The Beatles (Parte 1)

Cosa dire ancora dei Beatles, una band di cui, durante gli ultimi cinquant’anni, è stato detto tutto e il contrario di tutto e su cui ancora si continua a discutere, in un ipertrofico gioco di indagini, più o meno critiche, non esenti, ahimè, da esagerazioni, più o meno sensate? Eppure, nel risalire la corrente della storia della “popular music”, è inevitabile imbattersi nell’epopea di quei quattro ragazzi di Liverpool (John, Paul, George e Ringo) che segnarono profondamente la musica e il costume degli anni Sessanta, lasciando in eredità uno dei canzonieri pop più influenti e riconoscibili di sempre.

Come abbiamo visto, parlando delle origini del rock’n’roll inglese, a un certo punto i giovani sudditi della Regina s’invaghirono del cosiddetto «skiffle», rivisitazione, tinta di jazz, di quel blues rurale americano che i poveri musicisti di colore si arrangiavano a suonare con manici di scopa, pettini, bottiglie, assi per lavare, secchi o casse da imballaggio. Lonnie Donegan ne era stato il protagonista assoluto, guidando, almeno per un paio d’anni, verso la fine degli anni Cinquanta, un movimento di musicisti che si poneva come alternativa a tutta una serie di rocker che cercavano, con alterne fortune, di emulare i grandi eroi del rock’n’roll americano, primo fra tutti Elvis Presley. A Liverpool, alla fine del 1956, anche il sedicenne chitarrista John Lennon si gettò nella mischia dello skiffle, fondando i Quarrymen, una band intorno alla quale, poco alla volta, si riunirono i coetanei Paul Mccartney (chitarra), George Harrison (chitarra), Stuart Sutcliffe (basso) e Pete Best (batteria).

All’alba degli anni Sessanta, con il nome di Silver Beatles la band si guadagnò un ingaggio per una serie di serate ad Amburgo, nell’allora Germania Ovest. Si trattò di un’esperienza fondamentale, grazie alla quale la band si fece le ossa suonando davanti a un pubblico non esattamente interessato alla sua musica (i locali a luci rosse della città portuale tedesca erano pieni soprattutto di prostitute e marinai ubriachi), riuscendo, al contempo, a rinsaldare i legami umani tra i suoi membri. Nel novembre 1960, la band tornò in Inghilterra senza Stu Sutcliffe, che era rimasto in terra tedesca insieme alla fotografa Astrid Kirchherr, per cui aveva perso la testa (il povero Sutcliffe sarebbe morto nell’aprile del 1962 per emorragia cerebrale). Nonostante tutto, l’esperienza amburghese era stata più che soddisfacente, ma niente lasciava presagire quanto stava per accadere. La data fatidica è il 27 dicembre 1960: quel giorno, i Beatles, privi ormai dell’aggettivo “Silver”, suonarono alla Town Hall Ballroom della loro città natale, riscuotendo un successo clamoroso, tanto che, a detta di molti, fu in quel preciso momento che ebbe inizio la “Beatlesmania”, un fenomeno che avrà come proprio epicentro il Cavern Club, locale in cui la band debutterà il 9 aprile del 1961.

In quello stesso periodo, i quattro tornarono ad Amburgo per un’altra ricca serie di date, accompagnando Tony Sheridan (un cantante di Liverpool con la fissa per Elvis) nella registrazione del singolo “My Bonnie”. Sarà proprio grazie a questa registrazione che Brian Epstein, all’epoca impiegato nel negozio di strumenti musicali gestito dalla famiglia, decise di proporsi alla band come loro manager. I quattro accettarono e, nel giro di qualche giorno, si ritrovarono a suonare un provino per la Decca Records. Le cose, però, non andarono per il verso giusto, anche perché in quell’occasione i Beatles suonarono molti dei loro brani meno incisivi. Alla fine, Epstein riuscì a trovare un accordo con la Parlophone, che all’epoca faceva parte della Emi. Sostituito Pete Best con Richard Starkey (meglio conosciuto con il nomignolo di Ringo Starr), i Beatles, su suggerimento del loro manager, ripulirono la loro immagine di rocker, assumendo un look da bravi ragazzi inglesi: capelli corti, giacca e cravatta, e inchino sincronizzato alla fine di ogni concerto. A quel punto, bisognava solo registrare e mettere sul mercato il primo singolo. Che arrivò il 5 ottobre del 1962: “Love Me Do” / “P.S. I Love You”. Se il lato A (scritto da Paul McCartney) era un piccolo scrigno di catchiness in blues con controcanti di armonica, il retro sceglieva di rifugiarsi in una love-song a là Roy Orbison. Nelle classifiche inglesi, il singolo si assestò al ventunesimo posto, rimandando giusto di qualche mese l’exploit definitivo, che sarebbe arrivato agli inizi del 1963 con “Please Please Me” / “Ask Me Why”, 45 giri che metteva insieme uno spensierato rincorrersi, tra armonie vocali, di gaia spensieratezza e innocui intarsi doo-wop su corpo beat. A quel punto, nulla poteva più impedire la realizzazione del loro primo LP.

