Joan Baez

Joan Baez, prima grande voce femminile del folk-revival, nonché madrina di tutte le cantautrici a venire, nacque a Staten Island, nello stato di New York, il 9 gennaio del 1941. Il padre lavorava per l’UNESCO e questo la portò a spostarsi continuamente, non solo attraverso gli Stati Uniti, ma anche in giro per il mondo. Ciò consentì alla piccola Joan di fare diverse esperienze in posti diversi, mentre andava, contemporaneamente, sviluppando un interesse per la musica condiviso anche dalle sorelle Pauline e Mimi. A un certo punto, cercando di dare una prima forma alla sua creatività musicale, imparò a suonare, sotto la guida di un amico di famiglia, l’ukulele, uno strumento con cui prese anche a esibirsi dinanzi alla famiglia, comprendendo, poco alla volta, che quella della cantante poteva essere una strada molto affascinante da seguire. La rivelazione decisiva le giunse, comunque, qualche anno dopo, esattamente nella tarda primavera del 1954, quando, insieme a Mimi andò a un concerto nalla palestra della Palo Alto High School (all’epoca, la famiglia Baez viveva in California). Quel concerto era stato organizzato per raccogliere fondi a sostegno del Partito Democratico californiano e, per attirare quanta più gente possibile, era stato chiamato a prendervi parte anche Pete Seeger, icona del rinnovamento folk e simbolo della lotta per i diritti civili. Quella sera, Joan fu molto colpita dall’appello rivolto da Seeger al pubblico in nome di una folk-music che fosse capace di veicolare il sentimento dell’equità sociale.

Trasferitasi, insieme alla famiglia, a Boston, Joan iniziò a frequentare la scena folk di Cambridge, facendosi apprezzare soprattutto per la sua voce, una «squillante mezzosoprano con un vibrato eccezionalmente forte»1. La sua presenza nei circoli folk locali – spesso e volentieri frequentati da cantautori poco intonati, quando non proprio incapaci – rappresentò un vero evento, tanto da spingere sempre più persone a fare la fila per andarla a sentire cantare. Dopo essere diventata un’attrazione del Club 47, nel 1959 fu chiamata dall’impresario Manny Greenhill a registrare Folksingers ‘Round Harvard Square, disco cui parteciparono anche i cantanti Bill Wood e Ted Alevizos e il cui scopo era quello di dare conto della fiorente scena folk di Cambridge. Oltre a duettare con Wood in tre brani (“Kitty South”, “So Soon in the Morning” e “Careless Love”) e con Wood e Alevizos in “Don’t Weep After Me”, la Baez canta sei brani in solitaria, accompagnandosi con la chitarra acustica. “On the Banks of the Ohio”, “Sail Away Ladies”, “Black Is The Colour” e “Lowlands” sono brani che mostrano sicuramente una certa inesperienza, ma nondimeno riescono a lanciare abbaglianti indizi sul talento cristallino della cantautrice, oltre che della sua delicata e fragile espressività.

Albert Grossman, proprietario del locale chicagoano Gate Of Horn, prese nota e le offrì un ingaggio di due settimane. Tra quelli che rimasero impressionati dalle sue performance ci fu anche il cantante Bob Gibson, che le chiese di duettare con lei durante l’imminente Newport Folk Festival. In quell’occasione, grazie all’ottimo successo di pubblico, la Baez si meritò un contratto con la Vanguard Records, l’etichetta discografica che si era fatta un nome negli ambienti del folk-revival grazie soprattutto alla pubblicazione di alcuni dischi dei Weavers.

Il primo frutto di quel nuovo sodalizio fu l’omonimo Joan Baez, uscito nell’ottobre del 1960 e destinato a diventare il primo disco di successo di una cantautrice. Composto per lo più da brani tradizionali che la Baez proponeva durante le serate al Club 47, quell’esordio rivelò a un pubblico più ampio la forza espressiva di una diciannovenne che, al netto di qualche momento poco ispirato, aveva già trovato la sua voce, utilizzando la folk-music come grimaldello per scassinare il cuore degli ascoltatori e parlare loro, con disarmante sincerità e spesso con toni carichi di malinconico abbandono, di paure, tormenti esistenziali e speranze che, nonostante tutto, si mostravano dure e a morire. In tredici movimenti, la folksinger compiva un percorso fatto di contenuta baldanza (“Silver Dagger”, “Wildwood Flower”, “Rake and Rambling Boy”), tenero raccoglimento (“East Virginia”, “Little Moses”) e solenne trepidazione (“House Of The Rising Sun”, “All My Trials”), mostrando un trasporto che, a tratti, assumeva toni quasi mistici. Il disco fu un successo clamoroso: entrato nella classifica di Billboard, vi ci restò per 140 settimane, lanciando la Baez nel firmamento del folk-revival e facendone un’icona musicale.

