Dalla quarta di copertina di “Captain Mask Replica” di Francesco Nunziata:

Captain Beefheart, al secolo Don Van Vliet, è uno degli artisti più importanti e mitizzati dell’intera storia del rock. Partito da solide basi blues e armato di una voce potente degna di Howlin’ Wolf, negli anni Sessanta registrò, con diverse incarnazioni della sua Magic Band, alcune delle opere più decisive per l’evoluzione del blues-rock, approdando nel 1969, anche grazie al supporto dell’amico Frank Zappa, alla prodigiosa epopea di Trout Mask Replica. Il disco, considerato da molti critici, primo fra tutti il leggendario Lester Bangs, come il più importante mai partorito nell’ambito della musica rock, è un’opera in cui il blues del Delta, il free jazz, il dadaismo, il surrealismo, la poesia beat e l’immaginario americano si fondono in una sintesi ancora oggi incredibilmente aliena. Ma il percorso di Captain Beefheart non si fermò certo a quella straordinaria pietra miliare. Anche dopo il suo ritiro dalle scene, avvenuto nel 1982 per dedicarsi a tempo pieno alla pittura, egli continuò, infatti, a influenzare intere generazioni di musicisti, che ancora oggi venerano la sua musica come un esempio di creatività senza limiti, lontana dalle costrizioni del music-business. Oltre a seguire da vicino tutta la vicenda biografica e ad analizzare criticamente ogni disco di Captain Beefheart (con un occhio di riguardo per i testi delle sue canzoni), questo libro dedica spazio anche alla sua pittura, influenzata, oltre che dagli spazi dilatati del deserto del Mojave (dove egli visse a lungo), anche dalle forme dell’espressionismo astratto di Franz Kline, Jackson Pollock e Willem de Kooning. “Captain Mask Replica” è il primo sistematico lavoro dedicato al grande artista californiano ad essere realizzato in Italia ed esce proprio nel cinquantenario della pubblicazione del suo primo disco (Safe As Milk, 1967).

Marco

Hai deciso di dedicare una monografia a Beefheart. Quali sono secondo te i suoi principali meriti artistici?

Francesco

Captain Beefheart (al secolo Don Vliet) ha sicuramente il merito di aver portato il blues-rock a livelli impensabili per quanti, dapprima in Inghilterra e intorno alla prima metà degli anni Sessanta, ebbero l’intuizione di coniugare la lezione dei maestri delle “dodici battute” con l’energia del rock’n’roll. Quanto espresso da formazioni quali Rolling Stones, Yardbirds e Animals fu recepito negli Stati Uniti, in seguito alla cosiddetta «British Invasion» (siamo nel 1964) come un sacrosanto impulso a ripescare e rileggere la musica di Muddy Waters, Willie Dixon, Elmore James o di Howlin’ Wolf. Fu proprio quest’ultimo a influenzare maggiormente il giovane Vliet, che aveva ricevuto in dote una voce formidabile, con cui iniziò a rivaleggiare proprio con il grande bluesman originario del Mississippi. Se, inizialmente, insieme alla Magic Band l’elettrificazione del blues si mantenne su coordinate più o meno riconoscibili – per quanto, dal vivo, la band si avventurasse spesso in lunghe dilatazioni del brano che stava reinterpretando -, già a partire dal disco d’esordio, Safe As Milk (1967), le cose iniziarono a prendere una piega decisamente più interessante. Sto pensando, ad esempio, a brani come “Electricity”, impreziosito dal suono del theremin, o ad “Abba Zaba”, la cui struttura tribale rende omaggio alle radici africane del blues. Su quel disco, non mancò anche l’influsso della nascente psichedelia, un influsso che avrebbe trovato sbocchi ancora più “oltraggiosi” sul successivo Strictly Personal (1968), dove la commistione con le sonorità “acide” divenne così intensa da rasentare spesso la disarticolazione free-form (si ascoltino, ad esempio, “Ah Feel Like Ahcid” o lo sberleffo – rivolto contro i mostri sacri del periodo Beatles e Rolling Stones – di “Beatle Bones ‘n’ Smokin’ Stones”).

Marco

È vero, Van Vliet ha il grande merito di aver innovato un genere statico come il blues, che – per quanto si fosse evoluto in rock’n’roll – rimaneva ancora ancorato alla definizione di popular music. Van Vliet riscopre in Safe as Milk senza dubbio il blues sporco di Howlin Wolf, ma lo rielabora con uno stile canoro che è in grado di contorcersi virtuosisticamente in cantilene, melodie sentimentali (come nella grande “Autumn Child”), canto folk, hard rock. Le armonie dei pezzi di Safe as Milk, per quanto inglobino la tradizione folk delle armoniche di dylaniana memoria, sono ancora tradizionali e poco dissonanti.

