Chuck Berry

L’ uscita nelle sale cinematografiche di Blackboard Jungle aveva in pratica incoronato il rock’n’roll come nuovo fenomeno giovanile. Così, il 1955 fu un anno di fuoco, reso ancora più indimenticabile dall’exploit di due artisti di colore. Il primo, Fats Domino (registrato all’anagrafe di New Orleans, dove era nato nel 1928, con il nome di Antoine Dominique Domino) pubblicò durante l’estate di quell’anno il fortunato singolo “Ain’t That A Shame”, un brano di rhythm and blues che raggiunse la top ten della classifica nazionale. Grazie all’esplosione del fenomeno rock’n’roll, Domino sfornò, tra il 1956 e il 1960, una fortunata serie di singoli tra cui “I’m In Love Again”, “My Blue Heaven”, “I Want To Walk You Home”, “When My Dreamboat Comes Home”, “Blueberry Hill”, “I’m Walking”, “I’m In The Mood For Love”, “Walking to New Orleans” e “My Girl Josephine”. Alla fine degli anni Cinquanta, Domino avrà venduto circa 65 milioni di dischi, risultando secondo soltanto ad Elvis Presley nella classifica degli artisti con più incassi.

Nella mitologia del rock’n’roll, comunque, tra i musicisti di colore dell’epoca un posto di primo piano lo merita innanzitutto Charles Edward Anderson Berry, meglio conosciuto come Chuck Berry. Il suo ruolo nella definizione della nuova musica giovanile fu così fondamentale che, qualche anno dopo, John Lennon dirà: “Se volete dare un altro nome al rock’n’roll, allora potreste chiamarlo pure Chuck Berry!”.

Nato nel 1926 ad Elleardsville, un sobborgo di St. Louis, Missouri, Berry entra nel mondo della musica agli inizi degli anni Cinquanta. Armato di chitarra e appassionato di blues, nel 1952 inizia un sodalizio con il pianista Johnnie Johnson e il batterista Ebby Hardy. La miscela di musica country e blues del Chuck Berry Trio ingolosisce anche il pubblico bianco, che trova nel giovane Berry un nuove eroe. Nel 1955, grazie alle indicazioni del suo mito Muddy Waters, il nostro entra in contatto con la Chess Records, per la quale realizza un demo contenente alcuni brani. Tra questi, quello che maggiormente stuzzica l’appetito dei vertici dell’etichetta discografica di Chicago è “Ida May”, un adattamento di un vecchio brano country intitolato “Ida Red”. Con il titolo di “Maybellene”, quel brano, caratterizzato da un saltellante ritmo rockabilly e da una chitarra elettrica dal suono aggressivo e pulsante, spedisce Berry nell’iperuranio del rock’n’roll.

Sulla scia del successo, nel 1956 esce il suo primo disco ufficiale, Rock, Rock, Rock, che conteneva anche un’altra clamorosa hit, “Roll Over Beethoven”, brano manifesto (caratterizzato da uno dei riff di chitarra più famosi della storia) che si faceva portavoce della volontà del rock’n’roll di assurgere al ruolo di nuova musica classica, sostituendo quella, ormai fuori moda, di Beethoven e compagnia bella.

L’anno successivo è la volta di After School Sessions, forte di altri brani ispirati quali “School Days”, “Too Much Monkey Business”, “Rolly Polly”. Nella prima – contraddistinta da quegli accenti ritmici marcati che tanta parte avrebbero avuto nella musica che, qualche anno dopo, si sarebbe chiamata semplicemente «rock» -, Berry dà voce alla gioia degli studenti che, una volta suonata la campanella, si ritrovano intorno al juke-box per dare sfogo alla loro voglia di scatenarsi a ritmo di musica.

Soon as three o’clock rolls around
You finally lay your burden down
Close up your books, get out of your seat

Down the halls and into the street
Up to the corner and ‘round the bend
Right to the juke joint you go in

Drop the coin right into the slot
You gotta hear something that’s really hot

Del ’57 è un altro singolo destinato a restare immortale, anche grazie all’emblematico titolo di “Rock And Roll Music”. Nel testo, Berry chiede soltanto di ascoltare un po’ di quella musica: let me hear some of that rock ‘n’ roll music.

Nel 1958 esce, dunque, One Dozen Berrys, un disco caratterizzato da un ampliamento dello spettro delle soluzioni, con hillybilly, musica messicana, jazz e blues a dare man forte al rock’n’roll, spingendolo verso nuovi lidi. Ad aprire il disco, un altro classico come “Sweet Little Sixteen”, in cui si narra di una ragazza di sedici anni, follemente innamorata del rock’n’roll, che chiede ai propri genitori di lasciarla andare ai concerti dei propri idoli.

