Bob Dylan (Parte 3)

Durante la seconda metà del 1978, reduce dalla pubblicazione del controverso Street Legal, Bob Dylan tornò a fare i conti con i suoi demoni, ritrovandosi a vivere un periodo di confusione. Fu così che, stimolato da Helena Springs, una delle sue coriste, e dall’allora sua compagna, l’attrice Mery Alice Artes, decise di entrare a far parte della Vineyard Fellowship, una chiesa evangelica fondata dal reverendo Ken Gulliksen appena tre anni prima. Una volta battezzato, prese a seguire un corso intensivo di studi biblici (cinque giorni alla settimana per sei mesi), vivendo quella che egli stesso definirà come «un’esperienza di rinascita». Con la consapevolezza di essere una nuova persona (una persona migliore, a suo dire), Dylan affrontò quindi, nel biennio ’79-‘81, la registrazione di tre dischi che andranno a formare quella che la critica definirà, poi, come la «trilogia cristiana». Per i suoi fan si trattò di un vero shock, ma Dylan andò per la sua strada, senza battere ciglio.

La sua dichiarazione d’amore per Cristo iniziò con Slow Coming Down (agosto 1979), opera il cui messaggio può così essere sintetizzato: per l’uomo, che è necessariamente nel peccato, l’unica àncora di salvezza è rappresentata dalla fede religiosa. Caratterizzato da un sound rotondo e privo di spigoli, oltre che da testi lontani anni luce dalla complessa stratificazione intertestuale e simbolica dei suoi momenti migliori, Slow Coming Down è il manifesto di un «born again», di un “rinato” grazie alla fede in Cristo, che fa leva su brani dall’andamento lineare – siano essi più (“Gotta Serve Somebody”, Slow Train”) o meno robusti (“I Believe In You”, “When He Returns”, “Man Gave Names to all the Animals”, quest’ultima addirittura in chiave reggae!) – per gridare al mondo che, anche in fondo al tunnel più buio, c’è sempre la possibilità di rintracciare una luce salvifica. Dovendo indicare il momento migliore di un disco tutto sommato dignitoso, la scelta ricadrebbe sicuramente sulla ballata folk-rock venata di soul di “Precious Angel”.

Il successivo Saved (giugno 1980) fu, invece, fin troppo facile bersaglio per gli strali della critica, causa una successione di brani pesantemente inficiata da organi chiesastici, cori gospel e un afflato spirituale incontrollato. Il brano più travolgente, in bilico tra rock’n’roll, honky-tonk e una cerimonia gospel, è proprio la title-track, ma anche “Solid Rock” ha dalla sua una buona dose di energia, mentre il resto scivola via tra momenti più riflessivi che pagano lo scotto di essere stati arrangiati in maniera dozzinale.

Leggermente meglio fece Shoot Of Love (agosto 1981), grazie a una più variegata palette di soluzioni, che si traduce in una manciata di canzoni d’amore il cui oggetto non è più semplicemente il Dio trascendente, ma l’Amore stesso, spesso inteso nel suo senso più puro e disinteressato. In questi solchi, spiccano “Lenny Bruce”, in ricordo del grande comico morto nel 1966 e, per finire, una “Every Grain Of Sand” che, incrociando la Bibbia e William Blake, ma anche rifacendosi a un altro brano importante dello stesso Dylan (“Chimes Of Freedom”, per la precisione), innalza una commossa ode al creato, alla meraviglia che si annida anche dietro la più infima delle cose.

In the time of my confession, in the hour of my deepest need
When the pool of tears beneath my feet flood every newborn seed
There’s a dyin’ voice within me reaching out somewhere
Toiling in the danger and in the morals of despair

Don’t have the inclination to look back on any mistake
Like Cain, I now behold this chain of events that I must break
In the fury of the moment I can see the Master’s hand
In every leaf that trembles, in every grain of sand

Nel momento della mia confessione, nel momento del mio più profondo bisogno
Quando la pozza di lacrime sotto i miei piedi si allaga con ogni neonato seme
C’è una voce in agonia dentro di me che cerca qualcosa da qualche parte,
lavorando duramente nel pericolo e nella morale della disperazione.

Non ho l’inclinazione a guardare indietro ad ogni sbaglio,
come Caino, adesso scorgo questa catena di eventi che devo spezzare.
Nella furia del momento, riesco a vedere la mano del Signore
In ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia.

