Bob Dylan (Parte 1)

Dal suo arrivo nel Greenwich Village, il 24 gennaio 1961 al 26 ottobre dello stesso anno, giorno in cui sottoscrisse il suo primo contratto con la Columbia Records, Bob Dylan non smise mai di sentirsi un predestinato. Avvertiva dentro di sé la spinta di una missione che andava concretizzandosi giorno dopo giorno. La missione di portare la folk-music a un nuovo livello.

Robert Allen Zimmerman (questo il suo vero nome) nacque a Duluth, nel Minnesota, il 24 maggio del 1941, ma crebbe a Hibbing, mostrando un interesse precoce per la poesia, il disegno e la musica. Il suo mito era Hank Williams, la leggenda della musica country, ma adorava anche James Dean e, quando entrambi morirono (il primo nel 1953, il secondo due anni dopo), il mondo gli crollò addosso. Per sua fortuna, durante quegli stessi anni il rock’n’roll cominciò a gridare forte la sua voglia di scuotere il mondo giovanile, e anche il giovane Robert volle mettersi alla prova, suonando in alcune band. Tra i diciotto e i diciannove anni, dopo essersi iscritto all’Università del Minnesota, prese a esibirsi in pubblico con la sua chitarra acustica. Il suo repertorio comprendeva classici della canzone popolare americana e del blues rurale, che egli si divertiva a tingere di gospel secondo gli insegnamenti della cantante e chitarrista afroamericana Odetta. Nel frattempo, aveva iniziato a farsi chiamare Bob Dylan, mentre procedeva con gli ascolti e con le letture, tra cui quella (divenuta una vera ossessione!) di Bound For Glory, autobiografia di Woody Guthrie, la cui vita avventurosa lo colpì più della sua stessa musica. In lui, Dylan vide il simbolo del vagabondo solitario che si nutre di esperienze e di contatti umani disparati, riponendo tutte le speranze nelle canzoni che, di volta in volta, offre agli altri come simbolo della propria condizione. Guthrie era lo hobo1 letterato che trasforma le proprie avventure in un ispido matrimonio di melodie e parole.

Desideroso di nuovi stimoli, ma anche in preda all’ansia di dover a tutti i costi consegnare il suo attestato di stima al grande folksinger (all’epoca ricoverato al New Jersey Hospital), a un certo punto Dylan decise di spostarsi a New York, lì dove tutto stava per esplodere. Quando arrivò nella Grande Mela, con pochissimi dollari in tasca e senza un posto dove andare, c’erano meno dieci gradi e ventitré centimetri di neve (era l’inverno più freddo da ventotto anni a quella parte, stando a quanto riferiscono quelli che di queste cose si occupano per professione). Si sentì spaesato, ma ciò non gli impedì di camminare senza sosta, arrivando dopo qualche chilometro al Cafe Wha?, dove si fece le ossa come armonicista di Fred Neil e, quindi, come timido esecutore di qualche pezzo folk. In brevissimo tempo, conobbe un po’ tutti quelli che contavano nel Greenwich Village, salendo alla ribalta quando prese a esibirsi con una certa regolarità al Gerde’s Folk City, il locale dove, una sera del settembre del 1961, entrò anche il critico del New York Times Robert Shelton, deciso a scrivere un articolo su quello che sembrava essere un artista promettente. A quanti gli chiedevano conto del suo passato, Dylan rispondeva con una serie sempre più affascinante di storie che si divertiva a inventare di sana pianta, evidentemente per stare al passo con il suo mito Woody Guthrie. Così, di volta in volta, passava per orfano, per uno che era stato adottato più volte, per un vagabondo che aveva girato mezza America, vivendo grazie a lavori saltuari e all’aiuto di qualche benefattore, oppure sosteneva di avere uno zio ladro e di aver addirittura suonato il pianoforte nei primi dischi di Elvis. Laddove l’estetica folk si faceva portavoce di un ideale di veracità, Dylan mirava costantemente a modificare la propria identità, offrendo agli inconsapevoli abitanti del Village una quantità variabile di maschere che avevano il compito di preservare il suo fondo più intimo.

