The Kinks (Parte 1)
Quando si pensa ai grandi protagonisti della musica rock inglese degli anni Sessanta, la stragrande maggioranza degli appassionati e degli addetti ai lavori pensa subito a Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd e Who. Ma, per onestà intellettuale, a questo quartetto bisognerebbe almeno aggiungere il nome degli ancora fin troppo sottovalutati Kinks. Coniugando la ricerca sul pop con una spiccata sensibilità “british”, la band dei fratelli Ray e Dave Davies pennellò, infatti, non solo alcuni dei brani più “duri” della sua epoca, ma anche tante memorabili pop-song caratterizzate, oltre che da uno spiccato piglio “british”, anche da quello che si potrebbe definire come “realismo poetico”.
La loro storia ebbe inizio nel 1962, quando i fratelli Davies (Raymond, detto Ray, e Dave), originari del sobborgo londinese di Muswell Hill, annoiati dalla solita routine quotidiana e spinti da una precoce passione per la musica (sono entrambi chitarristi e sono cresciuti ascoltando un po’ di tutto: dal rock’n’roll al jazz, dal music-hall allo skiffle), fondarono il Ray Davies Quartet insieme al bassista Peter Quaife e il batterista John Start. All’inizio, non fu semplice riuscire a trovare un cantante degno di tal nome e, quando alla fine scelsero Rod Stewart (si, proprio quello!), purtroppo per loro le cose non andarono mai per il verso giusto, tanto che, nel giro di qualche mese, Stewart fece armi e bagagli e andò incontro al suo destino.
Alla fine di quel 1962, la band non era ancora riuscita ad ingranare e ciò spinse Ray a guardarsi attorno, decidendo di iscriversi all’Hornsey College of Art, dove approfondì i suoi interessi per il cinema e l’arte in genere, e dove ebbe modo di ascoltare anche molto jazz, rhythm and blues e blues classico, tutte cose che, nel giro di qualche anno, gli sarebbero tornate utilissime. Una volta tornato a casa, chiamò a raccolta suo fratelle e rimise su la band, cui questa volta, ispirato da un film con Vincent Price, fu dato il nome The Ravens. Richiamata l’attenzione di alcuni manager e impresari, la band fece diverse audizioni, ma di un contratto neanche l’ombra. Alla fine, grazie alle manovre dell’impresario americano Shel Talmy, la Pye Records accettò la sfida. Nel frattempo, la band aveva trovato un nuovo batterista in Mick Avory, che vantava studi jazzistici e una brevissima collaborazione con i Rolling Stones, ma quando questi erano ancora un segreto per pochi intimi e, soprattutto, non avevano ancora deciso di chiamarsi in quel modo.
Messe a posto le questioni di line-up (con i fratelli Davies a chitarra e voce, Peter Quaife al basso e Mick Avory alla batteria, quest’ultimo invero sostituito, durante le prime registrazioni in studio, dal più esperto Bobby Graham), e divenuti una volta e per sempre The Kinks – un nome che voleva probabilmente evidenziare la loro diversità, la loro “devianza” (kinkiness in inglese; ma kinky, in slang, può anche indicare un omosessuale…) – i quattro incisero e pubblicarono, nel febbraio del 1964, il loro primo singolo, comprendente la cover di “Long Tall Sally” (Little Richard) e l’autografa “I Took My Baby Home”, il cui andamento saltellante, impreziosito da una briosa armonica, era in forte debito con la “Love Me Do” che i Beatles avevano pubblicato giusto qualche mese prima. Il singolo, così come il successivo “You Still Want Me” / “You Do Something to Me” (entrambi firmati da Ray, qui alle prese con due stuzzicanti numeri di Mersey Beat, la variante pop del rock’n’roll che andava di moda in quel di Liverpool), non riuscì ad entrare in classifica, mettendo un po’ di ansia ai due fratellini Davies.
A quel punto, l’impresario Larry Page consigliò a Ray di scrivere qualcosa nello spirito di “Louie Louie”, il brano dei Kingsmen che aveva un sound relativamente più duro delle produzioni che all’epoca andavano per la maggiore e che, proprio per questo motivo, era già in rampa di lancio per diventare un culto assoluto nel circuito del cosiddetto “garage-rock”. Cercando di ricavare un suono più potente, Ray si mise quindi ad armeggiare con il suo amplificatore (all’epoca, non c’erano tutte quelle diavolerie di cui dispongono oggi i chitarristi, e si doveva fare di necessità virtù!), fino a bucarne la membrana del cono dal centro verso l’altro (ricordate Link Wray?). Quello che ascoltò, una volta collegata la chitarra, gli piacque tantissimo. Si mise, quindi, a sperimentare sulla sequenza di accordi di “Louie Louie”, tenendo bene a mente anche quella di “Tequila”, un brano pubblicato dai Champs nel 1958. Alla fine, saltò fuori un riff destinato a fare epoca, quello di “You Really Got Me”, singolo pubblicato nell’agosto del 1964 e accompagnato sul retro da “It’s All Right”. Il riff distorto che innerva “You Really Got Me” è di sicuro uno dei momenti più influenti degli anni Sessanta: è lì che, di solito, si fa risalire l’origine di tutte le sonorità più ruvide e “metalliche” del rock. Tuttavia, i «power chords» (bicordi suonati simultaneamente e resi ancora più potenti dall’uso della distorsione) erano stati già sperimentati, qualche anno prima, dal già citato Link Wray. Si può dire, in ogni caso, che la popolarità di “You Really Got Me” (primo posto nella classifica inglese, settimo in quella statunitense) fu tale da contribuire a sdoganare, una volta e per tutte, quel suono distorto e ossessivo, un suono che avrebbe portato, di lì a quale anno e attraverso gli sviluppi più aggressivi del garage-rock, alla nascita dell’“hard-rock”.
Ad aumentare la dose di lasciva aggressività di “You Really Got Me” contribuisce anche l’assolo di chitarra suonato da Dave, sbrigliato ed euforico come si conviene a un brano che parla di sesso così come potrebbe farlo un giovane ragazzo che bazzica la strada e delle buone maniere ha un’idea molto personale.
