Phoebe Bridgers: l’angelo ferito del folk losangelino

Difficile quantificare il numero esatto di cantautrici folk salite alla ribalta negli ultimi quattro lustri. Una flotta incalcolabile di tenere fanciulle atte a riproporre in chiave personale, e non, i riferimenti del passato, con fari emblematici, e il più delle volte irraggiungibili, come Joni Mitchell, Joan Baez, Carole King e Laura Nyro nel mirino. Volendo effettuare una cernita qualitativa, si potrebbero citare alcuni nomi che hanno lasciato un’impronta indelebile nel cantautorato rosa degli Anni Duemila, vedi Laura Marling, Laura Gibson, Alela Diane, Simone White, Tara Jane O’Neil, Marissa Nadler; il tutto senza contare le più estroverse e classicheggianti Joanna Newsom e Josephine Foster, così come muse dei tardi Novanta esplose poi nel decennio successivo, su tutte l’inarrivabile Cat Power. Un vero e proprio calderone a parte, in cui ritrovare tracce di un folclore volutamente scarno, eppure efficacissimo. Pochi, delicati accordi sorretti da voci mediamente candide. Insomma, dei veri e propri angioletti alla chitarra muniti di una scrittura esaltante e in grado di allietare l’anima con melodie e parole costantemente avvolgenti. Una nutrita schiera di compositrici che meriterebbe un’accurata catalogazione e che continuano a segnare il firmamento indie-folk, al netto delle tendenze del momento e dei tanti hype straccia-classifiche.

Dunque, continuano a spuntare ogni anno potenziali continuatrici di una tradizione folcloristica sorta a metà dei Sessanta e in piena epopea hippie. Tra le tante giovani muse avvistate negli affollati radar indipendenti, è oltremodo doveroso segnalare una delle più interessanti songwriter americane: Phoebe Bridgers. Ventiquattro anni il prossimo 17 Agosto, diplomata alla Los Angeles County High School For Arts, questa tenera ragazza dagli occhioni grandi e il portamento da angelo ferito ha scritto la sua prima canzone all’età di undici anni, e ha trascorso la propria adolescenza esibendosi in giro nella Città degli Angeli, soprattutto nei mercati degli agricoltori; luoghi insoliti per una figura altrettanto insolita, tanto timida quanto sfuggente, eppure dannatamente coinvolgente nel suo modo di apparire sempre distaccata dal mondo, da tutto e da tutti.

A notarla per primo, è l’attento Adams, durante un’esibizione in un locale californiano, con il brano Killer a fungere da primo importante biglietto da visita; un colpo di fulmine al quale il rocker non riesce a resistere, e a cui segue una prima uscita per la sua Pax. Una prima sessione da cui nasce l’Ep Killer, al quale seguono molte offerte dal vivo, accettate all’istante dalla Bridgers, visti i nomi con i quali avrebbe suonato di lì a poco (Julien Baker, Violent Femmes).

Dopo una prima ondata di concerti in giro per il pianeta, la Bridgers torna in studio per terminare il suo debutto integrale, Stranger in the Alps, disco rilasciato nell’ottobre 2017 per la benemerita Dead Oceans. A un primissimo ascolto, è praticamente impossibile non citare Elliott Smith e Leonard Cohen tra i riferimenti primari. Una delicatezza acustica e una capacità di scrittura che lo portano immediatamente in alto e sulle pagine delle riviste musicali specializzate più accreditate degli States, ma non solo. A inebriare sono soprattutto le parole e i ganci melodici strappalacrime, ai quali si somma una voce calda, penetrante, e puntualmente ben assestata. Dominano la scena canzoni che narrano di vicende talvolta personali, come Georgia, nella quale la Bridgers si lascia andare e racconta di una fugace storia d’amore avvenuta durante una tournee nello stato della Georgia, con passaggi emblematici e spesso financo poetici:

Sometimes in the pouring rain
He’ll fall in the mud and get back up again
And if you find me
Will you know me
Will you take me
Or will you fall
(da Georgia, 2017)

Ad arricchire il campionario, è la presenza di una leggenda indie come Conor Oberst, il quale presta la propria voce nella delicatissima Would You Rather. Ciò che rende la Bridgers una cantautrice da tenere d’occhio e una delle più interessanti interpreti odierne, è la sua personale profondità e l’estrema cura delle pause, dei tempi e delle rifiniture, alle quali bisogna aggiungere un’inclinazione noir che la porta ad avvicinarsi ad atmosfere degne del miglior Badalamenti, come nel caso dell’introduttiva Smoke Signals. Ma è con la prima hit di lancio dell’album che le potenzialità dell’americana assumono una pienezza a dir poco entusiasmante. Già, perché un brano perfetto come Motion Sickness incarna tutto ciò che si potrebbe desiderare da una folksinger contemporanea, con tanto di refrain irresistibile e arrangiamento curatissimo messo in piedi con un piano e due chitarre in dolce appoggio. Un brano che espone anche una sensibilità fuori dal coro, con la Bridgers ancora una volta estremamente disillusa dall’andazzo di un rapporto “sentimentale” fugace e al tempo stesso difficile da dimenticare.

Le parole evidenziano il modo in cui un uomo più anziano ha causato la sua angoscia nella forma di ciò che descrive come cinetosi emozionale, spiegando come l’ha costruita e come poi abbia spezzato il suo cuore, lasciandola infine indietro e da sola. Durante un’esibizione dal vivo sulla serie Tiny Desk di NPR, la stessa Bridgers ha detto che questa canzone parla di “essere innamorati di qualcuno che è super cattivo per te…come i sentimenti conflittuali”. In una successiva performance sulla stazione radio KCRW, ha infine svelato l’arcano, dichiarando direttamente “quella era una canzone che ho scritto su Ryan Adams”. Una penna, quindi, che non rinuncia ad esternare le proprie vicissitudini, tra un accordo strappato al cuore, una lacrima sul viso e la voglia di farcela con le proprie forze e soprattutto le proprie corde. Un esempio illuminante e una delle autrici più ispirate del momento.

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