Le sue prime esperienze musicali serie furono le partecipazioni, nelle vesti di armonicista, alle registrazioni di Midnight Special di Harry Belafonte e dell’omonimo, terzo album di Carolyn Hester. Fu proprio mentre era impegnato con la cantautrice texana che Dylan, oltre a fare la conoscenza di Richard Fariña, fu notato da John Henry Hammond, talent scout al servizio della Columbia Records, l’etichetta che, nel giro di un mese, lo mise sotto contratto, spedendolo immediatamente in uno studio di registrazione per fargli registrare un disco.

Il primo disco omonimo di Dylan (per la cui realizzazione furono necessari soltanto tre pomeriggi) uscì il 19 marzo del 1962 e, pur nel suo essere un frutto ancora acerbo, mostrava già il carattere e la voglia di farsi largo di un ventunenne che era cresciuto ascoltando e assorbendo un po’ di tutto, come una spugna e, forse, più di una spugna. Dalla copertina, il giovane cantautore ci guarda con gli occhi di chi, in fondo, sa il fatto suo, anche se le armi sono ancora un po’ spuntate. Apre un Jesse Fuller d’antan, “You’re No Good”, agile e senza fronzoli, l’armonica che scoppietta come un treno a vapore in salita (Dylan inspira ed espira attraverso di essa, trasformandola in un’estensione espressionista del proprio apparato respiratorio), una chitarra che segna il passo con andatura irregolare e una voce sfacciata, quasi strafottente nel suo giovanile ardore (si ascolti anche “Pretty Peggy-O” e si provi a dire il contrario!). Non serve altro, a Dylan, il cui stile, a quest’altezza, se è certamente debitrice di diverse forme di folk bianco, nondimeno si abbevera alla fonte del blues rurale (omaggiato con l’ispida ripresa del tradizionale “In My Time Of Dyin’” e con funerea dedizione tra i solchi di “See That My Grave Is Kept Clean”, che fu di Blind Lemon Jefferson), la musica di quegli artisti che, ancora adolescente, egli si era divertito ad ascoltare di notte, quando nella sua casa di Hibbing si sintonizzava sulle stazioni radiofoniche del Sud degli Stati Uniti. “Talkin’ New York” è, invece, il primo dei due brani autografi del disco: un «talking blues» che marca il confine tra le sue aspirazioni e quelle della scena del Village, dove non pochi avevano guardato negli occhi quel giovincello carico di sogni e di speranza per dirgli, non senza una certa dose di disprezzo, che in fondo suonava come un «hillbilly»2 e che, quindi, c’era poco spazio per lui in un tempio in cui si onorava solo il sacro fuoco dell’autentica folk-music. Il secondo brano autografo è l’omaggio al maestro Guthrie di “Song To Woody”. Ecco, quindi, il continuo ondeggiare tra distensione e rapimento di “Man Of Constant Sorrow”, l’atmosfera colloquiale di “Baby, Let Me Follow You Down”, il passo spedito, ma non privo di asprezze, di “Highway 51 Blues”, e quello incalzante di “Fixin’ To Die” e “Freight Train Blues”. Per quanto riguarda, invece, “House Of The Rising Sun” (altro brano tradizionale di cui non si conosce l’autore), l’arrangiamento che Dylan utilizzò fu letteralmente scippato a Dave Van Ronk, che lo aveva messo a punto in previsione del suo prossimo disco.
Nel complesso, questo esordio non scosse dalle fondamenta la folk-music, ma servì comunque a Dylan per mettere a frutto quanto egli era andato immagazzinando e rielaborando durante i suoi anni di gavetta.

