la martellante “Put Me Down”, le trascinanti “Ubangi Stomp” e “When the Saints Go Marching In”) e retaggi country.

Costretto dal bando a suonare soltanto in locali di terz’ordine, Lewis continuò comunque a registrare musica, pubblicando, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, singoli tutt’altro che disprezzabili, tra cui “Loving Up A Storm”, “Let’s Talk About Us” e “Little Queenie” (tutti usciti nel 1959) e “What I’d Say” (1961).

Nel 1962, l’album Jerry Lee’s Greatest raggiunse la quattordicesima posizione della classifica inglese e questo nonostante il disco fosse poco esaltante, fatta eccezione per il ripescaggio di “Great Balls Of Fire” e poco altro.

Nel 1964, con The Golden Hits of Jerry Lee Lewis il nostro si fece nuovamente largo anche nelle classifiche americane. In quello stesso anno, per la precisione il 5 di aprile, Lewis, supportato dalla band inglese The Nashville Teens, registrò allo Star Club di Amburgo, in Germania, Live at the Star Club, Hamburg, destinato a passare alla storia come uno dei dischi dal vivo più dirompenti e memorabili dell’epopea rock’n’roll. Accolto da un pubblico in delirio, Lewis chiarisce subito come stanno le cose con una vertiginosa “Mean Woman Blues”: le sue dita svolazzano sul pianoforte, percuotendolo a più non posso, mentre intorno è tutto un florilegio di battimani, urla e fischi, un’atmosfera rinfocolata, di volta in volta, da altri numeri trascinanti come “High School Confidential”, “Great Balls of Fire”, “Hound Dog”, “Long Tall Sally”, “Whole Lotta Shakin’ Goin’ On” e dalle due parti di “What’d I Say”.

Dato che Live at the Star Club, Hamburg era stato pubblicato solo in Europa dalla Philips, la Smash (l’etichetta cui, all’epoca, era legato Lewis) decise di pubblicare anche negli Stati Uniti un disco dal vivo. Ne venne fuori The Greatest Live Show On Earth (registrato a Birmingham, in Alabama), un disco apprezzabile ma non paragonabile a quello catturato in terra tedesca.

Data la difficoltà di mettere del tutto a tacere lo scandalo generato dal suo matrimonio con la cugina e vista la crescente difficoltà di realizzare nuovi singoli di successo, nel 1968 Lewis decise di darsi a uno dei suoi primi amori, la musica country, registrando un onesto album, Another Place, Another Time, che balzò al terzo posto della classifica di Billboard, lo storico settimanale americano dedicato alla musica.

Fino al 1977, Lewis riuscirà a piazzare ben diciassette singoli nella Top Ten di musica country. Pochissimi, in ogni caso, furono i momenti veramente memorabili: “Invitation To Your Party“, ” One Minute Past Eternity“, quella “Me and Bobby McGee” scritta da Kris Kristofferson, una “Chantilly Lace” che ripescava l’ardore rock’n’roll dei giorni migliori e “I’ll Find It Where I Can“.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, in piena era di ruminazioni punk e post-punk, Lewis tornò finalmente al rock’n’roll con l’omonimo disco del 1979, mescolando, dunque, in When Two Worlds Collide (1980), gran parte delle sue passioni musicali (dal country all’honky-tonk, dal soul all’old time jazz, oltre, ovviamente, all’immancabile rock’n’roll). I due dischi ebbero ottimi riscontri di critica, riportando ancora una volta in auge la sua stella.

Nel frattempo, però, la sua vita privata procedeva tra alti e bassi. Si era risposato ancora una volta, aveva perso una figlia a causa di un tragico incidente e continuava a barcamenarsi tra droga e alcol. Nel 1989, il regista Jim McBride diresse il film Great Balls of Fire!, dedicato alla sua vita e alla sua musica. Nonostante tutti gli eccessi, Jerry Lee Lewis è ancora qui tra noi. E, c’è da scommetterci, in questo preciso momento starà sicuramente suonando il suo amatissimo pianoforte, perché, come ebbe a dire una volta:

“Se andrò all’inferno, ci andrò suonando il pianoforte”.

Discografia Consigliata

Live at the Star-Club, Hamburg (1964)
Jerry Lee Lewis (1979)
When Two Worlds Collide (1980)
Original Golden Hits, Vols. 1-2 (antologia, 1999)

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