Così come era arrivata, l’infatuazione religiosa se ne andò. Quando iniziò a lavorare al suo nuovo disco, Dylan non era più l’invasato predicatore evangelico che si era impadronito della sua identità nel precedente lustro, ma un uomo che, pur consapevole dell’importanza della religione, non poteva in alcun modo esimirsi dal vivere tutte le contraddizioni dell’essere qui e adesso, su questa terra.
Prodotto insieme a Mark Knopfler dei Dire Straits (che suona anche la chitarra, come aveva già fatto su Slow Coming Down), Infidels (ottobre 1983) tornò dunque a focalizzarsi su tematiche secolari. Aperto dalle ariose atmosfere reggae-pop di “Jokerman” (che comunque gioca ancora la carta delle allegorie religiose, seppur filtrate da un lirismo meno dogmatico), Infidels vanta una discreta carrellata di momenti intimisti (“Sweetheart Like You”, “License To Kill”, “Don’t Fall Apart on Me Tonight”) e altri in cui l’incisività ritmica va di pari passo con un rinnovato impegno civile (“Neighbourhood Bully”, inno sionista a difesa di Israele, “Man Of Peace” e una “Union Sundown” che, tra rifferama bluesy e solida andatura boogie’n’roll, sembra profetizzare le tematiche no-global che avrebbero fatto breccia tra le masse solo alla fine degli anni Novanta). Da segnalare, infine, quell’accorato confronto con se stesso che risponde al nome di “I And I”.

Prodotto impeccabilmente e suonato da un manipolo di sessionman di alto livello (tra cui Mick Taylor, già in forza ai Rolling Stones, e i due produttori reggae Sly Dunbar e Robbie Shakespeare), Infidels fu acclamato da critica e pubblico come un ritorno in grande stile, per quanto nessuna delle sue canzoni, fatta eccezione per la splendida “Jokerman”, potesse davvero dirsi memorabile. Di certo, però, era un disco che risollevava, anche se solo parzialmente, le quotazioni di Dylan, e questo non era cosa da poco, vista la tripletta di Empire Burlesque, Knocked Out Loaded e Down In The Groove che, nel quadriennio ’85-’88, avrebbe fatto nuovamente registrare un calo evidente della sua ispirazione, nel primo caso con una serie di brani ballabili e così impeccabilmente prodotti da risultare artificiosi (il singolo “Tight Connection to My Heart (Has Anyone Seen My Love?)”, il solo brano degno di nota); nel secondo, con una serie di canzonette pop-rock che, fatta eccezione forse per la sola “Brownsville Girl” (undici minuti di folk-gospel nati dalla collaborazione con l’attore e sceneggiatore Sam Shepard), facevano leva su un artigianato di seconda mano; e, per finire, con una serie di cover senza guizzi e quattro inediti di cui solo la lenta e crepuscolare “Death Is Not The End” può dirsi relativamente interessante.

Nel 1985, intanto, dopo aver partecipato alla registrazione di “We Are The World” (un orrendo e retorico brano destinato a raccogliere fondi a sostegno dell’Etiopia, all’epoca messa a dura prova da una devastante carestia), Dylan era stato tra i protagonisti del Live Aid, un concerto di beneficenza organizzato da Bob Geldof e Midge Ure con lo scopo di dare ulteriore sostegno al popolo etiope.

Tra il 1986 e il 1987 andò, quindi, in tour prima con Tom Petty and The Heartbreakers e poi con i Grateful Dead, in seguito prendendo parte a Hearts Of Fire di Richard Marquand, un film per cui scrisse anche un paio di brani inediti: “Night After Night” e “I Had A Dream About You, Baby”. Nel 1988, Dylan fu inserito nella Rock and Roll Hall of Fame. A presentarlo fu chiamato l’amico e suo grande ammiratore Bruce Springsteen, che così si espresse: «Bob Dylan ci ha liberato la mente, mentre Elvis ci ha liberato il corpo. Egli ci ha fatto comprendere che, solo perché la musica è fisicamente innata, questo non significa che sia anti-intellettuale.»

La successiva mossa di Dylan fu quella di entrare a far parte dei Traveling Wilburys, un supergruppo che comprendeva anche George Harrison, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne, quest’ultimo co-fondatore della Electric Light Orchestra. Il loro primo disco, Traveling Wilburys Vol. 1, uscì nell’ottobre di quello stesso anno, regalando agli appassionati un’accattivante e briosa miscela di folk e roots-rock, con brani impeccabilmente costruiti e certosinamente prodotti (“Handle With Care”, “Dirty World”, “Rattled”, “Margarita” e “End Of The Line” i migliori). Senza Orbison (morto nel dicembre del 1988, appena due mesi dopo l’uscita del disco), la band pubblicò un secondo e ultimo volume, ironicamente chiamato Traveling Wilburys Vol. 3 e caratterizzato da un sound più robusto e da una qualità media leggermente inferiore.