Le sue ambizioni maturarono lentamente, soprattutto grazie alle letture delle opere di Arthur Rimbaud, John Keats e Thomas Stearns Eliot, poeti la cui voce egli andava meditando attraverso l’eco, ancora vivissima, dei protagonisti della Beat Generation. Fu Suze Rotolo, la sua ragazza di allora, a introdurlo, invece, ai temi della lotta per i diritti civili, alle opere di Bertold Brecht e al vasto archivio di registrazioni che Alan Lomax aveva condotto sul campo per registrare le voci di un’America che il tempo e il progresso sembravano non riuscire a intaccare definitivamente. Dinanzi all’occhio della mente di Dylan si spalancarono, quindi, gli scenari dell’attualità a stelle e strisce, cosa che gli diede il coraggio, ma anche l’ispirazione, per iniziare a scrivere con regolarità canzoni autografe. La tradizione gli offriva un fondo sterminato da cui ricavare melodie pronte per essere riconsegnate a nuova vita, in un processo di scrittura, riscrittura e performance che egli andava consolidando di giorno in giorno, soprattutto grazie alle esibizioni nei locali del Village. Il numero delle nuove canzoni cresceva esponenzialmente, quasi Dylan fosse in preda a un’ispirazione senza fondo. Tra i primi tentativi di un certo spessore, va sicuramente annoverato “The Death Of Emmett Till”, brano che descrive l’omicidio di un uomo di colore avvenuto nel 1955, e soprattutto “Talkin’ John Birch Paranoid Blues”, che aveva nel mirimo l’ultraconservatrice John Birch Society, un’associazione che si batteva per sconfiggere la minaccia comunista. Dylan le inserì, insieme a molte altre, nella scaletta abituale delle sue esibizioni e continuò per la sua strada, quella che portava al suo secondo disco.

The Freewheelin’ Bob Dylan (27 maggio 1963, con la famosa copertina su cui Dylan cammina in una strada innevata del Village dando il braccio a Suze Rotolo), conteneva quasi elusivamente canzoni autografe, fatta eccezione per il brano tradizionale “Corrina, Corrina” (arrangiato per due chitarre, basso, piano e batteria) e per la rilettura di “Honey, Just Allow Me One More Chance”, un blues della fine degli anni Venti scritto da Henry “Ragtime Texas” Thomas. Dylan era diventato un cantautore con una coscienza sociale, ma il cammino era stato travagliato. Il disco, infatti, pensato inizialmente come un nuovo omaggio alla tradizione folk-blues, si era poi trasformato in una carrellata di canzoni che potevano tranquillamente dirsi di “protesta”, a cominciare da “Blowin’ In The Wind”, inno pacifista tutto sommato innocuo ma comunque destinato a fama imperitura. Contro i signori della guerra si scaglia, invece, “Masters Of War”, nata dall’incontro tra un testo pungente e la melodia della ballata medievale inglese “Nottamun Town”. Anche in questo caso, la chitarra procede con fare circolare e ipnotico, confermando che l’ingresso di Dylan tra i ranghi dei cantautori di protesta aveva portato con sé uno smussamento di quegli spigoli che rendevano così intrigante il suo disco d’esordio. Ma è “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” il brano in cui il cantautore riesce, per la prima volta, a gettare uno sguardo sulla crisi del suo tempo attraverso una composizione relativamente più complessa, in cui le visioni sembrano andare davvero a ruota libera (freewheelin’), accumulandosi una sull’altra (tra le fonti di ispirazione, la ballata medievale scozzese “Lord Randal”, il Battello ebbro di Rimbaud e William Blake), prefigurando un’apocalittica distruzione (simboleggiata dalla «hard rain» – la pioggia fitta, sferzante o battente – del titolo) che, prima o poi, giungerà a fare piazza pulita su tutta la Terra. “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” è un brano importantissimo, perché testimoniava che la fiammella della protesta, accesa dai poeti della Beat Generation nel decennio precedente, era stata presa in carico dal più promettente di tutti i folksinger americani, come intuì nell’immediato Allen Ginsberg: «Quando ascoltai “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, mi misi a piangere. Sembrava proprio che il testimone fosse passato dai poeti beat alla nuova generazione.»3

Oh, where have you been,
my blue-eyed son?
Oh, where have you been,
my darling young one?

I’ve stumbled on the side
of twelve misty mountains,
I’ve walked and I’ve crawled
on six crooked highways,
I’ve stepped in the middle
of seven sad forests,
I’ve been out in front
of a dozen dead oceans,
I’ve been ten thousand miles
in the mouth of a graveyard,

And it’s a hard, and it’s a hard,
it’s a hard, and it’s a hard,
And it’s a hard rain’s a-gonna fall.