Please Please Me (22 marzo 1963) raccolse quattordici canzoni, tra cui sei cover con cui la band si era più volte confrontata nell’ambito delle sue prime esibizioni dal vivo: il soul accorato di “Anna Go With Him” (Arthur Alexander), la spensierata “Chains” (portata al successo dai Cookies l’anno precedente), “Boys” e “Baby It’s You” delle Shirelles (la prima interpretata da Ringo con piglio tra il serio e il faceto) e, quindi, “A Taste Of Honey”, un brano dal taglio folk che si ispirava alla versione registrata da Lenny Welch nel 1962. Niente per cui strapparsi i capelli. Mediamente più interessanti, i brani autografi, tra cui, oltre al ripescaggio dei loro primi due singoli, comparivano il rock’n’roll cadenzato di “I Saw Her Standing There” (che dal vivo, causa lunghi assoli di chitarra, poteva arrivare a durare anche dieci minuti), il rhythm and blues carico di ironia di “Misery”, la trascinante “There’s A Place”, il rock’n’roll al ralenti e fortemente percussivo di “Twist And Shout” e, per finire, “Do You Want To Know A Secret”, cantata da Harrison e ispirata probabilmente a “I’m Wishing”, brano contenuto nel film d’animazione della Disney Snow White and the Seven Dwarfs (1937), conosciuto in Italia con il titolo di Biancaneve e i sette nani.

Nel novembre di quell’intenso 1963, i quattro registrarono e pubblicarono un altro singolo, “I Want to Hold Your Hand” / “This Boy”. Se il lato B è un mediocre esercizio che richiama alla memoria le formazioni vocali del doow-wop, il lato A è il brano che, arrivando, durante i primi mesi del 1964, in cima alle classifiche americane, darà inizio alla cosiddetta British Invasion. Con la sua gioiosa miscela di energia rock’n’roll e ricerca melodica figlia del talento di Buddy Holly (uno dei musicisti che maggiormente influenzò i Beatles), “I Want to Hold Your Hand” diede uno scossone decisivo alla musica pop americana, in pratica restituendo (ripulito e aggiornato) ai cugini d’oltreoceano ciò che loro stessi avevano inventato.

Nel frattempo, pochi giorni prima (per la precisione il 22 novembre, data del tragico assassinio del presidente americano J.F. Kennedy), era stato pubblicato il loro secondo album, With The Beatles, ancora diviso tra brani originali (otto) e cover (sei). La serie di queste ultime era costituita dal classico di Broadway “Till There Was You”, da quell’omaggio ai girl-groups (nel caso specifico, a quello delle Marvelettes) che è “Please Mr. Postman”, dalla ripresa di “Roll Over Beethoven” di uno dei loro miti assoluti, Chuck Berry, dalla “You Really Got a Hold on Me” che arrivava dal catalogo di Smokey Robinson, dal ruvido rhythm and blues “Money (That’s What I Want)” (Barrett Strong) e, per finire, da una pressoché superflua “Devil In Her Heart”, pescata dal catalogo delle Donays. La qualità non proprio eccelsa delle cover trova riscontro anche in quella dei brani originali, tra cui, comunque, spiccano almeno i coretti “yeah-yeah” di “It Won’t Be Long” e la caracollante tenerezza di “All My Loving”, mentre poco più sotto si attestano “Don’t Bother Me” (scritta da Harrison in evidente rapimento Shadows), “Not A Second Time” (accompagnata da un piano barcollante), “I Wanna Be Your Man”, scritta per i Rolling Stones e cantata da Ringo, la ballata di “All I’ve Got To Do” e l’ammorbidita carica rockeggiante “Little Child” e “Hold Me Tight”.

Confermato il proprio status di nuovo fenomeno della musica pop con la storica apparizione televisiva all’Ed Sullivan Show (era il 7 febbraio 1964 e furono circa settantatré milioni gli spettatori americani ipnotizzati da quelli che, ormai, venivano chiamati Fab Four), i Beatles tornarono in patria, dove a giugno pubblicarono Long Tall Sally, il loro primo Ep a non contenere brani già editi in precedenza su singolo o album. Ne facevano parte tre cover (“Long Tall Sally” di Little Richard, “Matchbox” di Carl Perkins e “Slow Down” di Larry Williams), con l’aggiunta dello stanco inedito di “I Call Your Name”.
Il passo successivo fu un tour che li portò in Danimarca, Olanda, Hong Kong, Australia, Nuova Zelanda e Svezia, sottolineando la loro dimensione ormai mondiale. Il tour si concluse in terra inglese nel mese di agosto.

