The Ventures
Una delle formazioni più importanti e influenti della prima ondata del surf-rock fu quella dei Ventures, che ad oggi risulta anche essere la formazione di rock strumentale con il maggior numero di dischi venduti (110 milioni circa).
Tutto ebbe inizio nel 1958 a Tacoma, nello stato di Washington, quando i chitarristi Bob Bogle e Don Wilson misero a frutto la loro passione per la musica fondando i Versatones. Un giorno, Bogle ascoltò alla radio “Walk Don’t Run”, un brano di Chet Atkins (originariamente scritto e registrato dal chitarrista Johnny Smith) che gli piacque molto. Chiese, così, a Wilson di registrarne una cover e di mandare il nastro a qualche etichetta, sperando che qualcuna di loro potesse dargli la possibilità di farne un singolo. Non ricevettero alcuna risposta, ma non si scomposero. Anzi: per tagliare la testa al toro, decisero di fondare un’etichetta tutta loro: la Blue Horizon. Cambiato il nome in The Ventures, il duo reclutò il batterista Skip Moore e il bassista Nokie Edwards per registrare la versione definitiva di “Walk Don’t Run”, che uscì su singolo nel 1960. Rispetto all’originale di Atkins (caratterizzata da un fingerpicking1 elegante e vagamente jazzato), la “Walk Don’t Run” dei Ventures (destinata a diventare una delle prime hit di surf-rock della storia) si affida a un agile ed evocativo fraseggio chitarristico (memore di quello di Duane Eddy, nome che torna buono anche per le atmosfere rilassate del lato B, “Home”) ancorato a un brioso uptempo. Incoraggiati dall’ottima accoglienza ricevuta dal singolo, alla fine di quello stesso anno i Ventures (dopo aver sostituito Moore con Howie Johnson) pubblicarono su etichetta Dolton (una sussidiaria della Liberty) il loro primo disco, intitolato proprio Walk, Don’t Run e ovviamente impreziosito dal recupero del brano omonimo. Lo apriva una “Morgen” dalle tonalità morbide, seguita da quel mix di trame rock’n’roll e umori country & western che è “Raunchy”. L’alternanza di momenti rilassati e altri più dinamici costituisce, in ultima istanza, l’essenza stessa di un disco godibilissimo, in cui la band si confronta anche con il rhythm and blues (“Night Train”), il jazz in chiave soft-tribale (“Caravan”), l’honky-tonk (“Honky Tonk”) e il rock’n’roll puro (“The Switch”).
Sempre più affiatati, i Ventures dell’omonimo secondo disco (uscito nell’estate del 1961 e leggermente più centrato e vario del suo predecessore) proseguirono con una dozzina di brani (nessuno autografo) che strizzavano l’occhio a Duane Eddy (“The Shuck”, “Torquay”) e al country’n’roll (“Detour”), preparandosi alla guerra sotto il sole delle Hawaii (la sfiziosissima “Hawaiian War Chant”), stuzzicando fantasie latino-americane (“Perfidia”, “Tango”), levigando partiture fatte di docili inquietudini (“Harlem Nocturne”, “Lonesome Town”), districandosi tra ariose progressioni e interludi marziali (“Ups ‘n’ Down”) e lanciandosi, infine, in schiette dimostrazioni d’affetto per la stagione d’oro del rock’n’roll (“Wailin’”).
Su Another Smash!!! (1961) tornarono, invece, i brani autografi (“Lonely Heart”, “Josie”), con il twang chitarristico a farla da padrone in brani come “(Ghost) Riders in the Sky” (su cui compaiono anche gli archi), “Lullaby Of The Leaves” e “Raw-Hide”. E se “Last Date” assomiglia a una ninna-nanna e “Ginchy” e “Bulldog” sono altre disinvolte dimostrazioni di bravura, il rumore delle onde e le fattezze liquide di “Beyond The Reef” sono ovviamente debitori del surf-rock.
Che i chitarristi Bob Bogle e Don Wilson rappresentassero il cuore stesso della musica dei Ventures fu confermato anche anche dalla copertina di The Colorful Ventures, pubblicato sempre nel 1961 e costruito intorno al tema dei colori, il che lo rende uno dei primi esempi di concept-album della storia del rock. E sembra proprio di vederli, i colori, trasformarsi in piccole spirali di note e ritmo in brani al solito egregiamente cesellati e deliziosi come “Blue Moon”, “Bluer Than Blue”, il mambo di “Cherry Pink And Apple Blossom White”, una “Green Leaves of Summer” fatta di nostalgia e una “Greenfields” madida di rassegnazione. “Yellow Jacket”, l’unico brano firmato dalla coppia Bogle-Wilson (con contributo di Nokie Edwards) è anche quello meno riuscito, a conferma del fatto che i Ventures davano il meglio di sé nella rilettura (non necessariamente pedissequa) di brani scritti da altri musicisti.