Dove sei stato,
figlio mio dagli occhi azzurri?
Dove sei stato,
ragazzo mio caro?

Mi sono imbattuto nel fianco
di dodici nebbiose montagne,
ho percorso e ho strisciato
per sei tortuose autostrade,
ho camminato nel mezzo
di sette tristi foreste,
mi sono trovato faccia a faccia
con una dozzina di oceani morti,
son stato per diecimila miglia
nella bocca di un cimitero,

E una forte, e una forte,
e una forte,e una forte,
e una forte pioggia cadrà.

Il tema dell’apocalittica distruzione si fa largo anche in “Talking World War III Blues”, ma in questo caso affrontato con humor sferzante e con l’occhio rivolto alla “guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In questo caso, però, Dylan non aveva nella voce quel tono, insieme profetico e accorato, che rende “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” uno dei momenti più emozionanti del suo canzoniere. Il tema amoroso è affrontato in due brani: “Girl From the North Country” (probabilmente dedicata a una ragazza conosciuta ai tempi dell’università) e “Don’t Think Twice, It’s All Right”, che invece evocava l’immagine di Suze Rotolo, all’epoca trasferitasi in Italia per studiare. E se in “Bob Dylan’s Dream”, invece, si sente l’eco dei flussi di coscienza tanto cari alla poesia beat, “I Shall Be Free” porta in dote ironia e leggerezza. Tra i brani meno riusciti, da segnalare, invece, una “Down The Highway” che senza molta convinzione si affida alle dodici battute del blues.

Nel luglio successivo, grazie alla cover di “Blowin’ In The Wind” registrata da Peter, Paul & Mary, il nome di Bob Dylan salì alla ribalta anche a livello nazionale. In quello stesso anno, insieme a Joan Baez (cui era legato da un tormentato rapporto di amore e amicizia) partecipò alla Marcia su Washington per il lavoro e la libertà, suonando poco prima che Martin Luther King pronunciasse lo storico discorso I have a dream. Intrepretò, quindi, il ruolo di musicista vagabondo nello sceneggiato della BBC Madhouse on Castle Street e si rifiutò di apparire all’Ed Sullivan Show perché gli fu vietato di suonare “Talkin’ John Birch Paranoid Blues”.
A fine luglio prenderà quindi parte al Newport Folk Festival, proponendo, insieme a Joan Baez, una nuova canzone di protesta: si trattava di “With God On Our Side”, in cui una depressa linea di chitarra fa da sfondo a un’aspra condanna della politica espansionistica americana.

“With God On Our Side” troverà posto su The Times They Are a-Changin’ (13 gennaio 1964), nelle cui note di copertina Dylan si attribuisce anche la paternità della musica di quel brano, nonostante essa fosse chiaramente ispirata a quella del canto tradizionale “The Merry Month of May”, che il cantautore irlandese Dominic Behan aveva già usato nella sua “The Patriot Game”. Nel suo terzo disco (ancora più spartano dei precedenti), Dylan (ritratto in bianco e nero in copertina, mentre guarda di sghimbescio con sguardo corrucciato e pensieroso) sciorina alcune delle sue canzoni di protesta più dure, ispirate alle antiche ballate popolari, meditate tra le righe di Allen Ginsberg, Walt Whitman e Arthur Rimbaud e qua e là condite con richiami biblici. Questi ultimi sono evidenti fin dall’iniziale title-track che, mentre cita il Libro di Qoelet e il Vangelo di Marco, chiama a raccolta un’intera generazione in vista di un radicale cambiamento, lo stesso che s’intravede sullo sfondo di “When The Ship Comes In”, musicata pensando a Bertold Brecht e alla sua “Lied der Seeräuber-Jenny”. Il tema della segregazione razziale e quello del razzismo in generale sono, invece, alla base, rispettivamente, di “Only a Pawn in their Game” e “The Lonesome Death of Hattie Carroll”. Su di un andamento ipnotico fa leva, dunque, “The Ballad of Hollis Brown”, che non fa molto, comunque, per giustificare i suoi oltre cinque minuti di durata. Gran parte del disco è avvolto da una luce plumbea, in cui le speranze riescono a malapena a farsi riconoscere o in cui, in maniera più o meno scoperta, si fa spazio la biografia dell’autore. Ascoltare “One Too Many Mornings”, “North Country Blues”, “Boots of Spanish Leather” o “Restless Farewell” significa, quindi, muoversi in una dimensione fatta di desolazione e nostalgia, ma anche di strisciante pessimismo e tenero abbandono. C’è solo un problema, però: anche qui, come in gran parte delle altre canzoni del disco, l’ispirazione non supporta sempre a dovere i desiderata dell’autore e questo diventa un limite fin troppo evidente soprattutto quando i brani si allungano oltremisura e, più che su vere e proprie melodie, fanno leva su una successione ipnotico-circolare di note e accordi. Insomma, con The Times They Are a-Changin’, Dylan incappò nel suo primo passo falso, ma la cosa non scalfì minimamente la sua ascesa nell’Olimpo dei folksinger, anche grazie al supporto della critica che aveva preso a seguire attentamente il movimento della folk-music in un periodo in cui, oltre ai dischi legati a quel genere, continuavano a moltiplicarsi anche le riviste ad esso dedicate (nel 1963, ne erano state pubblicate almeno una ventina).