Un mesetto prima (per la precisione il 10 luglio), era stato intanto messo sul mercato il loro terzo disco, intitolato A Hard Day’s Night, sette brani del quale costituivano anche la colonna sonora dell’omonimo film diretto da Richard Lester e in cui i quattro Beatles avevano interpretato loro stessi alle prese con i “problemi” della fama e del successo. Il disco è anche il loro primo a contenere solo brani originali e questo, all’epoca, non era la norma negli ambienti delle band giovanili. Si può dire, anzi, che furono proprio i Beatles, grazie all’enorme fama raggiunta, a invogliare tantissime altre band a mettersi alla prova con brani autografi, uscendo dall’ormai stantio ricorso alle solite cover di brani più o meno famosi.

Il salto di qualità rappresentato da A Hard Day’s Night rispetto ai primi due album è sorprendente. La coppia di autori principali Lennon-McCartney (ricordiamo che i due avevano deciso, fin dai primi loro tentativi di fine anni Cinquanta, di firmare insieme anche i brani composti da uno di loro) aveva ormai raggiunto un livello di consapevolezza dei propri mezzi tale per cui il solo pensiero di dover ricorrere a qualche cover per riempire i solchi di un album appariva come una bestemmia. Anche se non del tutto a fuoco, A Hard Day’s Night può comunque essere considerato come il primo disco importante della band, quello in cui la loro alchimia si lascia finalmente apprezzare in tutta la sua vitalità, anche grazie ai consigli, al supporto e al lavoro in studio del produttore e arrangiatore George Martin, che li seguiva fin dal loro primo singolo.

A inaugurare il disco è proprio il brano eponimo, annunciato da un attacco “sospeso” e potente che prelude a un accattivante beat-pop mandato in gloria da un indimenticabile ritornello. Memorabile è anche “I Should Have Known Better”, forte di una cantabilità contagiosa e di un piglio decisamente dylaniano. Superata con poco clamore una “If I Fell” che, tra armonizzazioni vocali e ritornello ascensionale, si perde ancora in qualche ingenuità di troppo, ci si ritrova, quindi, alle prese con “I’m Happy Just to Dance With You” e “Tell Me Why”, piccoli congegni di accattivante beat melodico. L’ottimismo e la spensieratezza di quegli anni si riverberano, dunque, nella scalmanata, liberatoria “Can’t Buy Me Love”, nella propulsione rock di “Any Time At All” e nel folk-rock, ovviamente dylaniano, di “I’ll Cry Instead”. E se nella ballata folk “And I Love Her”, McCartney ha in mente Jane Asher, la sua ragazza di allora, “Things We Said Today” si muove attraverso un’atmosfera vagamente cupa, laddove “When I Get Home” ballonzola, trascinandosi dietro retaggi che non sono soltanto rock’n’roll, ma anche soul e boogie. In “You Can’t Do That”, invece, il sound si irrobustisce in una sorta di blues-rock virato pop, mentre in chiusura “I’ll Be Back” trova Lennon alle prese con i fantasmi di “Runaway” di Del Shannon, brano arrivato in cima alle classifiche americane nel 1961.

Grazie al dilagare della fama dei Beatles, anche il mercato della musica pop riuscì ad acquisire una credibilità che, fino a pochi anni prima, nessuno aveva immaginato potesse raggiungere. Per quanto tutto sommato ancora innocua e poco incline a fotografare le prime contraddizioni di un decennio che stava iniziando a entrare nella sua fase calda, la musica dei Beatles possedeva quella freschezza di cui i giovani (vissuti, fino a quel momento, al centro della “guerra fredda” tra i colossi Usa e Urss, con la spada di Damocle di una possibile guerra nucleare ad allungare la sua ombra sul loro futuro) avevano bisogno per ritornare a sperimentare il presente in tutta la sua pienezza.

La corsa dei Fab Four continuò a essere inarrestabile con la pubblicazione, nel novembre del 1964, del singolo “I Feel Fine” / “She’s A Woman”. Il primo brano, introdotto dal suono del feedback (un effetto che Lennon ottenne per puro caso, avvicinandosi troppo, con la sua chitarra, all’amplificatore), confermò la loro abilità nel costruire brani dannatamente orecchiabili; il secondo, invece, si accontentò di un galoppante blues propulso da chitarra e basso.

Quando, però, nel dicembre successivo, arrivò Beatles For Sale, qualcosa sembrava essersi inceppato. In copertina, i quattro guardano fissi verso l’obiettivo, ma hanno uno sguardo fin troppo serio e probabilmente anche stanco. Non è un caso, quindi, se nel disco tornano a far capolino le cover (ben sei su quattordici brani). Tra di esse, le più convincenti sono “Rock and Roll Music” di Chuck Berry, “Words Of Love” di Buddy Holly e “Honey Don’t” di Carl Perkins. Sul versante dei brani originali, se il folk-rock di Dylan fa sentire ancora la sua eco in brani quali “No Reply” e “I’m A Loser” (quest’ultima con assolo di Harrison a richiamare lo stile di Carl Perkins), e se le chitarre di “What You’re Doing” prefigurano lo jingle-jangle dei Byrds, “Eight Days A Week” aggiorna la loro trasfigurazione dell’ottimismo sotto forma di canzone pop, mentre oltre “Baby’s In Black” si riconoscono filigrane country & western. Alla gentilezza tutta mccartneyana di “I’ll Follow The Sun” fanno da contraltare, quindi, le trame scoppiettanti di “I Don’t Want To Spoil The Party” e quelle, relativamente più sofisticate, di “Every Little Thing”. Per quanto ben congegnati, si trattava di brani che risentivano di una scrittura non sempre cristallina, cosa che, comunque, non inficiò le vendite, che ancora una volta fecero registrare risultati molto positivi.