Girl, you really got me now
You got me so I don’t know what I’m doin’
Girl, you really got me now
You got me so I can’t sleep at night
Girl, you really got me now
You got me so I don’t know
where I’m goin’, yeah
Oh Girl, you really got me now
You got me so I can’t sleep at night
You really got me
You really got me
You really got me
Ragazza, mi hai davvero messo in moto
mi hai preso così non so cosa sto facendo
Ragazza, mi hai davvero preso ora
mi hai preso così non posso dormire la notte
Ragazza, mi hai davvero preso ora
mi hai preso così non so
dove sto andando, si
oh ragazza, mi hai davvero preso ora
mi hai preso così non posso dormire la notte
Mi hai davvero preso
Mi hai davvero preso
Mi hai davvero preso
“You Really Got Me”, insieme all’altro singolo, “I Took My Baby Home”, troverà posto sul primo Lp della band, intitolato semplicemente Kinks (ottobre 1964), un disco vivace ma tutto sommato ancora acerbo, contenente otto cover su complessive quattordici tracce. Nei suoi solchi, i quattro si confrontano con il blues e il rhythm and blues (“Long Tall Shorty”, “I’m a Lover Not a Fighter”, “Cadillac”, “Revenge”, “Got Love If You Want It”), il rock’n’roll (“Beautiful Delilah” e “Too Much Monkey Business”, entrambe figlie del talento di Chuck Berry) e una love-song che omaggia le sonorità più morbide degli anni Cinquanta (“Stop Your Sobbing”). E se “So Mystifyng” evoca i Rolling Stones più orecchiabili, “Just Can’t Go to Sleep” strizza ancora l’occhio al Mersey Beat. Completano la scaletta due mediocri versioni di brani tradizionali folk che il produttore Shel Talmy aveva riarrangiato dopo averli ascoltati su My Eyes Have Seen, disco del 1959 di Odetta: “Bald Headed Woman” e “I’ve Been Driving On Bald Mountain”.
Per la cronaca, in “Bald Headed Woman”, “I’ve Been Driving On Bald Mountain” e “I’m a Lover Not a Fighter” suonano anche Jimmy Page (chitarra acustica a 6 e 12 corde) e il futuro tastierista dei Deep Purple, Jon Lord.
Nella versione americana di Kinks, ridotta a undici brani, non furono inseriti tre brani: “I Took My Baby Home”, “I’m a Lover Not a Fighter” e “Revenge”.
A fine ottobre, la band fece uscire il suo quarto singolo, “All Day And All Of The Night” / “I Gotta Move”, con il lato A a scimmiottare (seppur con una successioni di accordi leggermente più ampia) il riff e la struttura di “You Really Got Me”, cosa che, in ogni caso, non gli impedì di scalare la classifica inglese fino alla seconda piazza. Un mese dopo, sull’Ep Kinksize Session, la band propose una versione beat di “Louie Louie” (contraddistinta da una bombastica pulsazioni di basso), riservandosi ancora escursioni beat (“I’ve Got That Feeling”) e baldorie rhythm and blues (“Things Are Getting Better”), mentre per “I Gotta Go Now” si tolse lo sfizio di costeggiare, con piglio indolente, territori jazzati.
Il 1965 si aprì con un nuovo primato nella classifica inglese, grazie al singolo “Tired Of Waiting For You” / “Come On Now”: il lato A caratterizzato da un pop meditativo ispirato a Ray dal suo recente matrimonio con Rasa Didzpetris; il lato B segnato, invece, da una briosa progressione armonica che faceva ancora tesoro degli insegnamenti di “You Really Got Me”, ma piegandoli a prurigini pop.
Nemmeno il tempo di respirare e la band era di nuovo in carreggiata con Kinda Kinks (marzo 1965), registrato in fretta e furia in appena due settimane, alla fine di un tour che li aveva visti svolazzare tra l’Asia e l’Oceania. Aperto da una “Look For My Baby”, che rispecchia alcune delle caratteristiche basilari del pop di matrice Sixties (armonizzazioni vocali, coretti, baldanza ritmica), il disco è, comunque, tutt’altro che deludente, come molti vorrebbero far credere. Mostra, anzi, i Kinks per la prima volta sulla soglia di una maturità che, anche se giungerà a compimento solo più avanti, qui si lascia già degnamente assaporare, soprattutto grazie al songwriting di Ray Davies, autore di ben dieci dei dodici brani della scaletta. Insomma, Kinda Kinks è un disco che, al netto di qualche caduta di tono (la ballata venata di malinconia di “Something Better Beginning” e le cover di “Naggin’ Woman” di Jimmy Anderson e quella di “Dancing In The Streets”, portata al successo nell’estate precedente da Martha and the Vandellas), procede alternando momenti briosi (il rock’n’roll in upbeat di “Got My Feet on the Ground”, il piano-rock di “Wonder Where My Baby Is Tonight”, “You Shouldn’t Be Sad”, il ripescaggio di “Come On Now”) e altri più meditativi, come il folk-blues vagamente cupo di “Nothin’ in the World Can Stop Me Worryin’ ‘Bout That Girl”, l’intimismo acustico di “So Long”, il folk-pop di “Don’t Ever Change”, e, soprattutto, “Tired Of Waiting For You”. Risalente all’estate del 1964, quando si pensava di farne un singolo (cosa che, poi, sarebbe effettivamente successa, ma solo nel gennaio successivo), quest’ultimo brano mostrò in modo ancora più nitido la grande capacità di Ray Davies di costruire una canzone pop la cui apparente semplicità nasconde rivoli di poetica sofisticazione. Con un terzo posto nella classifica inglese, Kinda Kinks spinse Ray Davies a non fermarsi. Nacque, così, “Ev’rybody’s Gonna Be Happy” / “Who’ll Be the Next in Line”, che rifletteva, soprattutto sul lato A, l’interesse del leader per il soul jazzato dell’Earl Van Dyke Trio, una formazione con cui i Kinks erano andati in tour qualche mese prima. Quella scelta, tuttavia, non consentì alla band di sfondare il muro della Top 20.