La sbiadita ispirazione che guidava The Times They Are a-Changin’ era il segno di una stanchezza artistica ben più profonda: Dylan non ne poteva più di essere indicato come il folksinger leader dei diritti civili, non ne poteva più di limitare la sua immaginazione al ristretto recinto della canzone di protesta. Del resto, a leggere il testo di “Restless Farewell”, il brano conclusivo del disco, non mancavano indicazioni in tal senso:

Oh a false clock tries to tick out my time
To disgrace, distract, and bother me
And the dirt of gossip blows into my face
And the dust of rumors covers me
But if the arrow is straight
And the point is slick
It can pierce through dust no matter how thick
So I’ll make my stand
And remain as I am
And bid farewell and not give a damn

Oh, un orologio finto cerca di ticchettare il mio tempo
per infastidirmi, distrarmi, annoiarmi
e il fango del pettegolezzo mi colpisce in faccia
e la polvere delle chiacchere mi ricopre
ma se la freccia è diritta
e la punta acuminata
può attraversare la polvere più spessa
E quindi manterrò la mia posizione
e resterò quello che sono
e dirò addio senza che me ne importi nulla

Fu così che, dopo aver compiuto un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, accompagnato da alcuni amici, Dylan decise di dare una sterzata netta alla sua scrittura, concentrandosi su un immaginario che metteva insieme le sue letture preferite e il suo universo più intimo. Un peso non disprezzabile su questa inversione di rotta la ebbero i Beatles, il cui singolo “I Want to Hold Your Hand” egli aveva ascoltato per la prima volta proprio durante quel viaggio coast to coast. In quella melodia scintillante e sbarazzina, Dylan trovò un’insperata boccata d’aria fresca, oltre che un sentiero per risalire verso le sorgenti del rock’n’roll. Si trattò di un cambiamento di prospettiva che gli costò anche la rottura con Joan Baez, cantautrice sempre più attenta alle questioni sociali e politiche, laddove Dylan non aveva ormai altri interessi che la sua nuova scrittura, fatta di introspezione e simbolismo, e la sua nuova musica, in cui cominciavano a farsi largo, pur se molto timidamente, il pop e il rhythm and blues, cosa che, naturalmente, gli prospettò la necessità di servirsi anche di altri strumenti e, quindi, di altri musicisti.

