The Lively Ones / The Trashmen / The Marketts

Dal sud della California provenivano anche i Lively Ones, quintetto formato dai chitarristi Ed Chiaverini e Jim Masoner, dal bassista Ron Griffith, dal sassofonista Joel Willenbrig e dal batterista Tim Fitzpatrick. Durante la loro carriera, registrarono soprattutto cover di brani altrui, affidando a Masoner la stesura di una manciata di brani originali. L’equilibrio strumentale e la pulizia delle loro incisioni li portarono immediatamente all’attenzione degli appassionati di surf-rock e di musica strumentale in genere. Il loro primo singolo, “Guitarget” / “Crying Guitar”, uscì nel 1962 per la Del-Fi Records e contrapponeva un’agile cavalcata a un malinconico affresco di spiagge avvolte da lanugini crepuscolari.

Nello stesso anno, realizzarono anche una versione di “Misirlou” di Dick Dale, approdando, nel febbraio del 1963, a un buon successo nazionale con la rivisitazione di “Spudnik”, un brano dei Ventures che nelle loro mani divenne “Surf Rider”. Qualche mese dopo, quel brano fu ripescato sul loro primo e omonimo disco, i cui solchi sprizzavano energia e gioia di vivere, con la frizzante “Goofy Foot” (il cui attacco è chiaramente ispirato a “Misirlou”) e il mid-tempo di “Happy Gremmie” unici brani autografi. In quel 1963, la band pubblicò, oltre a The Great Surf Hits !! (su cui rileggeva alcuni dei brani di maggior successo del surf-rock, tra cui “Wipe Out” dei Surfaris, “Pipeline” dei Chantays, “Surfin’ USA” dei Beach Boys e “Hot Pastrami” dei Dartells), altri tre dischi, il primo dei quali, Surf Drums alternava atmosfere rilassate – come quelle che caratterizzano il brano d’apertura “40 Miles Bad Road” (dal repertorio di Duane Eddy) – ad altre dai toni più minacciosi (la “Rumble” di Link Wray). Fanno parte del lotto anche le briose fantasie di “Rik-A-Tik” (il classico dei Fireballs) e “Bustin’ Surfboards” dei Tornadoes.

Nell’agosto successivo, fu la volta, invece, di Surf City, da molti accreditato come il loro disco migliore. Sempre più impeccabili e affiatati, in quei solchi i Lively Ones aprono le danze proprio con la title-track, un brano portato al successo da Jan & Dean, la coppia più famosa della musica surf. A seguire, una “Telstar Surf” che trasforma “Telstar” (il grande successo che l’inglese Joe Meek aveva affidato ai conterranei Tornados) in un viaggio lungo le onde dell’oceano, le stesse che, evidentemente, cullano, sotto l’incanto di una luna piena, le trame leziose di “Malibu Run”, uno dei brani originali del disco insieme a “Soul Surfer” (dall’architettura raffinata e circolare) e “Tranquilizer”, selvaggio incrocio tra surf-rock e rockabilly.

Dopo un paio di incursioni nell’universo rhythm and blues attraverso il repertorio di Freddie King (per la precisione, con le muscolari riletture di “Heads Up” e “Butterscotch”, quest’ultima reintitolata, per l’occasione, “Forty Miles of Bad Surf”) e i ripescaggi di “Misirlou” e “Surf Rider”, il disco regala il rifferama stentoreo e i controcanti incrociati di “Crazy Surf” e le spirali tastieristiche di una “Livin’” che potrebbe tornare buona per la colonna sonora di una bizzarra spy-story. Lungo tutto Surf City, gli scambi tra la chitarra twang di Masoner e il sax di Willenbrig risplendono per il loro dinamismo.