Nei primi mesi del 1965, i Beatles si misero al lavoro per registrare il nuovo disco. Sette dei brani che nacquero durante quelle session erano destinati anche a fare da colonna sonora per il loro secondo film, ancora diretto da Richard Lester e intitolato Help!. Nonostante si tratti di un film tanto assurdo quanto divertente, il film nacque in un periodo di forte crisi per i membri della band, sempre più sotto pressione e sempre più alle prese con un pubblico (soprattutto nella sua versione femminile) che, durante i loro concerti, urlava così forte da coprire letteralmente la musica. Fu soprattutto Lennon ad avvertire tutto il peso di quella situazione e, per esorcizzarlo, scrisse una canzone, “Help!”, un irruente folk-rock che sarà scelto per aprire il disco omonimo, pubblicato il 6 agosto di quello stesso anno. Le tessere più presioze di quello che, per quanto ci riguarda, è il primo disco veramente compiuto dei Fab Four, sono rappresentate dal folk intimisita di “You’ve Got to Hide Your Love Away” (il loro primo brano interamente acustico), da quello malinconicamente spensierato di “I Need You”, dalla famosissima “Ticket To Ride”, dall’accattivante semplicità di “Tell Me What You See”, dal meraviglioso scioglilingua folk di “I’ve Just Seen a Face” e da quella “Yesterday” il cui arrangiamento di archi lasciava già presagire gli sviluppi più creativi del loro canzoniere. Relativamente ai margini, stanno invece “The Night Before”, “Another Girl”, “You’re Going To Lose That Girl”, “It’s Only Love” e “You Like Me Too Much”. Uniche cover, il country spassoso di “Act Naturally” (dal repertorio dei Buckaroos) e la conclusiva “Dizzy, Miss Lizzy”, un brano del 1958 di Larry Williams indeciso tra rhythm and blues e rock’n’roll.

Una settimana dopo l’uscita del disco, i Beatles partirono per il loro terzo tour negli Stati Uniti. Allo Shea Stadium di New York, suonarono davanti a circa 56mila persone (record assoluto fino a quel momento), ma il rumore assordante delle ragazzine urlanti fu così forte che i quattro, sul palco, non furono in grado di sentire il suono dei propri strumenti! Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Da quel momento in poi, i Beatles non avrebbero più suonato dal vivo, scegliendo di concentrare tutte le loro energie sul lavoro in studio, dove avrebbero affiancato George Martin. Con ben altre motivazioni, come abbiamo scritto altrove, fu la stessa scelta fatta, quasi nello stesso periodo, da Brian Wilson dei Beach Boys. Quasi come se il destino avesse voluto preparare le due grandi sponde della pop music degli anni Sessanta a quella che, nei successivi due anni, si sarebbe rivelata come una delle più affascinanti e stimolanti “sfide” sonore del secondo Novecento.

Il primo frutto della nuova direzione intrapresa dalla band fu Rubber Soul (3 dicembre 1965), disco la cui immagine di copertina, con i quattro incorniciati in modalità distorta e psichedelica, testimoniava, nell’immediato, di questa volontà di sondare nuove sonorità e soluzioni stililistiche. Rubber Soul, come dirà McCartney, fu il primo disco che la band registrò con l’intenzione di realizzare una raccolta artisticamente coerente di brani, cosa che colpì molto Brian Wilson, tanto da indurlo a gettarsi a capofitto nella scrittura di brani sempre più sosfisticati e pensati come tasselli di veri e propri concept-album . Lo stimolo a cimentarsi in questa nuova avventura era arrivato anche dai contatti che, negli ultimi mesi, i quattro avevano allacciato con la controcultura, sia americana che inglese, contatti che avevano portato soprattutto Lennon e McCartney a sperimentare con convinzione anche quelle droghe psichedeliche che tanta parte stavano avendo, proprio in quel periodo, nella definizione della musica psichedelica. E vaghi sentori di psichedelia si avvertono già nel brano che inaugura il disco, quella “Drive My Car” che risente anche di influssi soul, procedendo baldanzosa tra strutture blues e vagheggiamenti rock’n’roll. A Oriente guarda, invece, il raga-folk di “Norwegian Wood (This Bird Has Flown)”, su cui compare, probabilmente per la prima volta in un disco di popular music, il sitar, uno strumento che Harrison aveva preso ad apprezzare dopo aver scoperto la musica di Ravi Shankar. Nel fok-rock in upbeat di “Nowhere Man”, Lennon mette in scena la sua infelice vita matrimoniale, caricando le armonie vocali di una malinconia che è davvero difficile non fare propria. Di contro, le difficoltà incontrate da McCartney con Jane Asher si materializzano tra le pieghe di “I’m Looking Through You”, che ha fattezze folk-rock ma anima country & western. Questi ultimi due brani rappresentano chiari esempi di quelli che, durante le registrazioni del disco, Lennon e McCartney avevano definito con il nome di «canzoni-commedia»: si trattava, insomma, di canzoni che, spostando l’attenzione oltre il solito recinto della tematica amorosa, si concentravano su altre dimensioni della vita.