Mentre la Pye Records premeva perché le venisse consegnato del materiale più spendibile sul mercato discografico, Ray scrisse “Set Me Free”, il cui riff è ancora in orbita “You Really Got Me”, come del resto lo sarà, e in modo ancora più scoperto, anche quello di “I Need You”, lato B del singolo pubblicato nel maggio successivo. A “Set Me Free”, comunque, manca l’energia selvaggia che caratterizzava il grande classico del 1964, sostituita da una più accentuata tensione introspettiva e da un passo più morbido che ne fanno, al massimo, un figlio illegittimo della lirica indolenza di “Tired Of Waiting For You”.
Nel luglio del 1965 fu la volta di un altro singolo importante, “See My Friends”, accompagnato sul retro da “Never Met a Girl Like You Before”. “See My Friends” rappresenta la prima incisione rock ad esibire chiare influenze indianeggianti. L’ispirazione per la melodia giunse a Ray in quel di Bombay, quando, per puro caso, ascoltò un canto di pescatori, il cui ricordo lo spingerà a creare quella linea di chitarra che riproduce l’ipnotico suono di un sitar. Nel testo, invece, Ray ripensa alla sorella maggiore Rene, morta per problemi cardiaci.
Nel frattempo, le ambizioni delle band di conquistare il mercato oltreoceano subirono un duro colpo quando il sindacato dei musicisti americani le impose un bando di ben quattro anni per “comportamento non professionale”. Ma cos’era accaduto? Invitata a partecipare al programma Where The Action Is, un giorno la band si presentò con un certo ritardo, cosa che fece innervosire molti di quelli che lavoravano per la ABC, il network televisivo che trasmetteva il famoso programma condotto da Dick Clark. Secondo quanto racconta lo stesso Ray nelle sue memorie, la band fu anche bersagliata da diverse tirate anti-britanniche, salvo poi meritarsi il bando di cui si è detto. Accusato il colpo, i Kinks non poterono fare altro che rituffarsi nella loro musica. A settembre venne dunque pubblicato l’Ep Kwyet Kinks, contenente l’ottimismo sbadato di “Wait Till the Summer Comes Along”, una “Such A Shame” dai toni umbratili, la marziale “Don’t You Fret” e, soprattutto, “A Well Respected Man”, una marcetta in stile music-hall con cui Ray si trasforma in un satirico commentatore sociale che indaga usi, costumi, pregi e difetti della borghesia inglese.
‘Cause he gets up in the morning,
And he goes to work at nine,
And he comes back home at five-thirty,
Gets the same train every time.
‘Cause his world is built ‘round punctuality,
It never fails
Perché lui si alza al mattino,
E va a lavorare alle nove,
E torna a casa alle cinque e mezza,
Prende ogni volta lo stesso treno.
Perché tutto il suo mondo ruota intorno alla puntualità,
Non crolla mai
L’intenso e tribolato 1965 dei Kinks si avviò idealmente al termine con la pubblicazione, a fine novembre, di The Kink Kontroversy, un disco ancora altalenante che, in ogni caso, confermava la lenta ma inesorabile maturazione della band. Infatti, pur se ancora appesantito da sterili sortite rock-blues (la cover di “Milk Cow Blues” di Sleepy John Estes e le autografe “Gotta Get the First Plane Home”, “You Can’t Win” e “It’s Too Late”, quest’ultima quasi un omaggio ai Rolling Stones), i Kinks furono in grado di ampliare lo spettro delle loro soluzioni stilistiche, addirittura facendo leva, per l’arrangiamento di “I’m On Island” (brano incentrato sul tema dell’isolamento e della ricerca di un’insperata felicità), su profumi calypso. La cupa filigrana folk-rock di “The World Keeps Going Round” fa pensare a una filiazione dylaniana (la stessa che, evidentemente, pesa su “Where Have All The Good Times Gone”), ma la scansione ritmica tradisce echi di “Ticket To Ride” dei Beatles. “Till the End of the Day” rinnova invece l’interesse per i brani in stile “You Really Got Me”: riff energico, tessuto ritmico incisivo e abbandono all’euforia dell’assolo. Completano il quadro, la ballata carica di fatalismo di “Ring the Bells”, il pop con echi rhythm and blues di “When I See That Girl of Mine”, il beat di “What’s in Store for Me” e la dichiarazione di indipendenza che Dave riversa tra le pieghe di “I Am Free”.
Se, per i motivi di cui si è detto, le vendite dei loro dischi calarono vistosamente negli Stati Uniti, in patria i Kinks continuarono a essere molto apprezzati (The Kink Kontroversy raggiunse la piazza numero 9 della classifica). Nonostante fosse reduce da un esaurimento nervoso, Ray proseguì imperterrito nella scrittura di nuovo materiale che, nel solco di “A Well Respected Man”, si concentrava sull’analisi sociale e sulla raffigurazione di piccoli quadretti di vita quotidiana inglese che trasformeranno la sua band in una delle più sincere e amate espressioni dello spirito “british”. Di “realismo poetico” si è parlato all’inizio di questo racconto: una definizione che ben si addice alla scrittura di Ray, sempre pronta a trasfigurare la realtà con tocchi di delicata poesia. Musicalmente parlando, egli guardava, invece, al vaudeville, al music-hall (come confermerà, nel febbraio del 1966, “Dedicated Follower Of Fashion”, singolo che prendeva di mira tutti i “seguaci della moda”), ovviamente senza dimenticare l’eccitante frenesia del rock’n’roll.
Passarono quattro mesi e l’asticella si alzò ancora con “Sunny Afternoon”, in cui il ripescaggio dello spirito del music-hall divenne ancora più convincente, anche grazie al pianoforte di Nicky Hopkins, uno strumento che doveva far meglio risaltare quel “sentimento dei bei vecchi tempi” che Ray aveva imparato ad apprezzare anche attraverso la lente, spesso ironica e dissacrante, di Noël Coward, commediografo, attore, regista e compositore di canzoni che si meritò il nomignolo di “prima pop star britannica”, nonché di primo vero ambasciatore della “cool Britannia”.
Nel testo di “Sunny Afternoon”, Ray assume la prospettiva di un nobile decaduto, che si lamenta perché tutte le sue ricchezze sono state portate via dall’esattore delle tasse (il “taxman” cantato dai Beatles nella traccia di apertura di Revolver) e adesso si ritrova solo e senza un soldo in una casa vuota.