Nel giro di una settimana, durante una vacanza in Grecia, Dylan scrisse tutte le canzoni del suo nuovo disco, intitolato, non a caso, Another Side Of Bob Dylan (agosto 1964). Lo apriva il folk-pop, in bilico tra romanticismo e ironia, di “All I Really Want to Do”, cui faceva seguito la saltellante “Black Crow Blues”, su cui compare anche un pianoforte, strumento con cui Dylan aveva per la prima volta deciso di cimentarsi. Due i brani fondamentali: la prima, “Chimes Of Freedom”, scritta durante il recente viaggio coast to coast, assomiglia a una cantilenante estasi poetica; la seconda, “My Back Pages”, rappresenta, invece, la più nitida istantanea della volontà dell’autore di emanciparsi dalla scena folk del Village, proclamando l’indipendenza della propria interiorità e del proprio sentire unico e irripetibile, che si traduce in immagini spesso molto ermetiche:

Crimson flames tied through my ears
Rollin’ high and mighty traps
Pounced with fire on flaming roads
Using ideas as my maps
“We’ll meet on edges, soon,” said I
Proud ‘neath heated brow.
Ah, but I was so much older then,
I’m younger than that now.

Fiamme cremisi incastrate nelle mie orecchie
che srotolano tranelli alti e possenti
si lanciano brucianti su strade fiammeggianti
usando idee come mie mappe
“Ci incontreremo presto sul margine,” dicevo
fiero sotto il ciglio ardente.
Ah, ma ero molto più vecchio allora,
sono più giovane di allora adesso.

Lasciandosi indietro metaforicamente il Village, in “Ballad In Plain D” (che con i suoi otto minuti di durata era, fino a quel momento, il suo brano più lungo in assoluto) Dylan si scrolla di dosso anche gli ultimi dolori causati dalla fine della sua storia d’amore con Suze Rotolo:

I once loved a girl, her skin it was bronze
With the innocence of a lamb, she was gentle like a fawn
I courted her proudly but now she is gone
Gone as the season she’s taken

Un tempo amavo una donna dalla pelle bronzea
con l’innocenza di un agnello, era docile come un cerbiatto
l’ho corteggiata con orgoglio ma ora se n’è andata
andata come la stagione che ha preso

Non era Dylan, quella che lei cercava, così come non era Dylan quello di cui aveva bisogno il movimento dei diritti civili. E, così, “It Ain’t Me Babe” potrebbe essere letta come l’ennesima lettera di addio al folksinger impegnato.

A completare il disco ci sono, quindi, la scherzosa e tutto sommato superflua “I Shall Be Free No. 10” (continuazione della “I Shall Be Free” apparsa su The Freewheelin’), il valzer sonnacchioso e messicano di “To Ramona” (probabilmente scritto all’epoca della relazione con la Baez), la parodia dell’universo hitchcockiano di “Motorpsycho Nitemare” e una “I Don’t’ Believe You” che potrebbe essere stata scritta, in qualche universo parallelo, dalla coppia Lennon-McCartney.

Nell’ottobre del 1964, intervistato da Nat Hentoff per il «New Yorker», così Dylan racconterà il passo innanzi che Another Side Of Bob Dylan aveva rappresentato nella sua avventura di cantautore:

«Non voglio più scrivere per la gente, capisci, essere un portavoce. D’ora in avanti, voglio scrivere cose che nascono dentro di me, e per farlo dovrò ricominciare a scrivere come facevo quando avevo dieci anni: tirare fuori tutto in modo spontaneo. (…) Non me ne frega nulla di quanto è bella una vecchia canzone o della sua tradizione. Devo ricavare una nuova canzone da ciò che conosco e da ciò che provo.»