Umori garage-rock possiede, invece, “Think For Yourself”, brano che contiene la registrazione di due linee di basso: una registrata utilizzando un normale amplificatore; l’altra filtrata, invece, da un distorsore e, dunque, riversata direttamente nel mixer. Tra i brani più famosi del disco vi è sicuramente “Michelle”, ballatona stilosa con echi di chanson francese che McCartney disse di aver buttato giù per scherzo. La risposta di Lennon potrebbe essere “Girl”, il cui languido abbandono lascia intravedere anche qualche traccia di vaudeville. Quello di “In My Life”, dal canto suo, è uno dei momenti più commoventi del canzoniere beatlesiano, con Lennon a rievocare nostalgicamente il proprio passato.

There are places I’ll remember all my life,
though some have changed.
Some forever not for better
some have gone and some remain.
All these places have their moments
with lovers and friends I still can recall.
Some are dead and some are living,
in my life I’ve loved them all

Ci sono luoghi che ricorderò per tutta la vita,
anche se qualcuno è cambiato.
Qualcuno per sempre, non per il meglio
qualcuno è andato via, qualcuno è restato.
Tutti questi luoghi hanno i propri momenti
che posso ancora ricordare con le ragazze amate e gli amici.
Alcuni sono morti, alcuni sono vivi,
nella mia vita li ho amati tutti.

L’influenza del jangle-pop dei Byrds (nello specifico, “The Bells of Rhymney”) è più che esplicita in “If I Needed Someone”, laddove “Run For Your Life” si affida a un godibilissimo country’n’roll. Tra i momenti relativamente più deboli sono da annoverare sicuramente la ballata di “You Won’t See Me”, quel mix di rock’n’roll, soul e rhythm and blues che risponde al nome di “The Word”, il pur accattivante country di “What Goes On” (cantata da Ringo) e, per finire, “Wait”, un brano che era stato escluso dalla tracklist di Help!.

Pochi giorni dopo la pubblicazione di Rubber Soul, giunse nei negozi anche il 45 giri contenente l’accattivante “We Can Work It Out” (nata da una paritaria collaborazione tra Lennon e McCartney e arricchita dal suono dell’harmonium, suonato dal primo dei due autori) e “A Day Tripper”, un brano dall’animo rockabilly innervato a un riff compresso. Seguirà, di lì a poco, un altro grande singolo: sul lato A, “Paperback Writer”, caratterizzata da armonie a quattro voci, evidentemente ispirate dai Beach Boys; sul lato B, “Rain”, brano psichedelico con la base strumentale inizialmente registrata a velocità aumentata e successivamente rallentata, in modo da alterare le frequenze degli strumenti. Si tratta di un brano che testimonia anche a livello lirico l’inoltrarsi dei Beatles, ma soprattutto di Lennon, nei territori “dilatati” della coscienza: il brano, infatti, riflette poeticamente l’esperienza di un individuo che, avendo assunto droghe lisergiche, riesce a sperimentare il mondo come un’unica, infinita fonte luminosa, oltre che come una totalità in cui tutti gli elementi sono necessariamente legati tra di loro. Tematica, questa, che ben testimoniava il profondo legame che, fin da subito, si era instaurato tra la musica psichedelica e le filosofie orientali.

