Il folk-revival

A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre la popular music si dibatteva tra l’effimero fenomeno dei teen-idols, gli ultimi fuochi del rock’n’roll e i primi vagiti di quella che, poi, sarebbe stata conosciuta come surf-music, salì alla ribalta un fenomeno destinato a incidere profondamente sulle sorti della musica rock: il folk-revival. Le radici dello stesso risalivano almeno agli anni Venti, quando alcuni ricercatori e semplici appassionati presero a registrare sul campo i canti tradizionali di contadini e di altre categorie di lavoratori. Quella che era una musica che si trasmetteva per via orale, si cristallizzò in forme riproducibili, diffondendosi grazie all’avvento del grammofono e, quindi, della radio e della televisione. Nel decennio successivo, nella zona del Greenwich Village di New York, musicisti come Leadbelly, Woody Guthrie, Pete Seeger e l’etnomusicologo Alan Lomax entreranno in contatto, condividendo idee e passioni e somministrando, di rimando, nuova linfa vitale al processo di rivalutazione della musica folk.

Con l’obiettivo di salvaguardare l’enorme patrimonio della musica popolare americana, Alan Lomax stava continuando, durante quegli anni, il percorso intrapreso dal padre John Avery, che in precedenza era riuscito a ottenere dalla Biblioteca del Congresso l’istituzione di un vero e proprio archivio della canzone popolare. Grazie ai sovvenzionamenti ricevuti, il vecchio Lomax aveva avuto l’opportunità di registrare sul campo numerosi brani di musica popolare. Nel solco del padre, Alan finirà per diventare il principale responsabile della riscoperta del patrimonio folk a stelle e strisce. Durante uno dei loro tanti viaggi alla ricerca di documenti sonori sempre più autentici, i Lomax incontrarono, nel Penitenziario di Stato della Louisiana, Huddie William Ledbetter, un uomo di colore che stava scontando una pena per rissa. I due scoprirono che il tizio si faceva chiamare Leadbelly e che aveva un talento strepitoso nel suonare la chitarra a dodici corde e nel cantare canzoni che, muovendosi tra blues, folk e gospel, abbracciavano tematiche diverse, spesso offrendo in dote porzioni consistenti della sua vita turbolenta, in cui la passione per le donne e per l’alcol ricopriva un ruolo tutt’altro che marginale. Senza pensarci su, i Lomax gli piazzarono davanti un registratore, invitandolo a fare quello che gli riusciva meglio: suonare e cantare. Sulla scorta delle registrazioni effettuate dai Lomax, Leadbelly diventerà, negli anni Quaranta, un buon affare per le case discografiche, decennio in cui il musicista originario di Mooringsport, Louisiana, alimenterà anche le sue simpatie per la musica di protesta di Woody Guthrie e Pete Seeger.

Woody Guthrie, menestrello girovago e antifascista convinto (sulla sua chitarra c’era scritto «this machine kills fascists», «questa macchina uccide i fascisti»), diventerà il cantore della «Grande Depressione» (il periodo di profondissima crisi economica innescato nel 1929 dal crollo della Borsa di Wall Street), incidendo nel 1940 una delle pietre miliari della musica folk americana: Dust Bowl Ballads. Guthrie fu anche il primo cantautore folk a vedere nella propria musica una strada maestra per l’impegno sociale: le sue erano canzoni di protesta, veri e propri strumenti per fare luce sulle gravi contraddizioni che attanagliavano la società americana e che, ovviamente, avevano le loro peggiori ricadute sulle classi più povere. Agli inizi degli anni Quaranta, Guthrie formò, insieme a Pete Seeger, gli Almanac Singers, una formazione le cui esibizioni dal vivo miravano soprattutto a raccogliere fondi per sostenere organizzazioni politiche di sinistra. Fare musica folk per gli Almanac Singers significava innanzitutto «cantare la verità nel modo più semplice possibile», una dichiarazione d’intenti che si traduceva nella scrittura di testi semplici e diretti, in modo da instaurare un contatto quanto più sincero possibile con il proprio pubblico. A causa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, però, l’avventura degli Almanac Singers giunse presto al capolinea, non prima, però, di aver causato qualche grattacapo molto in alto grazie alla pubblicazione del loro secondo disco, Talking Union (1941), in cui trovarono spazio canzoni anti-belliche e altre apertamente schierate contro la politica del presidente Roosevelt.

Pete Seeger (che in seguito sarebbe stato universalmente riconosciuto come il vero padre del folk-revival) raccoglierà il testimone degli Almanac Singers con i Weavers, formazione nata nel 1948, anno in cui le vendite di dischi di musica folk cominciarono a essere registrate nella classifica di Billboard, il che testimoniava della crescente diffusione di quella musica tra il pubblico degli ascoltatori americani. Il più grande successo dei Weavers fu la cover, pubblicata nel 1950, di “Goodnight Irene”, un brano già inciso da Leadbelly. In quello stesso anno, mentre contro la band montava la condanna di comunismo (all’epoca, ricordiamolo, stava prendendo piede il fenomeno del cosiddetto «maccartismo», un clima di esasperato sospetto contro ogni atteggiamento ritenuto sovversivo nei confronti dell’establishment americano), Seeger inaugurò una fortunata carriera solista con Darlin’ Corey (1950), disco che lo consolidò come un punto di riferimento per i musicisti folk e per tutti i sostenitori dei diritti civili.