Francesco

Comunque, per quanto quelli fossero all’epoca dischi incredibilmente coraggiosi, nulla poteva far pensare a quanto, di lì a poco, sarebbe accaduto tra i solchi di Trout Mask Replica, il doppio disco uscito nel 1969 e prodotto da Frank Zappa. I limiti del blues erano stati ulteriormente oltrepassati anche dalle lunghissime escursioni, registrate tra il 1967 e il 1968 e poi confluite, nel 1971, su Mirror Man: brani come “Tarotplane” o “Kandy Korn”, per esempio, mostravano che l’intenzione di Beefheart e della sua “banda magica” era quella di liberare le dodici battute dalle costrizioni di un formato commerciale, forgiandole, quindi, nel fuoco del free-jazz, in modo da ottenere delle “forme sonore” in continua evoluzione, capaci di rispecchiare non solo il flusso alterato della psiche (le sostanze lisergiche giocarono un ruolo non secondario in quel periodo anche per Beefheart e i suoi sodali), ma, di riflesso, anche le forti tensioni sociali che attraversavano la società americana intorno alla metà degli anni Sessanta. Con Trout Mask Replica, le colonne d’Ercole non furono solo oltrepassate, ma anche distrutte. Il suono di quel disco è senza precedenti: una sintesi di generi quali il blues del Delta del Mississippi, il rock psichedelico, il free-jazz e di influenze culturali che spaziavano dal dadaismo al surrealismo, dalla poesia beat al “jazz canto”, dai canti marinareschi all’immaginario americano in genere. Il grande merito artistico di Beefheart e della Magic Band (allora costituita da John French alla batteria, da Bill Harkleroad e Jeff Cotton alle chitarre, da Mark Boston al basso e da Victor Hayden al clarinetto basso) fu quello di realizzare una musica in cui la forza dirompente del free-jazz di Ornette Coleman, Albert Ayler ed Eric Dolphy costringeva il Delta blues a un esercizio di “decostruzione”. La grandezza di quei brani – nati dalle improvvisazioni pianistiche di un Beefheart praticamente a digiuno di teoria musicale, trascritte in maniera intuitiva da John French e “assimilate” dagli altri musicisti in maniera relativamente “libera” – risiede nella loro capacità di costringere il caos di decine e decine di frammenti musicali dentro strutture rigidamente organizzate, in modo che i musicisti potessero suonarli senza lasciare niente al caso. Infatti, al contrario di quanto si possa pensare (e sono in molti, anche tra gli addetti ai lavori!), quei brani non sono suonati a casaccio, ma riflettono una strategia precisa: liberare l’immaginazione e strutturarne il flusso anarchico. Il fatto che in moltissime sezioni di quei brani gli strumenti suonino asincroni, in tonalità diverse e che la batteria, invece di “portare il tempo”, scelga in più di un’occasione di suonare una “summa” delle diverse misure ritmiche dentro cui agiscono gli altri strumenti, rende Trout Mask Replica un’opera di difficile assimilazione per l’ascoltatore medio di musica rock. Ascoltare un brano in 4/4 o una bella melodia pop è molto più semplice, ovviamente. Ma a Beefehart non interessava risultare accomodante. Voleva una musica che riflettesse la sua passione per la pittura dell’Espressionismo astratto… e la trovò in quelle quattro facciate che avrebbero avuto un’influenza enorme su tutta una generazione di musicisti, il cui scopo principale era quello di spingersi “oltre”, in qualunque direzione, perché, per dirla con John Cage, se si possono prevedere i risultati, allora non si sta facendo musica sperimentale…