La sperimentazione pop della band proseguì con Revolver, disco pubblicato il 5 agosto del 1966. In quei solchi trovarono finalmente sbocco un po’ tutte le influenze che Lennon e soprattutto McCartney (all’epoca, dei quattro sicuramente quello più curioso e aperto a tutti gli stimoli culturali) avevano digerito negli ultimi anni. Inoltre, quei solchi dimostrarono che, al pari di Brian Wilson, i Beatles avevano ormai elevato lo studio di registrazione a vero e proprio macro-strumento musicale, attraverso cui manipolare, all’occorrenza, non solo tutti gli altri strumenti, ma anche le più disparate sorgenti sonore. I primi quattro secondi di “Taxman”, che sono anche i primi quattro secondi di Revolver, hanno proprio il compito di presentare il disco «come qualcosa di necessariamente ambientato in uno studio di registrazione, con la prova del volume della chitarra, la tosse per schiarirsi la voce, la scansione del tempo prima della registrazione della sezione ritmica, il rumore elettrico e quello del nastro che si riavvolge per essere pronto a una sovra incisione o a un riascolto»1. Conclusasi l’invettiva contro il sistema fiscale inglese (che colpiva ferocemente anche i ricchissimi Beatles) di “Taxman” (brano guidato da una batteria stentorea e travolto da un febbrile assolo di chitarra suonato da McCartney), il disco fa spazio alla bellissima elegia di “Eleanor Rigby”, uno dei massimi esempi di pop barocco dell’epoca, anche in virtù di un azzeccatissimo arrangiamento per ottetto d’archi scritto da George Martin. La dolce indolenza di “I’m Only Sleeping” (con assolo di Harrison mandato al rovescio) prelude a quell’ibrido di psichedelia e musica indiana che è “Love You To”, arrangiato con sitar, tanpura e tabla. Alla sognante atmosfera di “Here, There And Everywhere” (canzone d’amore per cui McCartney tenne più di un orecchio rivolto alle avventure sonore di Brian Wilson) fa seguito, dunque, la giocosa innodia di “Yellow Submarine” (voce di Ringo). McCartney l’aveva scritta un paio di anni prima come canzone per bambini, affidandosi a un’andatura scanzonata. Durante le registrazioni, fu completata con tutta una serie di rumori buffi, realizzati dagli stessi Beatles armeggiando con catene, trombette, fischietti, tubi di gomma, campanelli assortiti e finanche una vecchia tinozza di stagno.

Ispirata alle sonorità dei Byrds è, invece, “Here, There And Everywhere”, con ritmica irregolare e un testo carico di angoscia, cui fanno da contraltare la scanzonata “Good Day Sunshine” (che fa pensare a un vecchio saloon del Far West popolato da personaggi bizzarri) e la rotolante “And Your Bird Can Sing”. Pop da camera incentrato sulla fine di una storia d’amore è, invece, quello di “For No One” (con contrappunto di corno francese, opera di Alan Civil della BBC Symphony Orchestra), laddove, per l’agile beat di “Doctor Robert”, Lennon s’ispirò alle figure di due dottori americani che erano soliti stimolare i propri pazienti con la somministrazione di particolari sostanze. Terzo contributo al disco da parte di Harrison, dopo quello di “Taxman” e “Love You To”, la riflessiva “I Want to Tell You” si concentra sui problemi di comunicazione visti da una prospettiva orientale, secondo la quale gli stessi altro non sono che contraddizioni tra due o più diversi livelli di esistenza:

It’s only me, it’s not my mind
That is confusing things.

Sono solo io, non è la mia mente
che confonde le cose.

In “Got To Get You Into My Life”, dunque, si ascolta quello che potrebbe essere definito come un inno psichedelico suonato in onore della Motown, la storica etichetta americana che trasformò la black-music in un affare colossale. Il disco si chiude con “Tomorrow Never Knows”, che non è soltanto il capolavoro assoluto dei Beatles, ma anche uno dei brani più rivoluzionari e preveggenti della storia del rock. Se, a partire dal 1965 circa, Harrison aveva incominciato a interessarsi di musica indiana e McCartney era andato, a più riprese, approfondendo le proprie passioni relative alla classica contemporanea e all’avanguardia in genere, Lennon si era, invece, concentrato sulla propria interiorità, soprattutto dopo aver scoperto l’acido lisergico, l’LSD. Un giorno del gennaio 1966, si era imbattuto in The Psychedelic Experience: A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead, un libro scritto da Timothy Leary, Richard Alpert e Ralph Metzner. Nel testo veniva teorizzata la «morte dell’ego», un’esperienza paragonabile a quella che Carl Gustav Jung aveva definito come «coscienza oceanica», ovvero la sensazione che tutte le cose siano connesse tra di loro, a formare un’unica Totalità. Si trattava di un’idea che, come abbiamo visto, Lennon aveva già utilizzato per scrivere il testo di Rain, per quanto in quel caso la stessa fosse stata trattata in modo fin troppo elusivo. Quando Lennon presentò agli altri le sue idee musicali relative al brano che aveva deciso di scrivere, una delle prime cose che disse fu che gli sarebbe piaciuto farlo cantare a un gruppo di monaci tibetani… Per venirgli incontro, si pensò addirittura di appendere lo stesso Lennon a una corda e farlo oscillare mentre cantava davanti al microfono, salvo poi ripiegare sull’utilizzo di un altoparlante rotativo Leslie che avrebbe filtrato la sua voce. Quest’ultima, inoltre, venne raddoppiata elettronicamente grazie all’utilizzo dell’ADT (Automatic Double Tracking).

A caratterizzare pesantemente “Tomorrow Never Knows” è, però, soprattutto l’ipnotica e circolare figura batteristica di Ringo Starr che, unita all’utilizzo di cinque tape-loops (porzioni di nastro magnetico incisi e uniti ad anello a formare un segnale musicale ciclico), proiettano il brano verso il futuro delle contaminazioni tra rock e musica elettronica.