La sua fama fu rafforzata da Joan Baez, Vol. 2 (settembre 1961), che apriva con una “Wagoner’s Lad” in cui la sola voce taglia il buio-silenzio come un fascio di luce tremolante. A dominare la tracklist sono ancora i brani tradizionali, con i Greenbriar Boys a fare i cori e a spargere profumi di bluegrass in “Banks Of Ohio” e “Pal Of Mine”. Esattamente un anno dopo, sul disco dal vivo Joan Baez in Concert comparve anche la registrazione di “What Have They Done to the Rain”, un brano in cui, per la prima volta, ella affrontava un argomento di urgente attualità: il pericolo del disastro nucleare. Dopo un secondo volume del disco dal vivo, immesso sul mercato nel novembre del 1963 e ancora capace di arrampicarsi fin nelle parti più alti della classifica nazionale (sfondando finanche il muro della Top Ten inglese), la cantautrice si avvicinò sempre più ai movimenti per i diritti civili, diventandone una delle voci più amate e rispettate. Nel frattempo, aveva conosciuto e si era innamorata di Bob Dylan, di cui volle anche rifare alcune canzoni (la prima fu “With God On Our Side”, seguita da “Don’t Think Twice, It’s All Right”, entrambe apparse proprio su Joan Baez in Concert, Part 2). I due suoneranno e canteranno insieme nell’edizione del 1963 del Newport Folk Festival, ripetendosi un mese dopo in quel di Washington, dove si tenne la marcia per i diritti civili. Nell’ottobre del 1964 arrivò, quindi, Joan Baez/5, disco della maturità ormai raggiunta che, oltre al Dylan di “It Ain’t Me Babe”, omaggiava anche il lavoro di altri cantautori dell’epoca, tra cui Phil Ochs (la cui “There But For Fortune” è posta in apertura a ricordarci che bisogna essere misericordiosi nei confronti dei meno fortunati), Johnny Cash (“I Still Miss Someone”) e il cognato Richard Fariña (“Birmingham Sunday”). A dimostrazione della volontà di allargare il suo raggio d’azione e nonostante il rischio di apparire inutilmente pretenziosa, in “Bachianas Brasileiras No. 5 – Aria” (scritta del compositore brasiliano Villa-Lobos), la Baez si trasforma, invece, in una cantante d’opera alle prese con un testo in lingua portoghese, mentre otto violoncelli disegnano uno sfondo sonoro tanto cupo quanto dolente.

Tramontata la storia d’amore con Dylan, la Baez proseguì il suo cammino nell’ambito di un cantautorato folk il cui obiettivo primario era rappresentato dal raggiungimento dell’equilibrio fra tradizione e modernità. Su Farewell, Angelina (ottobre 1965), la “svolta elettrica” di Dylan del luglio precedente è un totem che, molto indistintamente, si avverte sullo sfondo, tanto che la presenza della chitarra elettrica di Bruce Langhorne è davvero sfuggente. Ma Dylan è ancora una delle stelle più luminose del suo universo cantautoriale, come dimostrano la title-track, “Daddy, You Been on My Mind”, “It’s All Over Now, Baby Blue” e “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”. Altri brani da ricordare sono “Ranger’s Command” di Woody Guthrie e la splendida “Colours” del menestrello inglese Donovan.
Allontanandosi per la prima volta dal formato standard del cantutorato folk, con Noël (novembre 1966) la Baez offrì, quindi, la sua versione di “album natalizio”, aiutata dal compositore e arrangiatore Peter Schickele, che imbastì una serie di composizioni chiaramente ispirate alla musica da camera, permettendo alla di lei voce di mostrare tutto il suo fascino austero ed evocativo.

Quando la collaborazione con Schickele si cristallizzò intorno a un repertorio che mediava tra folk tradizionale e sue varianti pop e rock, il risultato fu Joan (agosto 1967), disco che regalò agli appassionati anche una cover di “Eleanor Rigby” dei Beatles. Ma è altrove che vanno rintracciati i momenti più ispirati di uno dei momenti migliori della sua discografia e, per la precisione, in “Turquoise” (Donovan), “The Lady Came from Baltimore” e “If You Were a Carpenter” (entrambe di Tim Hardin), nell’autografa “Saigon Bride” e in una “Children of Darkness” tratta dal repertorio di Richard Fariña, tragicamente scomparso, un anno prima, all’età di ventinove anni. Baptism (giugno 1968) completò la trilogia di lavoti realizzati con Schickele: la Baez vi “interpreta” poesie (William Blake, James Joyce, John Donne, Arthur Rimbaud e Federico Garcia Lorca tra i poeti scelti) immersa in delicati fondali cameristici. Un lavoro ambizioso, ma raramente efficace.