Nel frattempo, Dylan aveva ricominciato a scrivere canzoni, immaginandole come tasselli di un nuovo disco. La prima di una lunga serie arrivò quasi per caso, durante una notte insonne. La chiamò “Political World”. Poi, su suggerimento di Bono degli U2, si mise in contatto con il produttore Daniel Lanois, trasferendosi, quindi, a New Orleans per iniziare le registrazioni di Oh Mercy (settembre 1989), il disco della sua ennesima rinascita. Ne inaugurava la scaletta proprio “Political World”, con il suo incedere rockeggiante e vagamente tribale e la sua amara constatazione che i tempi sono ormai davvero cambiati, ma in peggio: il mondo è dominato dalla politica, l’amore è stato esiliato e il crimine non ha un volto preciso. “Everything Is Broken” veleggia verso quella stessa direzione, annunciando che tutto si è rotto, tutto si è trasformato in qualcos’altro. Tracce di quella spiritualità che aveva caratterizzato la fase della sua conversione religiosa le si ritrovano, invece, in brani quali “Where Teardrops Fall” e “Ring Them Bell”, mentre la malinconia prende il sopravvento nelle trame dilatate e desertiche di “The Man In The Long Black Coat” e in quelle solenni di “Most Of The Time”, una canzone dedicata a un amore ormai finito ma che non smette di rappresentare una fonte inesauribile di rimpianti. Tutta la seconda parte di Oh Mercy è dominata, invece, da sonorità più intimiste, che fanno il paio con esercizi di autoanalisi (“What Good Am I?”), miraggi gospel (“Disease Of Conceit”), pseudo riletture di “Where Do You Think You’re Going” dei Dire Straits (“What Was it You Wanted?”) e sguardi puntati verso stelle cadenti (“Shooting Star”).

Oh Mercy, però, rappresentò un’oasi nel deserto, perché appena un anno dopo, lasciatosi alle spalle Lanois e affidatosi a Don e David Was, Dylan sfornò Under The Red Sky, ripiegando su solide ma innocue soluzioni rock (“Wiggle Wiggle”, “Unbelievable”, “T.V. Talkin’ Song”, etc.). Cercando di navigare a vista in mezzo al mare agitato di una musica rock che a quell’epoca stava lasciando campo libero all’esplosione del grunge, con i Nirvana di Kurt Cobain a guidarne la carovana, Dylan fece uscire, tra il novembre del 1992 e l’ottobre del 1993, Good as I Been to You e World Gone Wrong, due dischi registrati in solitaria (voce, chitarra e armonica) e costituiti interamente da reinterpretazioni di brani altrui. Era roba che poteva richiamare, al massimo, l’attenzione dei suoi fan più incalliti. E così fu. Questa fase acustica fu idealmente coronata dalla registrazione di un MTV Unplugged (maggio 1995), comprendente, come da richiesta della Sony, alcuni dei suoi brani più famosi (“Tombstone Blues”, “I Want You”, “Desolation Row”, “Don’t Think Twice, It’s All Right”, etc.), con l’aggiunta dell’inedita e antibellica “John Brown”, risalente al 1963.

Il periodo di crisi artistica fu confermato dai quattro anni di pausa intercorsi tra l’uscita di World Gone Wrong e la registrazione dell’apprezzabile Time Out Of Mind (settembre 1997). Non fu un caso che la ritrovata vena compositiva coincidesse con la rinnovata collaborazione con Daniel Lanois e il ritorno tra i paesaggi assolati del Sud, ma questa volta in Florida, e per la precisione a Miami. Time Out Of Mind è un disco che racconta di un Dylan tutt’altro che pacificato, eppure di nuovo abile nel declinare le proprie inquietudini attraverso parole precise e taglienti, cullate da una musica calda e avvolgente, spesso dai tratti fumosi, crepuscolari, in cui l’impianto folk-blues assume non di rado connotati metafisici. Prendete, ad esempio, l’iniziale “Love Sick” è capirete cosa intendo: tutti gli strumenti sembrano galleggiare in uno spazio dilatato, le parole si staccano dalla bocca di Dylan per attraversarlo da parte a parte, ora adagiandosi in carezzevole (“Standing In The Doorway”), fumoso disincanto (“Million Miles”), ora prefigurando una morte che prima o poi sarà… ma che, per il momento, non è ancora giunta a chiedere quanto le spetta (“Not Dark Yet”):