Turn off your mind
relax and float down stream
it is not dying, it is not dying
lay down all thoughts
surrender to the void
it is shining, it is shining
that you may see the meaning of within
it is being, it is being
that love is all and love is everyone
it is knowing, it is knowing

Spegni la tua mente rilassati
e abbandonati alla corrente
non è morire, non è morire
metti da parte tutti i pensieri
arrenditi al vuoto
è risplendere, è risplendere
che tu possa capire il significato del profondo
è esistere, è esistere
che l’amore è tutto e l’amore è tutti
è sapere, è sapere.

Revolver fu la risposta che i Beatles idealmente diedero ai Beach Boys, la band californiana che, nella corsa al Sacro Graal della Sperimentazione Pop, aveva fatto registrare, solo un paio di mesi prima, un eccezionale risultato con la pubblicazione di Pet Sounds. E mentre Brian Wilson (che dei Beach Boys era il leader indiscusso, oltre che il compositore di maggior talento) stava cercando di alzare ancora di più l’asticella con le infinite session del progetto SMiLE, i Beatles se ne uscirono con un disco destinato a incidere profondamente sull’immaginario musicale degli anni Sessanta. Prima, però, per la precisione il 17 febbraio 1967, avevano pubblicato un altro storico singolo, contenente “Penny Lane” e “Strawberry Fields Forever”, due capolavori attraverso cui, rispettivamente, McCartney e Lennon operavano, avvolti da fumi psichedelici, una ricognizione nelle loro memorie giovanili. Se, però, “Penny Lane” possiede un fascino antico, impreziosita, com’è, da quell’assolo di tromba in stile barocco per cui David Mason si lasciò ispirare da Bach e dai suoi concerti brandeburghesi, “Strawberry Fields Forever” è purissimo distillato di visioni lisergiche che Lennon aveva buttato giù alla fine del 1966, quando la sua vita personale stava andando a rotoli, non solo a causa del suo matrimonio ormai agli sgoccioli con Cynthia Powell, ma anche per l’abuso di LSD. Così, Lennon si rifugiò nel ricordo di Strawberry Field, un ex orfanotrofio di Liverpool che si trovava nei pressi della sua casa di infanzia e dove il piccolo John andava spesso a giocare.

Let me take you down
‘cause I’m going to Strawberry Fields
nothing is real
and nothing to get hungabout
Strawberry Fields forever

Lascia che ti porti con me
perché sto andando a Strawberry Fields
niente è reale
non c’è niente di cui preoccuparsi
Strawberry Fields per sempre.

Accolto con incredibile eccitazione, il primo giugno successivo uscì Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, uno dei dischi più famosi della storia del rock. L’idea di creare un alter ego dei Beatles, la Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepe, era venuta a McCartney: un giorno, verso la fine dell’estate 1966, viaggiando tra la Francia e il Kenya, aveva pensato che assumere le fattezze di una banda di ottoni d’epoca vittoriana poteva essere un’idea intrigante per portare nuovo fieno nella cascina della creatività dei Beatles. Accompagnato dall’iconica copertina che Jann Haworth e Peter Blake avevano realizzato seguendo i suggerimenti dello stesso McCartney (i quattro Beatles, in coloratissimi abiti da suonatori di banda, danno le spalle a un pubblico ideale composto da sagome di personaggi – ben 65 – più o meno famosi, da Albert Einstein a Karl Marx, da Edgar Allan Poe a Marilyn Monroe, passando per Marlon Brando, Lenny Bruce, il filosofo indiano Paramhansa Yogananda, il mago e occultista Aleister Crowley e via discorrendo), Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è un caleidoscopio sonoro attraverso cui la musica pop si diffrange, assumendo diverse fattezze stilistiche, timbriche e armoniche.

Si parte con il tema del brano omonimo, introdotto dal vocìo degli orchestrali intenti ad accordare gli strumenti e svolto attraverso un delizioso connubio di heavy-rock e orchestrazioni edoardiane. Segue, quindi, “With a Little Help From My Friends”, in cui Ringo canta le liriche come se fossero quelle di una filastrocca. “Lucy in the Sky With Diamonds” mette insieme, quindi, visioni lisergiche filtrate dallo specchio di Alice nel paese delle meraviglie e un ritornello che, annunciato dai colpi della batteria di Ringo, avanza con farraginosa baldanza rock, quella che “Getting Better” rende più luminescente grazie all’insistito pulsare delle chitarre. Un feeling pensieroso possiede, invece, “Fixing A Hole”, che non è, come molti hanno creduto durante gli anni, un inno all’eroina (fin troppo distratti dal “buco” del titolo – hole), ma, come preciserà McCartney, un’allusione alla marijuana, la droga che egli allora assumeva regolarmente per rilassare la mente e spingerla verso universi paralleli. Tutt’altra atmosfera si respira, poco dopo, in “She’s Leaving Home”, incantevole tessitura di pop barocco (tra gli strumenti impiegati ci sono violini, violoncelli, viole, un’arpa e un contrabbasso) incentrata sulla vicenda di una ragazza incompresa che decide di lasciare per sempre la casa in cui era nata e vissuta.

