Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, l’uomo non può che cantare

Vladimir Jankélévitch
In un alveare (“hive” in inglese), tutte le api operano in armonia: niente è lasciato al caso.

Nonostante le apparenze, anche il nostro universo è un organismo fatto di elementi profondamente interconnessi tra di loro.
Per gli antichi, quest’armonia nascosta, oltre ad avere un carattere matematico, si rifletteva in una vera e propria sinfonia planetaria, una “musica delle sfere celesti” che solo gli uomini puri di cuore sono in grado di percepire.

La musica è l’arte che porta impresso nel proprio nome il ricordo delle Muse, le divinità figlie di Zeus e Mnemosýne (personificazione della Memoria) che superavano nel canto ogni essere umano. Il musicista, raccogliendo l’ispirazione delle Muse, traduce in suoni l’enigmatica complessità delle emozioni. Tutto questo, però, sembra oggi solo un vecchio ricordo, roba da museo. Eppure, proprio la nostra è l’epoca in cui la musica resiste come l’arte più popolare. Essa è dappertutto, aiutata dalle nuove tecnologie che consentono all’uomo, per il tramite di cellulari, iPad, tablet e via discorrendo, di disporre, a suo piacimento e in qualsiasi momento, di brani musicali. Purtroppo, però, quest’onnipresenza nasconde la mercificazione della musica stessa, sempre più costretta nel vortice consumistico che, ormai da decenni, attanaglia la vita dell’uomo.

Ecco, quindi, che la musica, più che ascoltata o compresa, finisce semplicemente per essere “consumata”, così come si consumano un paio di scarpe o un tubetto di dentifricio.
Il desiderio di superare questa “tendenza consumistica” nel rapportarsi alla musica è uno dei fattori che maggiormente hanno inciso nella definizione del progetto Hive.

Se la musica smette di essere una delle tante merci da consumare, allora essa può manifestarsi in tutta la sua potenza evocativa. La musica, infatti, inizia dove finiscono le parole… O meglio: dove le parole – le parole sfruttate, abusate, “consumate” nel quotidiano chiacchiericcio – non sono più in grado di “dire”, lasciando emergere zone d’ombra, tracce di non-detto. In tal senso, la musica è l’arte che ci mette in contatto con l’ineffabile. Anzi: essa è l’arte dell’ineffabile stesso, di ciò che lascia intorno a sé sempre un residuo di senso. Un residuo che non è possibile concettualizzare, che non si può tradurre in un pensiero logicamente coerente, ma solo sperimentare emozionalmente, perché la musica, come scriveva Vladimir Jankélévitch, «esprime l’infinitamente inesprimibile», conducendoci lì dove s’annida il significato ultimo dell’uomo – un significato irriducibile al linguaggio delle parole.
Come il vento (in greco antico: ànemos, termine che sta ad indicare anche l’”anima”), la musica assomiglia ad un movimento insieme invisibile e concreto. Essa sembra provenire da terre inesplorate, le stesse terre in cui, dopo una certa durata, finirà per ritornare. La sua è la consistenza impalpabile del vento o delle tempeste dell’anima. O del tempo, lungo cui si struttura. La musica, del resto, è il tempo nella sua immediatezza. Ma il tempo, diceva Sant’Agostino, è «estensione dell’anima», la sua vera voce.
Ecco, quindi, che il motivo della musica come “specchio dell’anima”, come riflesso delle sue emozioni, appare in tutta la sua potenza.

Quando un brano musicale riempie una stanza, tutti sono in grado di riconoscerne la presenza, ma nessuno potrebbe con precisione indicare dove quest’ultima effettivamente si manifesti.
Così, al pari del Dio delle religioni o della Verità dei filosofi, la musica che riempie la nostra vita mostra se stessa incarnandosi in altro da sé: emozioni, ricordi, suggestioni, etc.
Come la luce che illumina le cose nascondendo se stessa, come il silenzio che si ritrae lasciando emergere i suoni e le parole, come un cielo che svanisce dietro uno stormo di uccelli (pur contenendolo), la musica risuona eclissando la propria consistenza…

La musica, quindi, è molto più che una semplice merce; è molto più che un semplice passatempo. Di contro, quest’arte sublime s’impone, oggi più che mai, come uno dei mezzi più potenti per la costruzione dell’identità dell’uomo. In un’epoca in cui la massificazione è sempre più pervasiva e in cui i social-network, garantendo l’esibizione della propria individualità, ne nascondono la dissoluzione tra le maglie di una realtà estremamente alterata, direi quasi “contraffatta”, recuperare un sano rapporto con la musica significherà, allora, riattivare anche quei meccanismi che contribuiscono a chiarire il nostro posto nel mondo, offrendoci l’occasione di definire la nostra individualità come prodotto di relazioni umane e non virtuali!
Le stesse relazioni che, d’altra parte, si riconoscono alla base di ogni collettivo musicale degno di questo nome, e in cui, proprio come in un alveare, i musicisti e gli operatori agiscono in armonia per raggiungere uno scopo comune.