I was born here and I’ll die here against my will
I know it looks like I’m moving, but I’m standing still
Every nerve in my body is so vacant and numb
I can’t even remember what it was
I came here to get away from
Don’t even hear a murmur of a prayer
It’s not dark yet, but it’s getting there

Qui sono nato, qui morirò mio malgrado
Sembra che io stia correndo ma sono qui inchiodato
e ogni nervo del mio corpo è assente e insensibile
Non ricordo neppure da cosa stessi fuggendo
quando sono giunto qui
Non odo neppure il mormorio di una preghiera
Buio non è ancora, ma presto lo sarà.

Altrove affiorano, invece, umori country (“Dirt Road Blues”) e tessiture boogie-woogie (“Cold Irons Bound”) in cui l’elettricità esce allo scoperto con piglio deciso. E se un’armonica vibra all’orizzonte oltre l’ingannevole spensieratezza di “Tryin’ to Get to Heaven”, “‘Til I Fell in Love With You” precisa che l’amore (cantato anche nella tenera “Make You Feel My Love”), quando arriva, porta sempre con sé tensione e ansia. In coda, “Highlands”, nei cui sedici minuti e mezzo di blando (molto blando…) country-blues, si racconta di un uomo ormai vecchio e incapace di orientarsi in un mondo dominato da spiriti giovani.
Come ha egregiamente scritto Alessandro Carrera, «Time Out Of Mind è […] un jukebox di riferimenti intertestuali, un gigantesco cut-up operato sul canzoniere del folklore americano.»1

All’inizio del nuovo millennio, Dylan vinse l’Oscar (e un Golden Globe) per la canzone “Things Have Changed”, che faceva parte della colonna sonora del film Wonder Boys del regista Curtis Hanson.

Pubblicato l’11 settembre del 2001, il giorno degli attentati alle Torri Gemelle di New York, Love And Theft segnò, invece, il suo ritorno sulle scene discografiche con un lavoro onesto ma, a conti fatti, inferiore al suo predecessore. Se il rutilante blues-rock dell’iniziale “Tweedle Dee & Tweedle Dum” fa satira sociale mentre strizza l’occhio ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, e quello, rauco e atemporale, di “High Water”, omaggia il grande Charley Patton, quelli muscolari di “Lonesome Day Blues” e “Cry A While” possono, invece, solo affidarsi a un buon mestiere, spingendosi, rispettivamente, oltre i sei e i cinque minuti di durata, senza badare al fatto che l’ispirazione, quando non è delle migliori, è meglio non stuzzicarla troppo. In “Summer Days” c’è spazio per una rimpatriata nel giardino incantato del rock’n’roll delle origini, mentre per “Po’ Boy” Dylan veste i panni di un vecchio cantastorie alle prese con una serie di bozzetti incentrati sulle vicende di un «povero ragazzo». Alle atmosfere, insieme intime e dilatare, di Time Out Of Mind fa pensare, invece, la ballata “Sugar Baby”, in cui Dylan, rivolgendosi alla donna una volta amata, dice che è tempo che sia lei a fare a meno di lui.

Risalendo ancora fino alle radici della musica americana e facendo leva su di un sound scarno ed essenziale (da lui stesso gestito in fase di produzione con il nomignolo di Jack Frost), in Modern Times (agosto 2006) Dylan chiarisce a più riprese che la “modernità” è un concetto relativo, per cui non c’è nulla di male nell’affidarsi a canzoni che raccontano storie così come si faceva una volta, mentre la musica si muove tra rock’n’roll ammansito (“Thunder on the Mountain”, “Someday Baby”, “The Levee’s Gonna Break”), blues (“Rollin’ and Tumblin'”) e ballate old-style (“Spirit On The Water”, “When the Deal Goes Down”, “Workingman’s Blues #2”, “Nettie Moore”). Di un certo interesse è la conclusiva “Ain’t Talkin’”, altra epica meditazione dylaniana, questa volta dedicata alla figura di un pellegrino che, in un mondo sempre più dominato dal dolore, continua ad andare alla ricerca di un Dio sfuggente.