Segue “Being For The Benefit Of Mr. Kite!” e ci accoglie l’immagine di un circo di provincia, tra frizzi e lazzi bandistici, dissolti, di lì a poco, tra i fumi d’incenso e le vibrazioni raga che introducono “Within You Without You”, brano messo a punto da Harrison che, oltre a cantare, secondo gli insegnamenti delle filosofie orientali, di unità del Tutto e dell’Amore come strumento per cambiare il mondo, utilizza strumenti per l’epoca assolutamente atipici per la musica pop, quali il dilruba (in pratica, un violino dotato di una sola corda), il tanpura (la cui forma fa pensare a quella di un liuto dal collo allungato), la svarmandal, (una cetra con corde metalliche che aveva già trovato posto nell’arrangiamento di Strawberry Fields Forever), la tabla (un tamburo a una sola pelle) e, per finire, il sitar, lo strumento che, più di ogni altro, rappresentò, nell’immaginario collettivo degli anni Sessanta, il simbolo della musica indiana.

“When I’m Sixty Four”, scritta da McCartney, risaliva addirittura ai tempi dei Quarrymen e qui assume fattezze di spassoso music-hall mentre satireggia sulla vecchiaia. Un basso galoppante accompagna, quindi, “Lovely Rita”, tra digressioni honky-tonk e rumori percussivi prodotti con la bocca da Lennon. Quest’ultimo è l’autore di “Good Morning Good Morning”, una «nauseata cavalcata al piccolo galoppo attraverso il letame, le storture e le terrene debolezze della fattoria umana»2 che prelude alla reprise del tema della title-track, falso finale di un disco che chiude, invece, con il capolavoro “A Day In The Life”, nato dalla combinazione di due canzoni cui Lennon e McCartney stavano lavorando proprio in quei giorni. Quelle due canzoni, molto diverse tra di loro, furono amalgamate con sagace pazienza dai due, sempre supportati dal solito estro di George Martin. Se per il testo furono utilizzate due notizie che Lennon aveva letto sul quotidiano «Daily Mail» (una riguardante l’autopsia dell’amico Tara Browne, l’erede dell’immensa fortuna dei produttori di birra Guinness tragicamente morto in un incidente stradale; l’altra, invece, incentrata sulle migliaia di buche – pare fossero circa quattromila! – che rendevano pressoché impraticabili le strade di Blackburn, una cittadina del Lancashire), per la musica Lennon e McCartney vollero provare a fare qualcosa che fosse influenzato sia dall’imperante clima psichedelico, sia dalla musica sinfonica.

All’inizio, “A Day In The Life” ha un andamento trasognato, come se una vecchia ballata (introdotta da accordi di pianoforte che possiedono la solennità di una sonata d’altri tempi) – fosse improvvisamente tornata a galla dalle profondità della Memoria. Attraverso un vertiginoso glissando orchestrale, il brano assume, dunque, una connotazione swingante, con McCartney a fare suo il microfono, prima che Lennon torni di nuovo in auge, informandoci, come aveva fatto all’inizio, di aver letto la notizia di un “uomo fortunato giunto a destinazione”. Dunque, quel vertiginoso glissando orchestrale ritorna, ma adesso per l’ultima volta, come un orgasmo musicale che si risolve nel violento accordo di pianoforte la cui eco resiste per ben trentasette secondi. In questo modo, McCartney voleva dare l’idea di un finale che potesse idealmente resistere all’infinito, a significare un incremento di potenza cui solo lo schianto dell’accordo pianistico aveva posto fine. Lennon, tuttavia, non era d’accordo e volle aggiungere, pochi secondi dopo, un fischio acutissimo (che, però, solo i cani avrebbero potuto ascoltare!) e, quindi, un loop di voci che, trasposto sugli ultimissimi solchi del vinile, si sarebbe risolto in un «locked groove», cioè in un solco concentrico e, quindi, infinito.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non è il disco più riuscito dei Beatles e non è nemmeno il momento più alto della sperimentazione pop degli anni Sessanta (per quello, rivolgersi ai Beach Boys di Pet Sounds e, soprattutto, delle Smile Sessions), ma è sicuramente quello che ebbe l’impatto maggiore, idealmente inaugurando l’estate psichedelica del 1967, l’anno più mitico della storia del rock.

Note:

  1. Gianfranco Salvatore, I primi 4 secondi di Revolver. La cultura pop degli anni Sessanta e la crisi della canzone, EDT, 2016, pag. 88
  2. Ian MacDonald, The Beatles. L’opera completa, Mondadori, 1997, pag. 226
Discografia Consigliata

A Hard Day’s Night (1964)
Help! (1965)
Rubber Soul (1965)
Revolver (1966)
Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967)

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