Marco

In Trout Mask Replica, Van Vliet dimostra di conoscere non solo bene la tradizione jazz ma anche parte di quella avanguardistica. Molte parti armoniche suonate in questo disco sono atonali e assimilabili alla tradizione dodecafonica inaugurata da Schönberg. Ovviamente la musica di questo disco non è complessa quanto quella di Stockhausen, Xenakis o Dallapiccola, ma è ugualmente innovativa. Infatti Trout Mask Replica incorpora elementi di tradizioni musicali così disparate che lo rendono una platea privilegiata dalla quale accostarsi alla musica d’arte del Novecento: chi ha ascoltato e apprezzato questo disco può davvero conoscere e amare gran parte della musica composta nel secolo scorso.
Qualunque composizione del suo magnum opus può bene esemplificare i meriti del compositore californiano. Basti citare il proemio “Frownland”, cioè ‘terrà del dissenso’: il riff iniziale ricorda un pezzo blues, ma questa sezione armonica così primitiva è soffocata e sommersa da un incubo di parti strumentali fanno da controcanto atonale a una melodia quasi stonata. Il musicista californiano ha ucciso e sepolto il blues così come, nel mito edipico, l’uccisione del padre è rigenerazione della vita. Van Vliet, in questo disco, scrive una ‘Divina Commedia’ in frammenti della musica postmoderna, perché ingloba in ventotto pezzi di poco più di due minuti tutti gli elementi della musica del Novecento, dal free jazz, al rock, al blues, all’avanguardia classica. Il modello musicale più vicino all’armonia strumentale di Trout Mask Replica, oltre a Coleman, sembra proprio Cecil Taylor, autore di Unit Structures (1966), le cui strutture – al primo ascolto – tanto unite non sembrano. “Frownland” è in questo disco l’equivalente dell’incipit della Commedia dantesca: tutti i temi del proemio saranno ripresi nel corso di tutta l’opera. Trout Mask è anche una grande parodia della musica commerciale, che in due minuti promette la visione dello spirito assoluto ai tanti consumatori inesperti delle radio-FM.

Francesco

“Frownland” è un brano fondamentale nell’economia di Trout Mask Replica. Dura un minuto e quaranta secondi ma presenta una densità di significati musicali davvero spaventosa, roba da far accapponare la pelle anche agli artisti più coraggiosi del periodo.
Non sono d’accordo, invece, quando dici che la musica di Trout Mask Replica non è complessa quanto quella di Stockhausen, Xenakis o Dallapiccola. Credo, invece, che molti dei suoi momenti nascondino una complessità degna delle partiture di quei grandi compositori, anche se, ovviamente, il modo in cui venne raggiunta non ha nulla a che vedere con il sapiente e “razionale” modus operandi di quei grandi compositori.

Marco

Il libro è fatto di aneddoti che riguardano la sua figura e la sua vita. Che cosa può imparare un artista o un amante della musica da lui?

Francesco

Credo che l’insegnamento più importante di Beefheart risieda nell’invito a trasformare i propri limiti in un punto di forza, ovviamente mettendo da parte l’aspirazione a raggiungere, magari a tutti i costi, il successo commerciale. Certo, intorno alla metà degli anni Settanta, anch’egli si lasciò ammaliare dalle tentazioni del mainstream, ma si trattò di un errore che lo stesso Beefheart avrebbe, di lì a poco, riconosciuto come tale, ribadendo a se stesso e a tutti noi che niente vale più della libertà di cercare e di suonare la “propria” musica, la sola che ha la possibilità di riflettere il magma ribollente dell’anima.

Marco

Per me la musica commerciale ha sommerso e soffocato l’espressione artistica di tanti geni degli anni Sessanta. Se è vero che il capitalismo è stato un impulso per molti musicisti a entrare in sala di registrazione, è stato – allo stesso tempo – il motivo principale per il quale i conservatori non prendono ancora sul serio la musica “rock”. Ora, però, avevo intenzione di farti un’altra domanda: quali sono le principali influenze musicali di Beefheart? Perché un cultore di musica classica o contemporanea dovrebbe ascoltarlo?

Francesco

Le sue maggiori influenze sono rappresentate dal Delta blues (soprattutto in Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson II, Son House, Robert Johnson, etc.) e dal free-jazz, cioè il jazz “libero” codificato da Ornette Coleman nell’epocale Free Jazz del 1960. In parte, anche da alcuni musicisti d’avanguardia come John Cage e Steve Reich.
L’ascolto dei suoi dischi è sicuramente consigliato anche agli appassionati di musica classica e contemporanea. Del resto, perché avere pregiudizi? In ogni caso, dischi come quello della “trota” o Lick My Decals Off, Baby (1970) non sono certo opere “commerciali”… ma anzi dimostrano che anche il rock, quando vuole, sa raggiungere vette altissime di espressione artistica.

Marco

Come è nata la tua passione per Beefheart e in che cosa della sua poetica ti rispecchi?

Francesco

Mi sono innamorato di Beefheart quando, intorno al 1996, comprai Trout Mask Replica, un disco che mi sconvolse. I primi ascolti furono disturbanti: avevo la netta impressione che i musicisti stessero suonando le prime cose che gli passavano per la mente. Poco alla volta, però, mi resi conto che le cose non stavano in quel modo, ma che c’era “ben altro”, come ho spiegato nel mio libro, dove alla genesi, alla realizzazione e alla registrazione del capolavoro beefheartiano ho dedicato ben due capitoli. Quello che più apprezzo della sua poetica è la costante ricerca di un suono non convenzionale, spesso ottenuto in modo “non convenzionale” e grazie a musicisti disposti a inoltrarsi, senza riserve, lungo sentieri sconosciuti…

Marco

Io apprezzo gli artisti che conoscono così bene le strutture in cui operano per poterle spezzare. Io apprezzo la frenesia di coloro che hanno il talento e la volontà di dissentire, di dire la propria, di non volersi assimilare all’ideologia dominante e di trovare nell’innovazione la loro personalità. Beefheart è uno di questi.