As I walked out tonight in the mystic garden
The wounded flowers were dangling from the vine
I was passing by yon cool crystal fountain
Someone hit me from behind

Ain’t talkin’, just walkin’
Through this weary world of woe
Heart burnin’, still yearnin’
No one on earth would ever know

They say prayer has the power to heal
So pray for me, mother
In the human heart an evil spirit can dwell
I am a-tryin’ to love my neighbor and do good unto others
But oh, mother, things ain’t going well

Nel mistico giardino, stanotte son uscito
Fiori dal rampicante pendenti, feriti
Passai oltre la fresca fonte di cristallo, lassù in cima
Quando da dietro qualcuno mi urtò

Non parlo, soltanto cammino
Attraverso questo stanco mondo di dolore
Brucia il cuore, ancora si strugge
Sulla terra, nessuno saprà mai

La preghiera, dicono, ha il potere di guarire
Perciò prega per me, madre
Nel cuore degli umani può albergare un malvagio spirito
Ci provo ad amare il mio prossimo e a far del bene
Ma oh, madre, le cose non vanno così bene.

Seguiranno, quindi, un mediocre Together Through Life (aprile 2009), conteso tra romanticismo e i sapori della frontiera americana, il leggermente più interessante Tempest (settembre 2012), con l’accattivante shuffle di “Duquesne Whistle”, il blues-rock tambureggiante di “Narrow Way”, le trame soul di “Pay In Blood” e le lunghe, ma poco riuscite, escursioni di “Tin Angel” (nove minuti) e della title-track (quasi quattordici minuti); e, quindi, il trittico per i fan più incalliti costituito da Shadows in the Night (febbraio 2015), Fallen Angels (maggio 2016) e Triplicate (marzo 2017), quest’ultimo dedicato alla rilettura di vecchi standard della musica americana.

La vera notizia di questi ultimi anni, però, riguarda l’assegnazione, avvenuta il 13 ottobre del 2016, del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. La motivazione dell’Accademia svedese fu la seguente: «Per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana.»
Ha detto Alessandro Carrera: «Dylan è senz’altro un poeta, ma non dello stesso genere a cui potrebbero appartenere T.S. Eliot o Montale. È un poeta perché ha inserito nel suo medium, che è quello della canzone, tutta la forza della poesia, del simbolismo, del modernismo di fine Ottocento e del Novecento. Ma Dylan resta soprattuto un cantante, che è più di un autore di canzoni o di un autore di versi per canzoni, perché il cantante deve saper unire i differenti media che sta usando e trasformarli in qualcosa che è di più della somma delle differenti parti. Questo è quello che Dylan è riuscito a fare, in lui si uniscono l’arte della parola, quella della musica e della voce, oltre quella della perfomance. Certo Dylan è anche un narratore, ed è forse più narratore che poeta: ha scritto dei versi bellissimi, ma soprattutto ha inventato storie e ha inventato un modo di raccontarle in canzone. Molti raccontano storie in canzoni, la ballata narrativa è un antichissimo genere della canzone. Dylan si è trovato a utilizzarla negli anni Sessanta, quando la ballata narrativa era impiegata per le forti esigenze del momento: era una ballata topical, che sta per politica, impegnata, che tratta di argomenti del giorno. Ma Dylan non ha mai trattato questi argomenti in maniera strettamente lineare, o lo ha fatto molto raramente. Ha preferito creare delle situazioni allusive o, certe volte, circolari, in cui la storia, una volta sentita, ci lascia sempre qualcosa di non ancora spiegato, ci fa venir voglia di riascoltare la canzone, perché non ci ha detto tutto al primo ascolto. Cosa che molti altri folk singer avevano fatto: lui stesso ha detto che scrivevano canzoni come articoli di giornali. Dylan invece non l’ha mai fatto, neanche quando ha raccontato fatti che aveva letto sul giornale del giorno prima, ha sempre trovato un modo poetico e allusivo per raccontarli.»2

Comunque la si voglia pensare, è fuor di dubbio che l’assegnazione del Nobel a Dylan abbia rappresentato anche un grande riconoscimento per la musica rock tutta. Una musica che, quando smette di accontentarsi di essere mero intrattenimento, è anche in grado di spingersi verso le vette più alte dell’Arte.

Note:

  1. Greil Marcus, citato in Mike Marqusee, Wicked Messenger, Il Saggiatore, 2010, pag. 215
  2. Intervista al musicologo Alessandro Carrera su Bob Dylan. (Rai Cultura)
Discografia Consigliata

Infidels (1983)
Oh Mercy (1989)
Time Out of Mind (1997)

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