Una menzione la merita anche il lato B del singolo, occupata da “I’m Not Like Everybody Else”, un garage-rock in cui la dichiarazione di “non essere come gli altri” assume connotazioni ruvidamente innodiche.
“Sunny Afternoon” (che, nel frattempo, si era insediato sulla vetta della classifica inglese) sarà anche uno dei brani portanti di Face To Face (ottobre 1966), che invece si fermerà poco prima della Top Ten. Interamente composto da Ray (fatta eccezione per “Party Line”, che fu scritta insieme a Dave), Face To Face è, oltre che il primo disco veramente significativo dei Kinks, anche uno dei primi concept-album della storia del rock. Il tema portante è lo stile di vita britannico, che Ray osserva sempre con distacco ironico quando non con pungente piglio satirico. Inizialmente, per accentuare il legame tematico che unisce i vari brani, Ray aveva pensato di non separare le tracce, ma di unirle con diversi effetti sonori. La cosa, però, non convinse i capoccia della Pye Records e, così, di quegli effetti restò poco o nulla, sparso qua e là tra i solchi del vinile.
Un telefono squilla e un uomo (si tratta di Grenville Collins, all’epoca uno dei manager della band), risponde con borioso accento aristocratico: inizia, così, la chiassosa e corale “Party Line”, traccia d’apertura di un disco che, con “Rosie Won’t You Please Come Home”, cambia subito atmosfera, affidandosi a un brano chiaroscurale in cui Ray chiede alla sorella Rosie, da poco trasferitasi insieme al marito in Australia, di tornare a casa. Il brano, così come molti altri, è impreziosito dal clavicembalo suonato da Nicky Hopkins, una scelta in linea con la tendenza “barocca” che, nel solco di Beach Boys e Beatles, stava caratterizzando il pop di quegli anni. Reso un nuovo omaggio al music-hall con la spassosissima “Dandy”, il disco incrocia le tonalità agrodolci di “Too Much on My Mind”, in cui Ray trasforma la sua dolorosa esperienza relativa all’esaurimento nervoso in qualcosa di universale.
La più energica “Session man” prende di mira, invece, i musicisti di studio, che sono pagati “per non pensare”, ma solo “per suonare”. Introdotta dall’esplosione di un tuono, “Rainy Day In June” possiede, invece, un feeling sinistro, acuito da cori sussurranti e da un incedere solennemente tetro.
In “House In The Country”, la prospettiva è quella del popolino che, nell’osservare da lontano il “gran signore” chiuso nella sua “casa di campagna”, si augura che, quanto prima, lo stesso possa andare in malora con tutta la sua ricchezza. Con “Holiday in Waikiki” facciamo, invece, un viaggio alle Hawaii, dove tutto è in vendita, alla portata di quanti, per puro spirito consumistico, sono disposti a comprare anche le cose più inutili. “Most Exclusive Residence For Sale” prende ancora di mira l’aristocrazia e le sue spese folli, mentre ciò che più colpisce di “Fancy” è il suo arrangiamento ipnotico da fiaba orientale. Dal canto suo, il delizioso jazzettino di “Little Miss Queen of Darkness” narra delle difficoltà di una ragazza nel riuscire a trovare l’amore, nonostante continui ad andare a ballare in questa o quella discoteca. Dopo il discreto rhythm and blues di “You’re Lookin’ Fine” e il ripescaggio di “Sunny Afternoon”, il disco si chiude con la gioviale “I’ll Remember”, in cui le chitarre imitano il suono del sitar.
Mentre la scena musicale inglese era in piena fibrillazione psichedelica, contribuendo a generare la colonna sonora della cosiddetta «Swinging London» (quell’insieme di tendenze e dinamiche culturali che, per qualche anno, fecero della capitale inglese un irresistibile polo d’attrazione per tutti i giovani desiderosi di lasciarsi alle spalle le “polverose” abitudini dei loro genitori), i Kinks scelsero di andare per la loro strada, continuando a guardare agli stili musicali del passato. Fu proprio affidandosi al solito music-hall che la band riuscì, quasi inaspettatamente, a entrare nuovamente nella Top Ten. “Deadend Street”, questo il nome della facciata A del singolo vincente, piombò sul pubblico inglese con il suo carico di pessimismo e denuncia sociale, questa volta incentrati sulla povertà delle classi sociali più deboli.
Poco prima della fine del 1966, “Mr. Pleasant” (all’inizio pubblicato solo negli altri stati europei e negli Stati Uniti) riaccese la fiammella dell’ottimismo raccontando, a suon di ragtime, la storia di un onesto lavoratore che, dopo anni di durissimo lavoro e sacrifici, riesce a scalare i gradini dell’alta società.Tutta la prima parte del 1967 vedrà i Kinks alle prese con la pubblicazioni di altri singoli, il più importante dei quali è sicuramente “Waterloo Sunset”, uno dei momenti più poetici del pop degli anni Sessanta e non solo. Con il suo movimento lento e avvolgente, e le sue armonie vocali ad evocare luminescenze Beach Boys, “Waterloo Sunset” è il racconto di un uomo innamorato di Londra (si tratta, ovviamente, dello stesso Ray), una città che egli osserva dalla finestra della sua casa, situata nei pressi del Waterloo Bridge, uno dei ponti sul Tamigi. È lì che, un giorno, il narratore scruta da lontano una coppia di giovani innamorati (Terry e July), che s’incontrano ogni venerdì pomeriggio nei pressi della vicina stazione della metropolitana. E mentre attraversano il ponte, circondati dal frastuono delle auto, dei taxi e delle persone che vanno e che vengono, in un infinito tourbillon di gesti, occhiate e distratti ammiccamenti, i due piccioncini non possono fare altro che godersi la loro felicità. Una felicità che è vero paradiso quando si rispecchia nel tramonto che avvolge il Waterloo Bridge.
Terry meets Julie,
Waterloo Station,
every Friday night
But I am so lazy,
don’t want to wander,
I stay at home at night
But I don’t feel afraid
As long as I gaze on Waterloo Sunset,
I am in paradise
Every day I look at the world
from my window
Chilly chilliest evening time,
Waterloo sunset’s fine.