Francesco

Beefheart aveva pochissime conoscenze musicali, dunque non “conosceva” le strutture della musica che mirava a destabilizzare. Di certo, però, aveva capito una cosa, da pittore qual era: poteva utilizzare i suoi musicisti come veri e propri pennelli, per dipingere il suono che sentiva risuonare dentro di sé su una tela d’aria

Marco

Il tuo libro si rivolge a specialisti o a un grande pubblico? O forse a entrambi?

Francesco

Ho scritto “Captain Mask Replica” senza pensare a un pubblico preciso. L’ho scritto innanzitutto per dare sfogo alla mia passione per quello che considero come uno dei più grandi protagonisti della musica del Novecento. All’interno del libro, ci sono parti narrative e altre, diciamo così, più tecniche, in cui mi concentro sui suoi testi (credo che Beefheart non sia per nulla inferiore, come “poeta”, a Bob Dylan… anzi!), sulle dinamiche della sua musica e della sua pittura. Invito tutti gli appassionati ad approfondire anche lo studio dei dipinti dell’artista californiano: in pratica, troveranno la sua musica dipinta su tela…

Marco

Secondo me Don Van Vliet è superiore a Dylan sotto tutti i punti di vista, sia musicale che letterario. Il merito di Robert Allen Zimmerman è quello sicuramente di aver fuso la poetica blues con la tradizione folk americana; molto suggestive anche le sue liriche, che raccontano l’epica di personaggi straccioni e sconfitti dalla storia, donne e uomini che sembrano usciti da un libro di Steinbeck; figure allucinate che dialogano indifferentemente con uno sconosciuto Mr. Jones o con Beethoven e Jack lo squartatore. Ma Van Vliet è tutt’altra storia, perché non conosce limiti: è depositario di vera arte, quell’arte che – come direbbe Hegel – è veicolo privilegiato verso lo spirito assoluto. Come scrittore mi stupisce sicuramente la sua poetica, che è di una freschezza e allo stesso tempo di una complessità senza pari. Ti cito, per esempio, “Steal Softly Thru Snow”, dove Van Vliet canta con una voce arrochita una canzone che sembra scritta da un bambino:

…breaks my heart to see the higway across the hills
man lived a million years
and still he cares
The black paper between the mirror breaks my heart that I can’t go.

Con uno stupore e con la delicatezza di un bambino Van Vliet descrive un paesaggio urbano annientato dal capitalismo e dalla distruzione di ogni parvenza naturale. Una regressione infantile dell’umanità che – nell’epoca dello sviluppo tecnologico – si crogiola nel suo guscio fino a ritrovare il mito dell’infanzia nella pazzia. Altro esempio della bella poesia di Van Vliet si nota in “Ella Guru”, dove l’amata diventa ‘un intero zoo che cammina’, in cui gli animali sembrano ridipingere nell’animo del poeta non solo il mito dell’infanzia, ma anche gli incubi che da essa derivano. “Ella Guru” è talmente dissonante e intessuta di elementi gutturali animaleschi che sembra più una canzone d’amore per una giraffa che una scritta per una donna. Van Vliet nella sua poesia fa riemergere l’animale soffocato dell’uomo della società tecnologica. Come direbbe il critico Scaruffi, la creatura di Beefheart non è il pazzo, ma colui che canta «un attimo prima che la pazzia stia per prendere il sopravvento».

Francesco

Nutro un profondo rispetto per Dylan, per quanto il Nobel conferitogli l’anno scorso continui a sembrarmi un’esagerazione. Dylan è una delle figure fondamentali della storia del rock e tutto il resto, ma avendo “studiato” da vicino anche i testi di Beefheart posso dire che c’è uno stacco netto tra lui e Dylan in termini di “carica” poetica. “Steal Softly Thru Snow” è uno dei brani che più mi ha appassionato discutere in “Captain Mask Replica”. In ogni caso, se dovessi scegliere un solo brano per mostrare la potenza poetica di Beefheart, quel brano sarebbe “Neon Meate Dream Of A Octafish”, un’odissea linguistica in cui le parole entrano in rotta di collisione, generando sovra-sensi, disarticolando significanti e significati, evocando l’humus primordiale del Linguaggio.