Da sempre attento alle tradizioni, musicali e non, della Campania e del Sud in genere, l’artista palmese continua la sua ricerca sonora, veleggiando tra la magia del passato e un’attitudine moderna.

La musica proviene dalle regioni più inaccessibili della nostra anima, ma le ragioni che spingono i musicisti a suonare sono spesso concrete e impregnate di vita vissuta. Lo sa bene Antonio Marotta, artista da sempre attento alle tradizioni musicali della Campania e del Sud in genere. Cresciuto in quel di Palma Campania suonando, come tanti suoi coetanei, in una band rock, Marotta si avvicina, poco alla volta, alle sonorità più antiche della sua terra, iniziando a comporre brani originali in cui coniuga la magia del passato con un impatto sonoro. Nel 2011, grazie all’interessamento della Radici Music, pubblica Canti a dispetto, esordio discografico che brilla per ispirazione e spirito di ricerca. Lontano dalle pacchiane rivisitazioni dei suoni dei nostri avi, Marotta (già collaboratore del maestro Roberto De Simone) dimostrava in quei solchi (dove si divideva tra voce, chitarra classica, chitarra battente e tammorre, avvalendosi, inoltre della collaborazione della cantante Michela Latorre e del multi-strumentista Peter De Girolamo) che la tradizione non è semplicemente un’astrazione, ma un cuore che ininterrottamente pulsa nel nostro sottosuolo, troppo spesso soffocato da mode passeggere e da venditori di fumo…

L’invito di Marotta era quello di guardare il mondo – il nostro mondo! – con occhi antichi, perché solo in questo modo si può attraversare, perlustrandola, la memoria di un popolo. Memoria in cui il nostro artista si era letteralmente immerso, rintracciando luoghi, voci e volti, vivendoli sulla propria pelle, fino in fondo, fino a trasfigurare il “canto a distesa” di “Ammore mje” in una vertigine degna del Tim Buckley più metafisico. Quando, invece, la musica discendeva verso le profondità della terra, ecco materializzarsi i paesaggi sonori di “Viola”, le allegorie di “Jette all’infierno”, i codici arcani di “Tarantella castellana” e “Canto sul tamburo”, una “Pupazzi” che incrociava echi di villanella napoletana e suggestioni ragtime, e, ancora, la confessione/trasfigurazione di “None” e le digressioni jazz-folk di “Sotto o focolare”. Un ritornello indimenticabile era alla base, invece, di “Fuoco”, un brano che realizzava una sintesi perfetta tra la magia della tradizione popolare e il candore cristallino di quel pop che sembra essere fatto della stessa materia della giovinezza:

lu sangue volle dint’e vene, lu carnevale s’avvicina, ‘na vòtta ‘e vino mezza chiena, cu’ nu lamiento sémpe vene…“.

Tre anni dopo, Marotta approfondisce la sua ricerca, allargando anche lo spettro delle soluzioni sonore.
Nasce, così, Catene, disco in cui dialogano tradizioni garganiche, campane, laziali e lucane. Fin dalle movenze elastiche di “Lo guarracino”, si assiste all’ennesima evocazione di mitologie popolari, in bilico tra l’abbaglio del sole e l’incanto della carne (la danza raggiante di “Viestesana”, quella frizzante di “Quanno nascisti tu!” e quella, solennemente disincantata, di “Canti alla carbonara”). Quando, invece, è l’introspezione a prendere il sopravvento, le liriche si raccolgono intorno al fuoco abbacinante dell’amore, disegnando scenari di poderosa poesia (la ballata “Irma”), oppure destreggiandosi tra ambient ed elegia acustica (“Montanara per Carpino”), toccando, dunque, una delle vette assolute del disco con la bellissima “Lli rose”, in cui la voce della Latorre assomiglia alla luce di una candela che brucia lentamente, mentre tutt’intorno il buio assedia le memorie. Tra i momenti più arditi si ricordano, infine, “Tarantella di Sannicandro” (una fusione di fascino psichedelico, percussioni dilatate e fughe oblique) e “Tarantella lucana”, dove una registrazione sul campo fa da preludio a cantilene eccentriche e ruvidi fraseggi elettrici.

Pubblicato il disco, Marotta inizia un lungo giro di viaggi, incontri e concerti, alla fine del quale matura la decisione di fare ritorno a casa, richiamato dal desiderio di prendersi cura di una madre affetta da schizofrenia. Per un anno, l’artista smette quasi di suonare, dedicando tutto se stesso alla donna che gli donò la vita. Poi, approntato uno studio di registrazione domestico, inizia a trasfigurare quell’esperienza in qualcosa di catartico. Di volta in volta, parte dei musicisti conosciuti durante gli anni lo raggiungono tra le mura domestiche, contribuendo alla registrazione dei brani di un progetto denominato semplicemente “Casa Marotta”. Uno dei primi brani registrati porta il titolo di “Siriana”, che si avvale anche di un video “raccolto” sul campo la cui pubblicazione su Youtube prelude a un buonissimo successo di visualizzazioni. In quel brano, la Siria – terra martoriata da una terribile guerra intestina – diventa la metafora di un’esistenza che consuma se stessa dentro pochi metri quadrati, barcamenandosi tra sofferenza, speranza, paure e desideri. Un’esistenza che ha affidato alla musica il compito di distillare un’anima da sempre inquieta e vagabonda, un’anima che Marotta ha (ri-)scoperto, alla fine di un lungo cammino (“Comm’a pasta crisciùta / torn’ a lu paese o màst’… / p’o munno jste / paese arrevutàte làsse”), essere già da sempre salva (“ma l’ànema è salvata già”, come canta nel toccante ritornello).

Oggi, mentre lavora intorno agli ultimi dettagli del suo prossimo disco, Antonio Marotta conserva lo stesso spirito che, qualche anno fa, lo spinse a inoltrarsi lungo il sentiero di quella musica che rappresenta, nonostante tutto, ancora la sorgente della nostra tormentata quotidianità.

Hive Session

Antonio Marotta è stato il protagonista della Hive Session che si è tenuta Venerdì 13 Ottobre nella Hive Music Academy.
Articolo ed intervista a cura del Prof. Francesco Nunziata.

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