The Tornadoes / The Surfaris / The Chantays

Una delle prime band a far conoscere il surf-rock a un pubblico relativamente ampio fu quella dei Tornadoes, autori nell’estate del 1962 di “Bustin’ Surfboards”, uno strumentale in cui la passione per il surf e per le spiagge assolate veniva omaggiata con delicate progressioni armoniche (la chitarra è filtrata con l’eco e non con il riverbero) avvolte dal rumore delle onde dell’oceano.

Provenienti da Redlands, una cittadina non molto distante da San Bernardino, nel sud della California, i Tornadoes furono sostanzialmente un affare di famiglia, essendo stati fondati nel 1960 dai fratelli Gerald (voce, basso) e Norman Sanders (chitarra, banjo, armonica e mandolino) e dal loro cugino Jesse Sander (chitarra), cui ben presto si aggiunse il batterista Leonard Delaney. All’inizio, però, la band aveva scelto Vaqueros come nome di battaglia ma, con l’arrivo del sassofonista George White, i nostri decisero di optare per il più incisivo Tornadoes.

Bustin’ Surfboards divenne anche il titolo e il brano d’apertura del loro unico disco, pubblicato nel 1963. A fare la voce grossa sono i brani strumentali, sempre contraddistinti da spruzzatine, più o meno consistenti, di surf-rock: dalla rilettura di “Maleguena” del compositore cubano Ernesto Lecuona, alle cavalcate country’n’western di “Bumble Bee Stomp” e “Vaquero”, passando per il rhythm and blues di “Shootin’ Beavers”, l’energico assolo di batteria che apre in due “The Tornado”, le vocine cartoonesche e i guizzi del sassofono di “The Gremmie”, il party a vele spiegate di “Charge Of The Tornadoes” e, su di un versante più misterioso, le liquide, lente evoluzioni di “Beyond The Surf”, che trasforma il surf-rock nella colonna sonora di un dolce viaggio psichedelico ante-litteram. Soltanto due i brani cantati: una cover di “Johnny B. Goode” di Chuck Berry e una “Summertime” che, con la sua ballata col cuore in mano, è assolutamente fuori luogo.

Negli anni successivi i Tornadoes fecero progressivamente perdere le proprie tracce, salvo ritornare a galla nel 1998, quando, sull’onda del rinnovato interesse generato intorno alla loro musica dall’inclusione di “Bustin’ Surfboards” nella colonna sonora del film Pulp Fiction di Quentin Tarantino, si riaffacciarono sulle scene musicali pubblicando Bustin’ Surfboards ’98 che, accanto a brani inediti, presentava anche una nuova versione di quel brano che, molti anni prima, aveva regalato loro un momento di gloria.

Stuzzicati dall’energia che sprigionava dai dischi di Dick Dale, i Surfaris si formarono verso la fine del 1962 a Glendora (siamo sempre nel sud della California), quando il chitarrista Jim Fuller e il bassista Pat Connolly decisero di mettere su una band per suonare brani strumentali. Con l’arrivo del batterista Ron Wilson e dell’altro chitarrista Bob Berryhill, la formazione trovò il suo assetto definitivo e le prove presero a marciare a pieno regime. Nel dicembre di quello stesso anno, dopo aver firmato per la Dot, all’interno di un piccolo studio di registrazione la band mise a punto “Wipe Out”, un brano che doveva accompagnare, come lato B, il singolo “Surfer Joe”. Quest’ultimo (un mid-tempo in cui la voce di Ron Wilson si mantiene in equilibrio tra canto e recitazione) era un brano che solo in parte si rifaceva a quanto codificato da Dick Dale e, come ebbero modo di rendersi conto gli stessi Surfaris, non poteva competere, quanto a energia sprigionata, con “Wipe Out” che, infatti, divenuto brano di punta del singolo del 1963, mise il loro nome sulla carta geografica del surf-rock. Caratterizzato da un ritmo di batteria ispirato alle marching-band e da un suono di chitarra che, in verità, richiamava più quello di Duane Eddy che quello del loro eroe Dick Dale, “Wipe Out” ebbe un successo clamoroso, raggiungendo la seconda piazza nella Top 100 americana e vendendo oltre un milione di copie. Grazie a quell’exploit, la fama dei Surfaris travalicò i confini degli Stati Uniti, consentendogli di volare oltreoceano per tenere dei tour addirittura in Giappone. Per sfruttare il momento d’oro, sempre nel 1963 fu pubblicato anche il loro primo disco, il cui titolo non poteva che essere Wipe Out. Aperto proprio dalle note trionfanti di quella hit, il disco si regge sulle sovrapposizioni e sulle triangolazioni tra la vigorosa batteria di Wilson e l’eclettica chitarra di Jim Fuller, con il sassofono del nuovo arrivato Jim Pash a dare spesso man forte. Gli strumentali fantasiosi e raggianti di “Wiggle Wobble”, “Torquay”, “You Can’t Sit Down”, “Teen Beat” e “Memphis” sono i momenti migliori di un disco che rappresenta il vertice qualitativo della loro discografia, mostrando ancora oggi una freschezza invidiabile.