Nel 1962, uscirono quattro loro dischi, il primo dei quali, Twist With the Ventures (con Mel Taylor a dividersi le parti di batteria con Howie Johnson), inseriva il pilota automatico, ripescando alcuni dei successi ballabili dell’epoca.
Su Twist Party, Vol. 2 dominavano, invece, i brani scritti dalla coppia Bogle-Wilson (e, all’occorrenza, da Edwards), alle prese – come da loro stessi dichiarato nelle note di copertina – con brani che avevano un unico obiettivo: far ballare gli ascoltatori. Obiettivo sicuramente centrato, anche se, per ottenerlo, la band finì per appiattirsi su soluzioni mediamente più banali. La voglia di divertirsi e di far divertire accompagna, da cima a fondo, anche Mashed Potatoes and Gravy (sul quale la band rilegge anche la “Summertime” di George Gershwin) e Going to the Ventures’ Dance Party. Altri classici del periodo, tra cui “Telstar” degli inglesi Tornados e “The Lonely Bull” di Herb Alpert and the Tijuana Brass, furono invece ripescati su The Ventures Play Telstar, The Lonely Bull (1963), uno dei titoli più apprezzati del loro catalogo, nonché quello con la migliore posizione nella classifica di Billboard, grazie al suo ottavo posto. Ai grandi successi della musica surf fu, invece, dedicato Surfing, aperto dalla cover di “Pipeline” dei Chantays e contenente l’autografa “Surf Rider” che troverà posto, anni dopo, nella colonna sonora di Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Nello stesso anno, Bobby Vee Meets The Ventures vide la band collaborare con il cantante americano, ma le cose non funzionarono granché, dato che la band, per accompagnare canzoni di facile presa, fu costretta a semplificare di molto le sue partiture strumentali. Approcciato anche il country con l’ennesimo esercizio di stile di The Ventures Play the Country Classics, la band proseguì, dunque, continuando a registrare e pubblicare dischi a un rimto impressionante, ovviamente abbassando di molto il livello medio della propria musica. In ogni caso, Ventures In Space (1964) aggiungeva la mania dello Space age pop alla palette dei loro colori musicali, spesso tirando fuori numeri (“He Never Came Back”, “Moon Child”, “War of the Satellites”, “The Bat”) capaci di proiettare il surf-rock nello spazio, laddove su The Fabulous Ventures (1964) il numero dei brani scritti di proprio pugno dalla band tornava a essere cospicuo, anche se la loro qualità lasciava molto a desiderare. Avendo subito, come tanti dei loro conterranei, il fascino della British Invasion, i Ventures di Walk, Don’t Run Vol. 2 (1964) aprirono, invece, con una rilettura di “House Of The Rising Sun” degli Animals, un brano che li mise in contatto con sonorità chitarristiche più distorte (con il picco garage-rock di “The Creeper”), non di rado influenzate anche dal blues (“Peach Fuzz”, “Night Walk”, “Pedal Pusher”) o accompagnate da un batterismo più incisivo del solito, come nel caso di “Rap City”, una rivisitazione di una delle Danze ungheresi di Johannes Brahms.
Dopo aver registrato, sul finire del 1965, anche un album natalizio (The Ventures’ Christmas Album, a tratti veramente ridicolo), nel 1966 Where The Action Is e Wild Things! ripescarono, seppur in una versione leggermente più edulcorata, il garage-rock già assaporato in “The Creeper”, incrociando nelle trame di “No Matter What Shape” (sul primo dei due) anche accenti jingle-jangle a là Byrds, laddove le autografe “Wild Child”, “Wild Trip” e “Fuzzy and Wild” (sul secondo) mostravano che Bogle e Wilson non se la cavavano poi così male anche con le sonorità più distorte.
Era chiaro, insomma, che la band (che nel precedente The Ventures Knock Me Out! aveva anche omaggiato i Beatles con una rivisitazione di “I Feel Fine”) continuava a tenere d’occhio quanto, nel frattempo, andava maturando nell’universo più in vista del pop e del rock. Contemporaneamente, però, la loro musica andava smarrendo la magia di un tempo, accontentandosi di essere, al massimo, una piacevole tappezzeria sonora. Nel corso degli anni, la band avrebbe comunque continuato a fare dischi di buon successo, suonando in giro per il mondo e alimentando il mito di un’epoca irripetibile.
Note:
- Tecnica chitarristica in cui le corde vengono pizzicate direttamente dalla mano e non dal plettro.
Discografia Consigliata
Walk Don’t Run (1960)
The Ventures (1961)
The Colorful Ventures (1961)
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