Coma Cose, hype senza paura

Tra i fenomeni non propriamente giovanissimi all’anagrafe, i Coma Cose occupano un posto del tutto speciale. Il deus ex machina del duo italiano, Fausto Zanardelli aka Fausto Lama, è in pista da diversi anni sotto moniker Edipo, quindi non è di certo l’ultimo arrivato. Ad accompagnarlo in questa sua nuova avventura, è Francesca Mesiano, in arte California, MC originaria di Pordenone. Il duo ha all’attivo diversi singoli e ha da poco tirato fuori il primo disco, Hype Aura. Un titolo che esplica in toto quello che resta fin dal principio il leit motiv dei Coma Cose: giocare con le parole, strizzarle e capovolgerle come panni stesi al sole, fino a stirarle in studio di registrazione creando così delle singolari fascinazioni interpretative che mutano a seconda della sensibilità dell’ascoltatore. Il titolo è infatti un gioco di parole, e può essere letto in italiano come “Hai Paura”, o secondo un’interpretazione più filosofica come l’amplesso tra la parola inglese hype (“montatura”) e la parola aura, in un improbabile significato atto ad evidenziare i sintomi legati ai processi di esaltazione delle produzioni musicali usa e getta.

Fausto e Francesca sono coppia nella musica così come nella vita. E per alcuni aspetti sono un po’ i Daft Punk del rap italiano 3.0. I due si sono conosciuti in un negozio di vestiti del quartiere Ticinese di Milano, nel quale lavoravano entrambi come commessi, e un bel giorno hanno deciso di darsi alla pazza gioia, fondendo in un unico progetto musicale le proprie strofe assassine. Le parti strumentali dei loro brani sono perlopiù prodotte dai Mamakass, un duo formato dai musicisti, produttori, arrangiatori e compositori Fabio “FabzTheDale” Dalè e Carlo “MidGuy” Frigerio, entrambi originari di Bergamo.

Al netto delle opportune mansioni artistiche, lo stile dei Coma Cose, per quanto ben sintonizzato con gli umori alternativi del calderone indie italiano, sempre a metà strada tra irriverenza e amaro disincanto, resta a suo modo unico. Lama e California descrivono il loro genere come “attitudine urbana”, arrivando financo ad affermare a più riprese che la loro musica “suona come gli ingressi dei palazzi di Milano di notte, Laura Palmer o giù di lì”, a conferma di un citazionismo che non rinuncia a una certa nostalgia nineties, la stessa che domina l’abbigliamento dei giovanissimi, con il recupero incondizionato di marchi sportivi italiani finiti per vent’anni nel dimenticatoio, schiacciati dal peso dei colossi americani e tedeschi. Capi nuovamente in auge che la dicono lunga sul consueto boomerang delle tendenze.

Intrigante anche il senso del loro stesso nome: “Coma” sta per contenitore, mentre “Cose” è la sua naturale prosecuzione. Inoltre, su instagram nessuno aveva un nome così e quindi l’aggiunta di una seconda parola è stata quasi obbligata, come hanno entrambi confermato in svariate interviste. Ciò che comunque li rende particolari nel calderone rap italiano di questi ultimi anni, sempre più denso di melma, è una serie di elementi distinguibilissimi, come un flow calibrato a gettoni e slang ispirati ai quali fungono da volano citazioni inserite con altrettanta accuratezza. Un modus operandi scevro di quell’insana necessità tutta fumo e niente arrosto propria di tanti giovani rapper fotocopia, capaci di frullare tutto e il suo contrario giusto per darsi un tono. I Coma Cose, inoltre, sono dei veri e propri animali da palcoscenico e riescono ad alternarsi al microfono con grande naturalezza, rigando dritto verso una mescola possibile tra rap e it-pop, beat e strumentazione analogica.

Lama e California soffiano su quella cosa chiamata hype con la spavalderia di chi sa il fatto suo, provocando l’ascoltatore con battute illuminate e illuminanti, figlie di uno sguardo generazionale tanto cinico e distaccato, quanto assolutamente in linea con l’imprinting digitale amato dai ventenni. Entrambi sembrano puntualmente conoscere alla perfezione le diverse esigenze dei giovanissimi, il loro linguaggio, e allo stesso tempo entrambi hanno ben assorbito la storia della musica pop italiana. A tal riguardo, basta ascoltare il passaggio “Dammi una lametta che mi taglio le vene” di rettoriana memoria per quantificare l’attenzione rivolta a un passato ben preciso del pop italiano più coraggioso. I giochi di parole si susseguono uno dietro l’altro, e l’assenza di una qualche spocchia è il punto di forza di una narrazione genuina, il più delle volte anche dannatamente estroversa. Versi come quelli contenuti in Mariachidi mostrano appieno il fascino di tali suggestioni:

Ammazzo i vampiri come Dylan Dog
Ma con la penna sono Dylan Bob
Non mi vedrai mai fare la diva, no
Piuttosto resto a casa in tuta sul mio divano
Ti dilanio
Se cane mangia cane il mondo ha sempre fame§
Odia il sushi, edamame
E non mi fare la morale che alla quarta pinta
Faccio Bukowski-fo se bevo la quinta
La solitudine costa fatica
Mi salvi sul telefono e mai nella vita

(da Mariachidi)

Sul piano strettamente musicale, giri sintetici totalizzanti e avvolgenti, come quello della riuscitissima Mancarsi, espongono una cifra stilistica accattivante e nella quale non manca anche una certa vena autobiografica:

Se giro il bomber sembro un Hare Krishna
Partiti da lontano senza niente
Ma in questo mondo, sai, bisogna farseli (money, money)

(da Mancarsi)

Nel disco, spuntano anche chitarra con synth in appoggio (Squali) e maestose code sintetiche, quasi a voler ricreare un climax da pellicola sci-fi (Intro).

Non lasciatevi dunque ingannare dalla parola hype e dagli stessi hype musicali del momento che annebbiano la vista come mosche in una discarica. Per dirla alla maniera di Achille Lauro – trapper di cui tanto si parla, spesso ingiustamente a sproposito – “tieni da parte un posto e segnati ‘sti nomi”.

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