A quel punto, per rimettersi in carreggiata, volò a Nashville, dove, coadiuvata da musicisti country, registrò una manciata di brani di Bob Dylan, alcuni dei quali ancora inediti. Il risultato fu Any Day Now: Songs of Bob Dylan (dicembre 1968). Dalle stesse session di Nashville nacque anche David’s Album (maggio 1969), dedicato al marito David Harris (all’epoca in carcere per obiezione di coscienza) e dominato da morbide, quando non innocue sonorità country-rock. L’iniziale “If I Knew” e la rilettura del tradizionale “Poor Wayfaring Stranger” sono, in ogni caso, due brani di tutto rispetto.

Nell’Agosto successivo, invece, la Baez fu tra gli artisti invitati a partecipare al festival di Woodstock, vera e propria apoteosi del sogno controculturale. In verità, come poi confermarono, nel dicembre di quello stesso 1969, i tristi fatti di Altamont, quel sogno era destinato a restare tale, sacrificato sull’altare della violenza e di una musica rock che andava ormai sempre più in direzione di un tranquillo e ben più remunerativo disimpegno. La svolta country di One Day At A Time (gennaio 1970) riflettè proprio quel senso di delusione, ma a conti fatti si trattò di un disco costruito sul mestiere più che su una sana ispirazione (l’unico brano meritevole di una segnalazione è l’autografa “Sweet Sir Galahad”, ispirato alla storia d’amore tra la sorella Mimi e il suo secondo marito, Milan Melvin).

Nel giugno del 1971, dopo aver collaborato (in qualità di autrice di testi) con Ennio Morricone alla realizzazione della colonna sonora del film Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, il doppio Blessed Are… le regalò un piazzamento nella Top 20 grazie a “The Night They Drove Old Dixie Down”, un brano scritto da Robbie Robertson e originariamente apparso nel 1969 sul secondo disco della Band. Blessed Are… è un solido esercizio conteso tra roots-rock, folk, gospel e pop, con la Baez a vergare quasi metà dei brani in scaletta, anche se solo in qualche caso l’ispirazione sembra essere ancora quella dei bei tempi (“Three Horses”, “Gabriel And Me” e, soprattutto, “Fifteen Months”).

Nel 1972, insieme a una delegazione pacifista, la Baez volò nel Vietnam del Nord, rischiando la vita durante un bombardamento ordinato da Richard Nixon. I circa ventitré minuti di “Where Are You Now, My Son”, brano di chiusura dell’omonimo album del maggio 1973, documentano proprio quell’avventura in territorio di guerra, miscelando registrazioni sul campo, spoken word e linee di pianoforte. Il disco – appesantito proprio dal suddetto esperimento – contiene anche due brani scritti dalla sorella Mimi: “Mary Call” e “Best of Friends”.

Sempre attenta a cercare obiettivi contro cui scaricare i suoi strali pacifisti, l’anno successivo, in Gracias a la vida (Here’s to Life) (cantato in spagnolo), se la prenderà, invece, con il golpe cileno ordito dal generale Augusto Pinochet ai danni del presidente, democraticamente eletto, Salvador Allende. Fu, quello, un periodo molto intenso, quanto a impegno sociale e politico, per la nostra artista. Nel frattempo, il mondo del pop e del rock stava andando in tutt’altra direzione, il che portò la Baez a dover fare di necessità virtù, pur di restare a galla in una scena musicale in cui, ormai, la sua era una posizione molto marginale. Così, nel 1975, quando ormai la guerra in Vietnam era finita, l’artista decise di concedersi un’escursione in territori più frivoli, con questo venendo incontro anche alle richieste della sua etichetta, la A&M, che da tempo le chiedeva un disco capace di avere riscontri commerciali più consistenti.

Supportata da veterani del mondo del jazz e da una produzione più corposa del solito, con Diamonds & Rust (aprile 1975) la Baez ottenne il suo maggior successo, in termini di vendite, degli anni Settanta. Il disco è inaugurato dalla title-track, che, oltre a rappresentare una delle sue migliori composizioni in assoluto, costituisce anche una dolceamara rievocazione del suo tormentato rapporto con Bob Dylan. Il risultato è un bellissimo incrocio di folk-rock cristallino e parole cariche di tenera nostalgia.

