Starcrawler: fashion punk dalla California

C’è sempre un buon motivo per rianimare lo spirito punk più deviato, al netto di una dipartita sostanzialmente mai avvenuta. Passano le mode, si sprecano fiumi di parole per definire l’hype dell’ultima ora, ma il caro e vecchio punk resta lì, apparentemente immobile, pronto a tornare sul ring con il consueto carico di adrenalina, finto sudiciume, riff da strapazzare e slogan riottosi. Stavolta, a riprendere praticamente in toto l’attitudine di un passato che proprio non vuole saperne di finire in soffitta, è una giovanissima band californiana, Starcrawler, composta da quattro neo-diciottenni incazzati (ma non troppo), attratti come api dal miele da una serie impressionante di gruppi del passato recente e non, a partire dagli Stooges, fino ad arrivare alle Hole di Courtney Love. Nel mezzo, piazzateci tutto quello che vi pare, purché sia accostabile a mostri sacri come New York Dolls, Queens Of The Stone Age, White Stripes, X, financo T. Rex.

Un guazzabuglio di influenze messo in bella mostra senza macchiare troppo la tela, grazie alla sfrontatezza di una front-woman tutta pelle e ossa, cuore e smorfie bastarde alla Freddy Krueger, tra gocce di sangue finto sparse sui vestiti, spaccate sul palco, urla pseudo demoniache, pannoloni, e chi più ne ha, più ne metta. Del resto, Arrow de Wilde, figlioletta della celebre fotografa Autumn de Wilde, è cresciuta nell’ambiente giusto, tra set, flash e costumi di scena. E’ lei l’anima maledetta del quartetto californiano: voce da dura, spesso distaccata, look da vampira postmoderna, e carattere da vendere. Un esibizionismo spinto e mediato dalla maggiore compostezza degli altri membri del gruppo: Henri Cash (chitarra), Austin Smith (batteria) e Tim Franco (basso). I tre sono decisamente più sobri, durante i concerti restano in disparte, “scalzati” dai provocanti guizzi della loro leader.

A produrre l’esordio omonimo, non è soltanto un’etichetta monstre come la Rough Trade, bensì un certo Ryan Adams, sempre più restauratore di approcci rock di un passato praticamente indelebile, il quale ha fornito il proprio studio ai quattro, situato presso la sede centrale della personale label Pax-Am, con il mero intento di laccare analogicamente il tutto, conferendo ancor di più quella veste vintage necessaria affinché il risultato assuma risvolti lerci, scevri da rifiniture digitali e modernismi di sorta. Un aiuto non da poco, quello fornito del cantautore rock di Jacksonville, che si aggiunge alla più che probabile spinta dovuta alla provenienza “nobile” dei ragazzi, considerati fin dal primo momento come i classici figli di papà “costretti” a sfondare.  Una sorte capitata a suo tempo anche ai benemeriti Strokes, che comunque non impiegarono molto a sgretolare ogni dubbio legato all’albero genealogico.

Con i suoi ventotto minuti scarsi di micro-assalti frontali in scia punk, grunge, e glam-rock, Starcrawler è un album che non stanca praticamente mai. Ce n’è per tutti i gusti e per tutti i palati rigorosamente “borchiati”, soprattutto per coloro che tanto hanno apprezzato le Hole della primissima ora, quelle dannatamente grezze della raccolta di b-side del ’97, My Body, The Hand Grenade. Ed è proprio nella verve incendiaria della Courtney Love più disagiata, tossica e riluttante che la de Wilde trova piena ispirazione. Un modello totalizzante, da cui attingere tecniche canore dal mood sbilenco, movenze sul palco da rockstar maledetta, e gemiti da leonessa ferita. A tale inclinazione, si aggiungono i riff di chitarra alla Billy Zoom dei sempre poco citati e storici X – guarda caso anch’essi losangelini – del buon Henri Cash. E infatti, un pezzo come I Love LA sembra uscito dritto da Los Angeles, il fortunato esordio del 1980 prodotto da Ray Manzarek dei Doors. Così come l’esaltante Chicken Woman mette sul piatto irriverenza punk, stop&go con ripartenze alla Runaways e passo ritmico alla Meg White. Let Her Be è invece tutto ciò che potevate ascoltare lungo le coste californiane nei primi ’80, quando un numero impressionante di giovanissimi provò a ribellarsi alla propria maniera, fondando etichette indipendenti nei pressi di Long Beach (la SST di Henry Rollins è solo una delle tante), nei garage attrezzati delle villette a schiera o nei party di fortuna. Certo, non saranno innovativi, ma i quattro californiani hanno talento. Un fenomeno dal gusto retrò da tenere d’occhio, a prescindere dalle tendenze del momento.

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