Il 1963 fu un anno ricco di soddisfazioni per i Surfaris. Nei negozi di dischi, a ottobre, arrivò anche The Surfaris Play, disco complessivamente meno riuscito (con cinque brani originali su dodici), ma capace di regalare ancora qualche colpo da novanta. Si ascolti, ad esempio, il surf-rock nevrotico di “Similau”, quello, elettrizzante, di “Surfaris Stomp” e “Point Panic” (quest’ultimo, uscito anche su singolo dopo l’exploit di “Wipe Out”) o, ancora, la straripante rivisitazione di “Miserlou” di Dick Dale.

Diviso tra brani strumentali e cantati, il successivo Fun City, U.S.A. (1964) si mantenne su livelli apprezzabili, con la band ad ampliare il raggio delle influenze, passando dal rhythm and blues (“Hound Dog”) al surf-vocale di Beach Boys e Jan & Dean (“I’m Leaving Town”, “Hot Rod High”), fino agli omaggi resi agli Shadows (la cover di “Apache”) e a Duane Eddy (“Hot Rod Graveyard”, la cover di “Shazam”).

Sempre più pulito e commerciale, il suono dei Surfaris diventò quasi barocco su Hit City ’64, disco che vanta solo un paio di brani originali, il migliore dei quali, lo strumentale “Scatter Shield”, non è esattamente memorabile. Come tutto il disco, del resto. Confermando la mancanza di ispirazione, il successivo Hit City ’65 farà anche peggio, presentando una scaletta interamente occupata da cover, tutte interpretate alla maniera dei Beach Boys, ma senza la loro “magia”. Il disco peggiore in assoluto della loro carriera è, in ogni caso, It Ain’t Me, Babe, uscito nel 1965 e appesantito da dozzinali cover di Rolling Stones (“Satisfaction”), Bob Dylan (“Like A Rolling Stone”, la title-track), i soliti Beach Boys (“California Girls”) e via di questo passo.
La band si sciolse all’inizio del 1966.

Verso la fine del 1961, nella Orange County californiana, cinque amici, ancora alle prese con gli studi (età variabile tra i tredici e i diciassette anni), decisero di condividere la loro comune passione per la musica formando una band. Nacquero così i Chantays, che tennero il loro primo concerto nel dicembre di quello stesso anno. Desiderosi di promuovere la loro musica, Bob Spickard (chitarra solista), Brian Carman (chitarra ritmica), Warren Waters (basso), Rob Marshall (pianoforte, tastiere) e Bob Welch (batteria) presero l’abitudine di distribuire volantini e poster con il loro nome, suonando, nel frattempo, un po’ dove capitava. Notati dal manager Dale Smallins e messi sotto contratto dalla Downey, un’etichetta locale, riuscirono a pubblicare il loro primo singolo alla fine del 1962, facendo immediatamente il botto (il brano entrò nella Top 10 nazionale nella primavera del 1963). “Pipeline”, questo il titolo del brano che campeggiava sul lato A (ispirato al Banzai Pipeline, famosa località dell’isola Oahu nelle Hawaii, dove i surfisti potevano confrontarsi con onde altissime), è uno dei brani strumentali più affascinanti dell’epopea del surf-rock, grazie a una melodia tanto semplice quanto efficace, disegnata con raffinatezza dagli intrecci tra la chitarra (leggermente trattata con il riverbero) e il piano elettrico, sostenuta dall’ostinato del basso (mantenuto in bella vista nel mix) e cullata, infine, dallo swing della batteria. Sul retro del singolo, “Move It” (con chitarra distorta) immaginava, invece, il surf-rock nell’ambito di un party in riva al mare, ovviamente al tramonto. Il singolo successivo, “Monsoon” / “Scotch Highs”, convinse meno, anche se il brano guida cercava sostanzialmente di replicare l’esperimento di “Pipeline”. Pipeline fu anche il titolo del loro primo disco, pubblicato nel 1963. Aperto dall’ormai famosissima title-track e penalizzato da una produzione non all’altezza della situazione, il disco risulta ancora oggi godibilissimo, grazie a un sapiente dosaggio di strumentali meditativi (“The Lonesome Road”), sbarazzini (“Tragic Wind”, “Runaway”, “Banzai”) ed evocativi (“Sleep Walk”, “Night Theme”, “Riders In The Sky”). Il loro secondo disco uscì nel 1966, quando ormai l’epoca d’oro della surf-music era finita da un pezzo. Two Sides of The Chantays finì, quindi, presto nel dimenticatoio, anche a causa di una scaletta che, cercando di tirare nella mischia sonorità diverse tra di loro (con gli estremi divisi tra l’exotica di “Three Coins in the Fountain” e la liaison tra Beatles e Rolling Stones di “Only If You Care”), finiva per restituire l’istantanea di una band che avanzava ormai senza una direzione precisa.

Negli anni Novanta, i Chantays tornarono in attività, registrando un disco dal vivo nel 1994 (Next Set) e pubblicando, tre anni dopo, una raccolta di inediti (Waiting For The Tide).

Discografia Consigliata

The Tornadoes – Bustin’ Surfboards (1963)
The Surfaris – Wipe Out (1963)
The Chantays – Pipeline (1963)

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