Well you burst on the scene
Already a legend
The unwashed phenomenon
The original vagabond
You strayed into my arms
And there you stayed
Temporarily lost at sea
The Madonna was yours for free
Yes the girl on the half-shell
Would keep you unharmed

(…)

Now you’re telling me
You’re not nostalgic
Then give me another word for it
You who are so good with words
And at keeping things vague
Because I need some of that vagueness now
It’s all come back too clearly
Yes I loved you dearly
And if you’re offering me diamonds and rust
I’ve already paid

Tu infiammavi le scene
eri già una leggenda
il fenomeno senza maestri
il vagabondo primordiale
ti perdesti tra le mie braccia
E li sei rimasto
a naufragare per qualche tempo
La Madonna era tua e senza sforzo
Sì, la ragazza sulla conchiglia
ti avrebbe protetto da ogni male

(…)

E ora mi dici
di non provare nostalgia
e allora dammi un’altra parola da usare al suo posto
tu che sei sempre stato così bravo con le parole
e a lasciare tutto sul vago
Avrei così bisogno di questa tua vaghezza proprio ora
che tutto mi ritorna in mente con troppa chiarezza
ti ho amato dolcemente
e se hai intenzione di offrirmi diamanti e ruggine
io ho già pagato per questo

Ma il disco brilla anche grazie alle convincenti riletture di “Fountain Of Sorrow” (Jackson Browne), “Never Dreamed You’d Leave in Summer” (Stevie Wonder), “Jesse” (Janin Ian), “Simple Twist of Fate” (ancora Dylan, che la Baez prova anche a imitare nell’inflessione vocale), e alle autografe “Dida” (duetto con Joni Mitchell fatto di incanti e miraggi) e, soprattutto, “Children and All That Jazz”, un’intrigante escursione in territori jazz-pop, dove la sua voce mostra di trovarsi a proprio agio anche con le trame più complesse.

Forse stuzzicato dall’ascolto di “Diamonds & Rust” o, forse, semplicemente desideroso di rinsaldare i rapporti, nell’ottobre di quel 1975 Bob Dylan invitò la sua compagna di un tempo a seguirlo nella serie di concerti denominata Rolling Thunder Revue. Tra il 1976 e il 1979, seguì, quindi, un trittico di dischi che fece segnare un deciso passo indietro, sia in termini commerciali che qualitativi, con l’ultimo in ordine di tempo – Honest Lullaby – alla ricerca di un posto al sole sulla scorta di sonorità smaccatamente radio-friendly. A quel punto, la Baez entrò in una lunga fase di stallo, ritirandosi a vita privata, anche se mai del tutto abbandonando il suo impegno per i diritti civili.

Tornerà a fare musica nel 1987, anno in cui fu pubblicato il deludente Recently, che, accanto a un paio di ballate folk autografe (la title-track e “James & The Gang”) conteneva, tra le altre cose, cover di Dire Straits (“Brothers In Arms”) e Peter Gabriel (“Biko”). Il successivo Speaking Of Dreams (novembre 1989) cercherà, invece, di tornare alla canzone di protesta con “China”, brano che traeva spunto dalle recenti proteste della popolazione cinese nella Piazza di Tienanmen.
Complessivamente più godibile, grazie a un sapiente mix di folk, pop, country e jazz, ben esemplificato dall’iniziale title-track, fu, invece, Play Me Backwards (ottobre 1992), per registrare il quale la Baez era tornata, dopo venti anni dalla sua ultima volta, a registrare negli studi di Nashville.

Durante gli anni Novanta, mentre tutta la scena del cantautorato femminile le tributerà i dovuti onori, la Baez scomprave dai radar delle pubblicazioni discografiche, torando in pista solo nel 2003 con Dark Chords on a Big Guitar, disco dignitoso e sincero, al pari di Day After Tomorrow (2008) e del recentissimo Whistle Down the Wind, uscito a marzo di quest’anno. Lavori tutt’altro che imprescindibili, ma assolutamente dignitosi nel ribadire lo status leggendario della folksinger per antonomasia.

Note:

  1. David Hajdu, Positively 4th Street. Come quattro ragazzi hanno cambiato la musica, Arcana, 2004, pag. 25
Discografia Consigliata

Joan Baez – Joan Baez (1960)
Joan Baez – Joan Baez / 5 (1964)
Joan Baez – Joan (1967)
Joan Baez – Diamonds & Rust (1975)

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