Passò giusto qualche mese e nei negozi di dischi arrivò Surfin’ South of the Border, disco condiviso con i Surf Mariachis, un gruppo di cinque sessionman (divisi tra due sax, tromba, chitarra e percussioni) ingaggiati da Bob Keane, il patron della Del-Fi Records. Nelle loro tracce, i Lively Ones si lasciano influenzare dai loro compagni di viaggio, aggiungendo qualche tocco di musica latino-americana nella briosa “Torquay”, in quell’incrocio di surf-rock e musica mariachi che risponde al nome di “Mexico”, nelle galoppanti evocazioni dello spirito della frontiera di “Exodus” e nelle tessiture arabescate di “Latinia”. A causa di riscontri commerciali sempre più deludenti, la band, dopo aver registrato ancora un singolo (il tutt’altro che memorabile “Night and Day” / “Hey, Scrounge” del 1964), entrò in una fase di stallo, da cui uscì solo nel 1967, anno in cui, ottenuto un contratto con la MGM, vide la luce Bugalu Party, in cui non vi era più traccia di surf-rock, accantonato a favore di canzoni che ibridavano blues-rock, soul e rhythm and blues con risultati mediocri.

Una delle versioni più dure, verrebbe da dire anche più “punk”, del surf-rock fu quella messa a punto dai Trashmen, formazione che non apparteneva alla scena del sud della California, provenendo, invece, dalle fredde regioni del nord del paese, esattamente da Minneapolis, la città più famosa dello stato del Minnesota. Il loro nome è scolpito nella storia del rock grazie a “Surfin’ Bird”, brano che diede una spinta definitiva alla diffusione del surf-rock nelle regioni del Midwest, diventando, al contempo, uno dei brani più eccitanti e famosi di tutti gli anni Sessanta. Ma andiamo per ordine.

Il primo nucleo della band si cristallizzò nel 1959, quando nacquero i Jim Thaxter & the Travelers, autori di un solo singolo di innocuo rock’n’roll (“Sally Jo” / “Cyclone”). In seguito, tre quinti di quella formazione (il batterista Steve Wahrer e i chitarristi Tony Andreason e Dal Winslow) si unirono al bassista Bob Reed per dare vita ai Trashmen, nome ispirato dall’ascolto di “Trashmen’s Blues”, un brano di un musicista locale. “Surfin’ Bird” (pubblicato alla fine del 1963) nacque dalla combinazione (uno dei primi esempi di mash-up1 della storia?) di “Papa-Oom-Mow-Mow” e “The Bird’s the Word”, due brani di successo dei Rivingtons, una formazione losangelina dedita al doo-wop. Ne risultò una scalmanata e frenetica sintesi di musica surf e rockabilly (o, molto più semplicemente, un proiettile proto-punk?) propulsa da una poderosa sezione ritmica e accompagnata da uno dei testi (cantato con voce demente dal batterista Steve Wahrer) più deliranti della storia del rock. Un esempio?

A-well-a, everybody’s heard about the bird
Bird, bird, bird, b-bird’s the word
A-well-a, bird, bird, bird, the bird is the word
A-well-a, bird, bird, bird, well, the bird is the word
A-well-a, bird, bird, bird, b-bird’s the word
A-well-a, bird, bird, bird, well, the bird is the word
A-well-a, bird, bird, b-bird’s the word
A-well-a, bird, bird, bird, b-bird’s the word

(…)

Papa ooma mow mow, papa ooma mow mow
Papa ooma mow mow, papa ooma mow mow
Ooma mow mow, papa ooma mow mow
Papa ooma mow mow, papa ooma mow mow

Naturalmente, questa inaspettata hit (che finirà per influenzare anche il nascente movimento del garage-rock) finì anche in apertura dell’omonimo loro primo disco d’esordio, uscito appena due mesi dopo, nel gennaio del 1964. Vi compaiono l’omaggio a Dick Dale della solita “Misirlou”, il soul virato rock’n’roll di “Money (That’s What I Want)” (altro brano destinato a numerose riletture), effervescenze strumentali (“Tube City”), deliziose nenie (“Kuk”, “My Woodie”), omaggi scoperti a Buddy Holly (“It’s So Easy”) e, più o meno velati, a Chuck Berry (“King Of The Surf”), suggestioni ispanico-mediorientali che viaggiano insieme nel ricordo di Duane Eddy (“Malaguena”) e una “Bird Bath” che recupera parte dell’aura demenziale di “Surfin’ Bird” grazie a inserti di vocalizzi e sciabordii idioti.