“Oh mommy, mommy
Please may I go
It’s such a sight to see
Somebody steal the show
Oh daddy, daddy
I beg of you
Whisper to mommy
It’s all right with you”

Nel marzo dello stesso anno, intanto, uscì come singolo un altro brano destinato a futura gloria: “Johnny B. Goode”. Propulsa da un altro riff memorabile, il brano narra la storia di un povero ragazzo di campagna che, nonostante la sua umile condizione e il suo analfabetismo, riesce a diventare una star del rock’n’roll. Era, in pratica, il sogno americano messo in musica, ma nella musica dei giovani americani alla ricerca di una propria identità, oltre che di un sogno da coltivare.

Deep down in Louisiana close to New Orleans
Way back up in the woods among the evergreens
There stood a log cabin made of earth and wood
Where lived a country boy named Johnny B. Goode
Who never ever learned to read or write so well
But he could play a guitar just like a ringing a bell

Go go
Go Johnny go!
Go

A quel punto, come recita il titolo del suo disco del 1959, Chuck Berry Is On Top!

I suoi testi parlano della vita che i giovani americani vivono tutti i giorni, quella fatta di scuola, corse sulle motociclette, amore e sesso. Dal vivo, Berry è ancora più trascinante, soprattutto quando si lancia nel suo «duck walk», il «passo dell’anatra», imbracciando la sua chitarra, primo vero “guitar hero” della storia. Il suo stile chitarristico definì per la prima volta un modello di riferimento per tutta la musica rock a venire: con le sue note insistenti, Berry rendeva il ritmo insistente, martellante, in pratica traducendo su chitarra gli schemi del boogie-woogie. Mentre viveva il suo periodo d’oro, Berry venne accusato di sfruttamento della prostituzione, beccandosi una condanna a tre anni di carcere. Prima di finire in una cella del penitenziario di Terre Haute, nell’Indiana (19 febbraio 1962), riuscì comunque a registrare materiale per altri due dischi: Rocking At The Hops (1960) e New Juke Box Hits (1961), lavori di transizione basati su un rodatissimo mestiere.

Nell’ottobre del 1963, Berry è per fortuna già un uomo libero e, nonostante tutto, capisce che il mondo della musica non lo ha dimenticato. Le band che all’epoca stavano cavalcando l’onda del primo successo (Beatles, Rolling Stones, Kinks, Beach Boys, Animals) hanno inciso suoi pezzi o lo hanno eletto loro nume tutelare. Questa posizione di primo piano tra i pionieri del rock’n’roll (ancora John Lennon, durante quegli anni, lo definì “il primo poeta rock”) fu celebrata nel 1964 con la pubblicazione della raccolta Chuck Berry’s Greatest Hits, seguita, l’anno dopo, dal fortunato Chuck Berry In London.

Il periodo 1966-1970 fu, invece, quello in cui Berry raggiunse il picco della sua attività live, grazie a concerti esplosivi in cui era accompagnato dalla sua chitarra Gibson “cherry-red”. La testimonianza più nitida e riuscita di questo periodo è sicuramente “Live At Fillmore Auditorium”, uscito nel 1967 per la Mercury Records, l’etichetta che, giusto un anno prima, lo aveva convinto ad abbandonare la Chess Records in cambio di ben 150 mila dollari. Alla Chess Records, comunque, Berry tornerà all’inizio del 1970, registrando un paio di dischi altalenanti: Back Home (1970) e San Francisco Dues (1971).

Nel 1972, grazie all’intervento di John  Lennon, Berry tornò in terra inglese, suonando la sera del 3 febbraio un memorabile concerto durante il quale il pubblico andò letteralmente in visibilio durante l’esecuzione di “My Ding-A-Ling”, poco più di una filastrocca sciocca basata sulla musica di un brano folk del 1869. In ogni caso il brano riuscì a scalare le classifiche, tanto da essere l’unico suo brano ad aver raggiunto il primo posto negli Stati Uniti.

La seconda metà degli anni Settanta proseguì senza grandi novità. Nel 1979, tuttavia, Berry finì nuovamente in carcere, accusato di evasione fiscale. Uscito dopo quattro mesi, affrontò gli anni Ottanta suonando una media di cento concerti l’anno, in pratica vivendo di rendita grazie alla riproposizione dei suoi vecchi classici. Venerato e osannato come uno dei grandi pionieri del rock’n’roll, Berry trascorrerà gli ultimi anni della sua vita assomigliando sempre più a un’icona vivente. La morte lo raggiungerà il 18 marzo del 2017, all’età di novantuno anni.

“Se vuoi liberare la tua aggressività, alzati e balla. Ecco cos’è il rock’n’roll”

Discografia Consigliata

After School Sessions (1957)
One Dozen Berrys (1958)
Chuck Berry Is On Top (1959)
Rocking At The Hops (1960)
Chuck Berry’s Greatest Hits (antologia ,1964)
Live At Fillmore Auditorium (1967)
The Chess Years (box antologico, 1991)

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