Millions of people swarming like flies
‘round Waterloo underground
Terry and Julie cross over the river
where they be safe and sound
And they don’t need no friends
As long as they gaze on Waterloo Sunset, they are in paradise
Terry incontra Julie,
Waterloo Station,
Ogni venerdì sera
Ma io sono così pigro,
non voglio camminare,
sto in casa la sera
Ma non ho paura
Finché guardo il tramonto sul Waterloo
sono in paradiso
Ogni giorno guardo il mondo
dalla mia finestra
Fredda freddissima serata,
il tramonto su Waterloo Sunset è bello
Milioni di persone sciamano come mosche
Intorno alla metropolitana di Waterloo
Terry e Julie attraversano il fiume
Dove saranno sicuri
E non hanno bisogno di amici
A metà settembre, quando sarà pubblicato Something Else by The Kinks, “Waterloo Sunset” occuperà l’ultima posizione di una tracklist ancora una volta ricca di momenti basilari per la costruzione della leggenda dei Kinks. Accolto freddamente dal pubblico (trentacinquesima piazza nella classifica inglese, addirittura fuori dalla Top 100 statunitense) – un pubblico che evidentemente preferì alle sonorità “d’altri tempi” dei fratelli Davies quelle più à la page della psichedelia, soprattutto dopo il clamoroso successo di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (uscito pochi mesi prima) -, Something Else by The Kinks (che Ray, per la prima volta, produsse insieme a Shel Talmy) vanta una scrittura più sofisticata di Face To Face, ma è un album complessivamente meno coerente.
L’attacco è memorabile: “David Watts” galoppa a ritmo sincopato, mentre Ray dichiara che vorrebbe essere come David Watts, un suo vecchio compagno di scuola diventato, nel frattempo, un abile promoter di concerti. “Death Of A Clown” fu scritta da Dave, che addirittura l’aveva fatta uscire a suo nome, e con grande successo di vendite, qualche mese prima. Anche “Love Me Till the Sun Shines” e “Funny Face” portano la firma del più piccolo dei fratelli Davies: la prima, un grintoso beat psichedelico guidato da un riffing tonitruante; la seconda, un’intricata costruzione in cui si alternano momenti più energici ad altri quasi eterei.
Arrangiata con clavicembalo e violini, “Two Sisters” diventa metafora del tormentato rapporto che Ray (dal carattere introverso e sovente paranoico) aveva con suo fratello Dave, più estroverso e deciso a godersi la vita fino in fondo. A conferma della continua maturazione del sound della band, ecco, quindi, una “No Return” che si abbevera alla fonte della bossanova, mentre “Harry Rag” procede con deciso piglio marziale, che in parte ritroviamo anche in “Tin Soldier Man”, in cui l’uomo che ha deciso di prendere moglie viene paragonato a un “soldatino di stagno”, in pratica a uno che non può fare a meno di sentirsi sempre pronto per la parata. Un suono relativamente roccioso caratterizza invece “Situation Vacant”.
Se è vero che i Kinks si tennero lontani dall’esplosione di luci, colori e “viaggi” psichedelici, è anche vero che, qua e là, piazzarono qualche colpo che di quell’esplosione conservano echi inconfutabili. A questo giro, il caso più eclatante è rappresentato da “Lazy Old Sun” che, tra deformi suggestioni indianeggianti, inserti di trombe mariachi e miraggi di “Strawberry Fields Forever” dei Beatles, racconta della ricerca del sole da parte di Ray: un sole che è la sua “unica realtà” ed è capace sia di generare l’arcobaleno che di far sparire la notte. Una probabile allegoria dell’esaurimento nervoso, con annesso periodo di depressione, che lo aveva colpito qualche mese prima.
Da attento indagatore dello stile di vita britannico, Ray non poteva mancare di scrivere un brano incentrato sulla bevanda più amata dai sudditi della Regina. Ecco, quindi, “Afternoon Tea”, con il suo andamento svagato, i suoi battimani e i coretti d’ordinanza. Un brano come “End Of The Season”, invece, potrebbe essere scambiato per quello di un crooner anni Cinquanta.
Uno dei brani esclusi dalla scaletta dell’album (“Autumn Almanac”, una spassosa marcetta) sarà ripescato su singolo nel successivo ottobre.
Le scarse vendite di Something Else… (e dei singoli “Wonderboy” e “Day’s” dell’aprile 1968), unite gli attacchi della critica, secondo cui Ray Davies avrebbe fatto meglio a farla finita con quella musica e quei temi così “all’antica”, misero in crisi i Kinks. Chi si aspettava un’inversione di rotta restò, però, deluso, quando scoprì che, chiusosi nella sua casa di Fortis Green, a Nord di Londra, dove poteva godere del calore della sua famiglia e di quello dei suoi amici più stretti, Ray si era messo a scrivere canzoni ancora più “alla sua maniera” e sempre più schierate dalla parte delle tradizioni e dello stile di vita british. Ne uscì un altro concept-album, The Kinks Are the Village Green Preservation Society, questa volta incentrato su un villaggio di campagna, inteso come luogo idillico. Per reagire alle brutture del mondo moderno, i Kinks (attraverso la voce poetica del loro leader) non fecero leva, quindi, su di un’attitudine barricadera, né vollero farsi semplici portavoce delle istanze controculturali, preferendo, invece, abbandonarsi alla nostalgia. La loro, però, era una nostalgia che mirava a “preservare” quanto di buono la tradizione aveva trasmesso alle diverse generazioni dei sudditi inglesi (insomma, i Kinks erano o non erano la “preservation society”?) . È quanto viene ribadito nell’iniziale e innodica title-track, in cui la band, dopo essersi presentata come la “società di preservazione del villaggio verde”, invoca Dio affinché salvi, tra le altre cose, il vaudeville, il varietà e la marmellata di fragole (ma, attenzione, quest’ultima in tutte le sue diverse varietà!). Questa preservazione, però, non significa rifiuto radicale di tutto ciò che è nuovo. Quello che in fondo Ray Davies auspicava era un sano equilibrio tra ciò che è “tradizionale” e ciò che è “nuovo”, per quanto, a onor del vero, la vita in campagna fosse per lui da preferire a quella, caotica e sempre di fretta, delle grandi città (questo è quanto emerge ascoltando un altro famoso brano del disco, quella “Animal Farm” che fonde struttura blues e arrangiamento barocco).La gestazione di The Kinks Are the Village Green Preservation Society fu travagliata. Ray avrebbe voluto pubblicarlo in doppio Lp, ma la Pye fece resistenza. Anche un Lp da destinare al solo mercato americano, intitolato Four More Respected Gentlemen, venne bloccato, ma in questo caso prevalsero ragioni di opportunità, perché alcuni dei brani scelti erano già stati opzionati per la scaletta di Village Green. Alla fine, quest’ultimo uscì come Lp singolo contenente in tutto quindici brani. Fu distribuito il 22 novembre del 1968, lo stesso giorno in cui nei negozi di dischi arrivò il White Album dei Beatles. Le scarsissime vendite di Village Green (meno di centomila copie alla sua uscita!) non dipesero, comunque, dalla “spietata” concorrenza dei quattro baronetti di Liverpool, quanto piuttosto dal distacco che la massa degli ascoltatori di musica rock nutriva ormai nei confronti di una band percepita sempre più come “reazionaria” e, quindi, lontana da quell’ideologia rivoluzionaria (o presunta tale…) allora così in voga.