Con l’avvento della British Invasion, la musica inglese di Beatles, Rolling Stones, Yardbirds e compagnia bella iniziò a dominare le classifiche americane e, ovviamente, anche i Trashmen, data la loro dimensione tutto sommato locale (nonostante il clamoroso successo di “Surfin’ Bird”) subirono il colpo, tanto che il progettato secondo disco restò nel cassetto. Tra il 1964 e il 1967, anno del loro scioglimento, pubblicarono ancora singoli, senza però più toccare i livelli qualitativi del loro brano più famoso, anche se “Bird Dance Bit” (1964) e “Bird 65” (1965) tentarono disperatamente di scimmiottarlo.

Nel 1990, la Sundazed diede alle stampe Great Lost Album!, che raccoglieva materiale inedito registrato dalla band nel 1964 e nel 1966. Accanto ai soliti strumentali surf-rock (“Greensleeves”, “Stick Shift”, “(Ghost) Riders in the Sky”) e agli omaggi all’epopea rock’n’roll (“Keep a Knockin’”, “Bird Diddley Beat”, “Lucille”), sfilano numeri più orientati al mercato pop (“Be True to Your School”, “Talk About Love”), qualche sterile incursione in ambito rhythm and blues (“Green Onions” dei Booker T. & the M.G.’s) e una “Mind Your Own Business” che potrebbe essere uno scarto di Bob Dylan. Insomma, Great Lost Album! mostrava che, dopo il loro primo album, i Trashmen non avevano fatto altro che procedere a tentoni, vagliando diverse soluzioni per cercare di restare a galla. Per loro, però, il tempo era ormai scaduto. Non mancarono, comunque, sporadici ritorni sulle scene, culminati nel 2014 con la pubblicazione di un nuovo disco, Bringing Back the Trash! (solo per nostalgici all’ultimo stadio), registrato in collaborazione con il chitarrista Deke Dickerson ma senza Steve Wahrer, che aveva lasciato questo mondo nel 1989 sconfitto da una brutta malattia.

Più che una vera e propria band, i Marketts di Los Angeles furono un collettivo in continua mutazione che ruotò intorno alle figure dei produttori Michael Zane Gordon, (autore anche di molti dei loro brani migliori) e Joe Saraceno. Il loro primo disco, Surfer’s Stomp, uscì nel 1962, e impose i Marketts come uno dei primi nomi dell’universo della surf-music, anche grazie al relativo successo della title-track che, come gli altri brani del disco (si ascoltino, ad esempio, “Balboa Blue”, “The Bristol Stomp”, “Stompede” e “If You Gotta Make a Fool of Somebody”) presentava, oltre a elementi di surf-music, anche tracce di easy-listening, jazz tradizionale e pop.

Dopo due dischi interlocutori (The Marketts Take to Wheels e The Surfing Scene, entrambi del 1963), la band raggiunse il suo apice creativo con Out Of Limits (gennaio 1964), la cui title-track (un inno alle produzioni televisive dedicate alla fantascienza, con riff rubacchiato al tema di Twilight Zone2 e mareggiate di fiati nelle retrovie) diede alla band il suo maggior successo (terzo posto nella Top 100). Out Of Limits ruota attorno all’idea di una musica strumentale in cui la surf-music funge da cardine per evoluzioni sempre stuzzicanti, con l’idea dello space age-pop3  a rappresentare la stella polare che guida l’ascoltatore verso mondi paralleli in cui spensieratezza e ottimismo vanno a braccetto, come ben esemplificano brani quali “Collision Course”, “Hyper-Space”, “Limits Beyond”, “Saturn”, ma anche le più rilassate “Bell Star” e “Borealis” (quest’ultima attraversata da tinte esotiche). Nei dischi successivi, la band non sarà più in grado di ripetere la stessa magia e, con la crisi della musica strumentale, di essa si perderanno le tracce tra i meandri della storia del rock.

Note:

  1. Canzone o composizione realizzata unendo o sovrapponendo tra di loro due o più brani preregistrati.
  2. Serie televisiva andata in onda negli Stati Uniti tra il 1959 e il 1964. In Italia arrivò nel 1962 con il titolo Ai confini della realtà.
  3. Genere di musica dai toni spensierati e ottimistici sviluppatosi tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà del decennio successivo, quando i progressi nel campo della tecnologia e della stereofonia consentirono diversi esperimenti sonori applicati a un formato “pop”.
Discografia Consigliata

The Lively Ones – Surf City (1963)
The Trashmen – Surfin’ Bird (1964)
The Marketts – Out Of Limits (1964)

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