Uno degli eventi cardini della nostra storia è datato 1952, anno in cui la Folkways Records pubblicò la Anthology of American Folk Music, allestita da Harry Smith che, oltre ad essere un artista beatnik, un regista sperimentale e un discepolo dell’occultista Aleister Crowley, era anche un grande appassionato di musica folk, tanto da aver messo su un’enorme raccolta di 78 giri, cui attinse per compilare i sei dischi della sua antologia, in modo da dare una preziosa panoramica degli stili musicali che si potevano incrociare nelle zone rurali degli Stati Uniti agli albori dell’industria discografica. Per molti musicisti folk, la Anthology divenne un testo fondamentale da studiare e approfondire. Fu grazie ad essa che molti di loro ascoltarono, per la prima volta, bluesmen come Blind Lemon Jefferson, Mississippi John Hurt e Blind Willie Johnson, più, naturalmente, una miriade di altri musicisti (del tutto sconosciuti o giù di lì) dediti a ballate popolari, gospel, hillbilly e via discorrendo.

Molto del fascino che la folk-music esercitava sui giovani adulti degli anni Cinquanta dipendeva dalla sua mitologia anti-eroica, dal suo essere, insomma, un veicolo di storie e speranze legate ai membri più nascosti della società, ai reietti, quando non a veri e propri vagabondi (si pensi, ad esempio, allo hobo1 Woody Guthrie) o malviventi (è il caso di Leadbelly), la cui esperienza di vita poteva comunque essere esibita come un vessillo di libertà contro la vuota e plastificata routine dell’uomo medio americano, sempre più in balia dei meccanismi del consumismo e della massificazione.

Quel vessillo fu innalzato con orgoglio anche dal Kingston Trio, formato nel 1957 da Dave Guard, Bob Shane e Nick Reynolds. Sul loro omonimo album d’esordio, compariva anche il brano tradizionale Tom Dooley che, uscito anche come singolo, non solo contribuì a rinnovare l’interesse per la riscoperta del patrimonio musicale della tradizione americana, ma aprì anche il varco per l’avvento di una nuova generazione di musicisti folk d’origine metropolitana, molti dei quali iniziarono a riunirsi nel Greenwich Village di New York, un quartiere della zona di Manhattan che era già da qualche decennio uno dei centri culturali più attivi degli Stati Uniti. Nel parco di Washington Square si era diffusa, almeno a partire dal 1945, la tradizione di cantare folk: ogni fine settimana, decine e decine di musicisti (più o meno giovani) si davano appuntamento in quel parco per suonare canzoni proprie o altrui, ma anche solo per improvvisare con i propri strumenti (in raduni chiamati «hootenannies») o per scambiarsi dischi e opinioni. Dato che il fenomeno cresceva esponenzialmente, attirando anche un nutrito gruppo di curiosi, alcuni abitanti del posto pensarono bene di aprire le prime coffee house, offrendo concerti folk (in qualche caso preceduti o intervallati da letture di poesie, da brani di musica jazz o da qualche numero comico) a quanti accorrevano nel Village, richiamati dalla passione per la folk-music o dalla semplice curiosità. Cafè Bizarre, Folklore Center, Cafè Wha? (dove iniziò a suonare un giovanissimo Bob Dylan, poche ore dopo essere arrivato a New York) e Gaslight Cafè sono solo alcuni dei posti in cui, all’epoca, si poteva entrare per comprare dischi, libri o accessori legati alla folk-music o anche solo per ascoltare musica mentre si beveva o si mangiava qualcosa. Tuttavia, New York non era – almeno alla fine degli anni Cinquanta – all’avanguardia in fatto di locali dedicati alla folk-music. A Boston, Chicago, San Francisco o Los Angeles, ad esempio, c’erano già da qualche anno locali in cui la musica folk era il piatto forte. In quel di Boston, abitava Joan Baez, all’epoca iscritta alla locale università. Nel giro di qualche anno, armata di chitarra e di una voce magnetica, la giovanissima cantautrice sarebbe diventata la regina del folk-revival. Ma di lei parleremo nella prossima puntata.

Note:

  1. Il vagabondo classico americano, che il più delle volte utilizzava i treni merci per spostarsi da un posto all’altro.
Discografia Consigliata

Woody Guthrie – Dust Bowl Ballads (1940)
Almanac Singers – Talking Union (1941)
The Weavers – The Best of The Weavers: Wasn’t That a Time? (compilation, 2004)
Pete Seeger – Darlin’ Corey (1950)
Harry Smith (a cura di) ‎– Anthology Of American Folk Music (1952)
Kingston Trio – The Best of The Kingston Trio (compilation, 1962)

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