Col tempo, però, The Kinks Are the Village Green Preservation Society si sarebbe imposto come uno dei veri classici dell’epoca, forte di una sequenza di brani qualitativamente molto omogenea e ancora capace di passare in rassegna generi e stili diversi, dal music-hall virato folk di “Do You Remember Walter” al ragtime, con piano sbruffone, di “Sitting By The Riverside”, dalla polka con inserti di valzer di “All of My Friends Were There” alle tinte latin-jazz di “Monica”, passando per il pop orchestrale di “Village Green” e “Starstruck” (con l’orchestra simulata grazie all’uso del Mellotron, uno strumento destinato a caratterizzare, di lì a poco, buona parte del rock “progressivo”), fino alle diverse sfaccettature del rock: folk in “Picture Book” e “Johnny Thunder”, blues in “Last of the Steam Powered Trains”, epico-garagiste in “Big Sky” e hard-psichedeliche in “Wicked Annabella”. L’ultimo atto del disco, “People Take Pictures of Each Other”, si affida, invece, alla briosa leggerezza del vaudeville per ribadire l’importanza dei ricordi e della memoria in generale: i vari abitanti del “villaggio verde”, oltre che ai vari oggetti che li circondano, si scattano foto vicendevolmente, per dimostrare di esistere davvero.
People take pictures of the Summer,
Just in case someone thought they had missed it,
And to proved that it really existed.
Fathers take pictures of the mothers,
And the sisters take pictures of brothers,
Just to show that they love one another
Le persone fanno le foto all’estate
Nel caso che qualcuno pensi che l’abbiano mancata
E per provare che è esistita davvero.
I padri fanno le foto alle madri,
E le sorelle fanno le foto ai fratelli,
Soltanto per mostrare che si vogliono bene
Mentre, con il pur sfizioso singolo “Plastic Man”, i Kinks cercavano di rimediare al clamoroso flop di Village Green, nell’aprile del 1969 il bassista Peter Quaife decise di lasciare la band. Stufo degli screzi interni alla band, aveva deciso di tentare la sorte in prima persona, formando i Mapleoak, una band di rock virato country che, in ogni caso, non riuscirà ad andare oltre un unico, omonimo disco pubblicato nel 1971. Per riempire la casella vuota, i Kinks ingaggiarono John Dalton, che aveva già sostituito Quaife tra il giugno e il novembre del 1966, quando quest’ultimo era stato costretto a ritirarsi a vita privata a causa delle conseguenze di un incidente automobilistico. Nel frattempo, Ray stava già lavorando al materiale di un nuovo concept-album, la cui idea era nata in seguito alla richiesta, da parte della Granada Television, di scrivere la colonna sonora di uno sceneggiato televisivo. Per sviluppare meglio la storia, il leader dei Kinks aveva chiesto l’aiuto dello scrittore Julian Mitchell, ma alla fine tutto si risolse in un nulla di fatto e lo sceneggiato venne cancellato. Ci resta, comunque, Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire) (ottobre 1969), disco incentrato sul declino della società inglese analizzata attraverso le vicende dell’installatore di moquette (!) Arthur Morgan. Fin dal brano che lo apre, “Victoria, Arthur dimostra che altre spezie si sono aggiunte, nel frattempo, alla ricetta base dei Kinks: nel caso specifico, fragranze di soul, ben amalgamate in un vivace congegno in cui sono di casa anche il pop e il blues-rock. Arricchito dagli arrangiamenti di fiati e archi di Lew Warburton, il disco inizia rievocando il grande Impero Britannico colto nel suo momento di massimo splendore, l’epoca Vittoriana (1837-1901), comunque strozzata da rigidi schemi morali. Col trascorrere dei minuti e dei brani, si assisterà, invece, al suo lento e inesorabile declino. Nel blues-rock marziale di “Yes Sir, No Sir”, la voce di Ray assume a tratti connotazioni “negriere”, a dire che i sudditi della Regina altro non erano (sono?) che degli schiavi. La tragedia della Prima guerra mondiale fa capolino, quindi, in “Some Mother’s Son”, dall’incedere lento e funereo, e anche in “Drivin”, nonostante la scorza music-hall possa far pensare a tematiche più leggere. Il tema del “lavaggio del cervello” è al centro di “Brainwashed”, che si affida a un vibrante connubio di baldanza rhythm & blues, schitarrate hard e controcanti fiatistici. La lunga “Australia” (quasi sette minuti di durata) è un omaggio satirico a quella che, un tempo, era la colonia penale dei sudditi dell’Impero e musicalmente presente una struttura quasi “progressiva”, passando in rassegna rock, soul, pop e congedandosi, quindi, con una lunga jam blues-psichedelica.
La casa di Arthur Morgan si chiama Shangri-La e ad essa è dedicato il brano inaugurale del lato B del vinile. Shangri-La è il nome che lo scrittore James Hilton diede ad un paradiso immaginario nel suo Lost Horizon, romanzo pubblicato nel 1933. E un paradiso solo immaginario è la casa in cui Arthur vive, isolato dal mondo che lo circonda. La scoperta di questa tragica realtà è suggerita dalla struttura ascendente del brano, in cui l’inizio, tetro e meditativo, lascia spazio a un crescendo via via sempre più intenso. Con le torride evoluzioni rock-blues di “Mr. Churchill Says”, il racconto-sonoro giunge al secondo, tragico conflitto mondiale, mentre il ritorno del music-hall in “She Bought A Hat Like Princess Marina” (questa volta condito, però, con sfiziosissimo swing degli anni Venti) coincide con il ritratto di una donna che, nonostante le sue scarsissime sostanze, fa di tutto per comprarsi un cappello simile a quello indossato dalla principessa Marina. E mentre la Storia va bruciando le sue tappe, emerge, nitido e struggente, il ricordo dei bei vecchi tempi. Ed è così che la nostalgia, onnipresente tra i solchi di Village Green, ritorna a far valere le sue pretese in “Young And Innocent Days”, dove compare l’emblematico verso “I wish my eyes could only see everything exactly as it used to be” (“Vorrei che i miei occhi potessero vederti così com’eri una volta”).
Dopo il rhythm & blues di “Nothing To Say”, Arthur lascia calare il sipario con un divertito country-rock. Nel testo viene sinteticamente descritta l’avventura del protagonista e, se i giorni felici appartengono ormai al passato, poco male!, perché “somebody loves you don’t you know it” (“qualcuno ti ama, anche se non lo sai”).
Caratterizzato da arrangiamenti relativamente più convenzionali e da qualche momento non del tutto convincente, Arthur non si tradusse in un successo commerciale, ma ricevette in ogni caso un’accoglienza critica migliore di quella che, giusto un anno prima, era toccata a Village Green. Fu soprattutto la critica americana a lanciarsi in lodi (fin troppo) sperticate, arrivando a definirlo come il momento migliore dei Kinks fino a quel momento, nonché come il disco inglese più importante dell’anno. Rinfrancati da tutto ciò, i membri della band partirono per un tour americano (ancor prima della pubblicazione del disco, Ray era riuscito a ottenere dalla American Federation of Musicians l’annullamento del bando che, per lungo tempo, li aveva messi fuori gioco nel mercato discografico più importante del pianeta). A differenza della critica, però, il pubblico americano continuò a mostrare un certo disinteresse per la musica dei Kinks, fin troppo impregnata di quello spirito british che mal s’amalgamava con l’american way of life…
Dopo aver accolto tra le sue fila il tastierista John Gosling, la band si gettò a capofitto nella registrazione di Lola Versus Powerman And The Moneygoround – Part One (novembre 1970), disco anticipato dal singolo “Lola”, un folk-rock che narra dell’incontro di un uomo con un travestito (nella realtà, il piacere era toccato all’allora manager della band Robert Wace), cosa che ha indotto molti a considerare il brano come uno dei primi esempi di “glam-rock”. Quanto al disco, si tratta ancora di un concept-album e a dominarlo è la storia di un ragazzo che cerca di diventare una rockstar, scoprendo sulla sua pelle che il mondo della musica rock è abitato da gente spietata e senza scrupoli. Il sipario si apre con le energiche trame rock’n’roll, in odor di Rolling Stones, di “The Contenders”, che lasciano spazio prima alla commovente ballata “Strangers” (fu opera di Dave e fa segnare uno dei picchi poetici del disco), e quindi alle spedite trame di “Denmark Street”, da cui emergono ancora tracce dell’amato music-hall. “Get Back in Line”, basata sulla voglia di rivalsa della classe operaia inglese, è invece quella che si potrebbe definire una “canzone politica”. A un banale hard-rock si affida, quindi, “Top of the Pops”, sarcastico quadretto dello showbiz. Gli faranno eco, sul lato B, una “Rats” (secondo brano del disco ad essere firmato da Dave) che vanta, comunque, un arrangiamento più robusto e, quindi, “Powerman”, in cui l’impianto hard è declinato in chiave più orecchiabile. Il secondo singolo a essere estratto dal disco fu “Apeman”, con i suoi deliziosi umori calypso. Ecco, quindi, il ragtime di “The Moneygoround” (con un velenoso Ray nei confronti dei manager Robert Wace e Grenville Collins, entrambi citati nel testo), l’anima country di “This Time Tomorrow” (con Dave al banjo) e la ballata pianistica di “A Long Way From Home”, in cui il protagonista mette in relazione la sua tribolata avventura nel mondo della musica con quella, spensierata e genuina, da lui vissuta fino al momento della sua partenza da casa. Ma la libertà è vicina: “Got To Be Free”, disegnando un arco stilistico che va dal bluegrass al country, dal rock’n’roll al boogie-woogie, e riprendendo la sequenza degli accordi dell’iniziale “The Contenders”, la lascia intravedere sullo sfondo.
La “Part Two” di Lola Versus Powerman And The Moneygoround (per la cronaca, ben accolto dalla critica e dal pubblico) non vedrà mai la luce.
Con una scelta a dir poco azzardata, che fece storcere il naso sia ai suoi fan che alla critica, Ray si dedicò invece alla realizzazione della colonna sonora della commedia Percy (marzo 1971; regia di Ralph Thomas), in cui il protagonista, dopo essersi fatto trapiantare il pene (!), si mette alla ricerca del suo donatore… Nel complesso, il disco è poca cosa. Al netto di brani strumentali più o meno prescindibili (c’è anche un rifacimento di “Lola”), gli unici brani di un certo interesse sono le ballate orchestrali di “God’s Children” e “The Way Love Used to Be”, il Diddley-beat di “Animals In The Zoo” e una “Just Friends” con l’occhio rivolto alla musica da camera barocca.Mentre il pubblico americano continuava a fare spallucce quando sentiva il nome dei Kinks, Ray portò a maturazione la sua passione per le sonorità tradizionali “a stelle e strisce” con la pubblicazione di Muswell Hillbillies (novembre 1971), primo album a essere pubblicato con la nuova etichetta discografica, la RCA. Arricchito da una sezione fiati, il disco affronta il roots-rock americano con il tipico piglio british della band. Ritmi solidi, slide-guitar, spirali e contrappunti di organo Hammond, il tutto condito da una produzione discretamente “radiofonica” fanno del country-rock “20th Century Man” e della title-track (per inciso, brano d’apertura e di chiusura del disco) un convincente esempio di questo nuovo corso. Ray è un’”uomo del ventesimo secolo”, ma è tutt’altro che disposto ad accettare senza riserve il progresso tecnologico e l’avanzare indiscriminato della modernità. Anzi, a dirla tutta egli non vorrebbe per niente essere qui, preferendo evidentemente catapultarsi oltre il tempo e lo spazio, lì dove si trova quel “villaggio verde” di cui aveva cantato giusto qualche anno prima.
This is the twentieth century
But too much aggravation
This is the edge of insanity
I’m a twentieth century man but I don’t want to be here
Questo è il ventesimo secolo
Ma c’è troppo esasperazione.
Questo è il limite della follia.
Sono un uomo del ventesimo secolo ma non voglio essere qui
Calati in un’atmosfera più scopertamente old-style sono ”Acute Schizophrenia Paranoia Blues” (passo sornione, borbottii di trombone, ricami di tromba e pianoforte da saloon) “Alcohol” (in marcia ubriaca verso la sorgente jazz di New Orleans), e in parte la ballata appalachiana, in modalità blues-rock, di “Complicated Life”. È blues-rock anche l’anima di “Skin And Bone”, “Here Come the People in Grey” e di “Holloway Jail” (un mix di Ry Cooder e Rolling Stones), mentre più sbilanciata sul versante country è “Uncle Son”, un brano che potrebbe far pensare ad un’outtake di American Beauty dei Grateful Dead.
Più legate alle tradizioni musicali della cara vecchia Albione sono, invece, il music-hall di “Holiday” e quello, dalle tinte country e con ritornello corale, di “Have A Cuppa Tea”. Ma la palma del brano più emozionante va assegnata ad “Oklahoma U.S.A.”, una ballata che racconta di una giovane donna proletaria che supera la monotonia del tran-tran quotidiano sognando di partecipare a diversi film hollywoodiani. L’arrangiamento del brano è il più spoglio del disco: un pianoforte, una fisarmonica e una chitarra acustica bastano a creare un’atmosfera insieme intima e avvolgente.
Nonostante l’impegno profuso, Muswell Hillbillies non sfondò negli Stati Uniti (a stento varco la soglia della Top 50), restando quasi un oggetto misterioso in quella inglese.
Riflettendo su quanto aveva fin lì prodotto e sul suo essere uno dei protagonisti dello showbiz, Ray pensò a quel punto di coinvolgere la band nel progetto di un disco doppio, Everybody’s in Show-Biz (agosto 1972), la prima metà del quale da registrate in studio e basata su brani inediti, l’altra dedicata, invece, alla testimonianza parziale di due concerti che la band aveva registrato tra il 2 e il 3 marzo del 1972 alla Carnegie Hall di New York.
Le prime due facciate di Everybody’s in Show-Biz sono incentrate sul lato più oscuro e stressante della vita on the road, quella in cui il divo rock (che in “Maximum Consumption” viene ironicamente descritto come “maximum consumption nonstop machine”, cioè “macchina incessante di consumo massimo”) è sempre di corsa, tra concerti, interviste, sessioni fotografiche e quant’altro. Musicalmente, si continua nel solco di Muswell Hillbillies, tra vigorosi numeri rock trafitti dalla sezioni fiati (“Here Comes Yet Another Day”, “Unreal Reality”), agili country-bluegrass (“Motorway”, col fantasma dei Grateful Dead ancora sullo sfondo) e risalite verso il suono Kinks di metà anni Sessanta (“Supersonic Rocket Ship”, “Look a Little on the Sunny Side”). E se la ballata pianistica di “Sitting In My Hotel” si segnala come il momento più intimista del disco, quella di “Celluloid Heroes” ne rappresenta il vertice nostalgico, con la sua successione di famosi attori di Hollywood: Marilyn Monroe, Greta Garbo, Bela Lugosi, Bette Davis, Rudolph Valentino, George Sanders e Mickey Rooney.
Degli undici brani che occupano le due facciate catturate dal vivo, la maggior parte (ben cinque) sono pescate da Muswell Hillbillies, ma tutto il set mostra come sul palco i Kinks rendessero ancora più energici e vibranti le loro escursioni roots-rock. Da segnalare, comunque, i rifacimenti di tre brani tradizionali: “Mr. Wonderful”, “Banana Boat Song” (un vecchio canto popolare giamaicano) e “Baby Face” (ripresa, tra gli altri, anche da Al Jolson).
Le vendite del disco non furono per niente incoraggianti e ciò mise nuovamente in crisi Ray, nel cui cielo stavano intanto addensandosi nuvole nerissime e minacciose…
Note:
- Uscito per la prima volta in Italia nel 1937 con il titolo Orizzonte perduto.
- Il glam rock (o glitter rock) è un genere di musica rock popolare negli anni settanta, soprattutto nel Regno Unito e nelle grandi città statunitensi quali New York e Detroit. Il genere prende il nome dall’abbigliamento “Glamour”, ovvero un look curato, colorato e vistoso che caratterizzava gli esponenti del genere. (Wikipedia)
- In Italia uscì con il titolo Il complesso del trapianto.
- Musica tipica della regione degli Appalachi, catena montuosa situata nella parte orientale dell’America del Nord. La musica appalachiana deriva da varie influenze europee e africane, tra cui le ballate inglesi, il blues afro-americano e la musica tradizionale irlandese e scozzese.
Discografia Consigliata
Face to Face (1966)
Something Else by The Kinks (1967)
The Kinks Are the Village Green Preservation Society (1968)
Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire) (1969)
Lola Versus Powerman and the Moneygoround (Part One) (1970)
Muswell Hillbillies (1971)
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