Per la serie: una rottura netta. Ma il bello doveva ancora arrivare. Al Newport Folk Festival di quell’anno (dove accorsero oltre settantamila persone, segno che la folk-music era ormai il vero business del momento), Dylan presentò molte canzoni del suo ultimo disco, ricevendo una risposta positiva da parte del pubblico. Tuttavia, l’intellighèntsia del folk cominciava a mordere il freno, come confermerà, di lì a poco, un articolo di «Sing Out!», in cui il direttore Irwin Silber accusava Dylan di essere «da tutt’altra parte», di aver perso il «contatto con la gente» e di scrivere, ormai, canzoni «intimiste, autoanalitiche, impacciate». Dylan non battè ciglio e continuò a ripetere, in modo sempre più polemico e rabbioso, che la politica non faceva per lui, che non era possibile modificare lo status quo attraverso una canzone e via di questo passo. All’epoca, però, tutti quelli che lo andavano a vedere dal vivo si trovavano ancora di fronte un cantautore munito solo di voce, chitarra e armonica. Accadde ciò anche la notte di Halloween, quando Dylan suonò alla Philharmonic Hall di New York davanti a un pubblico piuttosto numeroso. In quell’occasione, però, almeno durante l’esecuzione di “If You Gotta Go, Go Now” qualcosa di nuovo raggiunse le orecchie degli spettatori più smaliziati: lo spirito del rock’n’roll. Il folksinger e il rocker stavano facendo evidentemente a cazzotti nel fondo della sua anima, ma avrebbero trovato l’intesa nel breve volgere di qualche mese. Poco più di due, per la precisione. Il 13 gennaio del 1965, infatti, Dylan si chiuse in uno degli studi della Columbia (da dove mancava, ormai, da circa sei mesi) e, supportato dal produttore Tom Wilson, iniziò a incidere nuove canzoni accompagnato da musicisti che suonavano strumenti elettrici, tra cui i chitarristi John Paul Hammond – proprio il figlio del talent scout che aveva fatto firmare a Dylan il suo primo contratto e, per inciso, da quest’ultimo molto apprezzato per il suo lavoro sul blues elettrico – Bruce Langhorne e il batterista Bobby Gregg, la cui duttilità si rivelerà fondamentale. Dylan, che non aveva ancora molta dimestichezza con la chitarra elettrica, continuò a suonare la sua Martin acustica, cercando di ottenere l’effetto “elettrico” con un uso più dinamico del plettro. In qualche caso, si sedette anche al pianoforte. Molti dei nuovi brani, li aveva scritti durante una fase in cui la marijuana aveva spesso sostituito il tabacco nelle sue sigarette e ciò lo spinse ad affrontare il foglio bianco in modo più istintivo, facendo leva su improvvisazioni verbali che tendevano a scardinare l’idea di purezza e di semplicità ancora venerata dai folksinger tradizionali. Ma a lui non interessava più «fare qualsiasi tentativo verso la perfezione», come annoterà, non senza una certa dose di sarcasmo, nelle note interne di Bringing It All Back Home, disco su cui gli appassionati poterono mettere le mani a partire dal 22 marzo del 1965.

All’inizio della sua carriera, Dylan si era già cimentato con la “musica elettrica”, registrando una propria versione di That’s All Right Mama, il brano che Elvis Presley aveva a sua volta preso in prestito da Arthur “Big Boy” Crudup per gettare le fondamenta del rockabilly. Ma si era trattato di un divertissement, tra l’altro mal digerito dai capoccia della Columbia, che spingevano affinché non si perdesse di mira il sentiero della musica folk, che all’epoca faceva sperare in guadagni sempre più cospicui. Nelle sette canzoni che andarono a formare la scaletta della prima facciata di Bringing It All Back Home, l’elettricità tornò a bussare alla sua porta del cuore, offrendogli lo spiraglio migliore per guardare al mondo che stava cambiando velocemente. Quel mondo aveva bisogno di un nuovo suono: il «suono della strada»4, il suono di una metropoli attraversata dagli echi di treni che si perdono all’orizzonte, dagli schiamazzi di ragazzi che si azzuffano ai bordi delle strade, dalle campane di piccole chiese che chiamano a raccolta i fedeli, dalle urla di gente disperata, dal rumoreggiare perenne del traffico e ancora e ancora… Il Dylan “metropolitano” è quello che compare sulla copertina del disco, in uno scatto vagamente distorto, allucinatorio: l’artista, seduto su di un divano e in abiti scuri, ci guarda con fare minaccioso, mentre accarezza un gatto persiano; alle sue spalle, semi-distesa sullo stesso divano, Sally Grossman (moglie del manager di Dylan, Albert Grossman), guarda fisso verso l’obiettivo, mentre indossa un vestito rosso e regge nella mano destra una sigaretta. Tutt’intorno, sono sparpagliate alcune riviste (sulla copertina di «Time» c’è la foto dell’allora presidente americano Lyndon B. Johnson) e dischi di Ravi Shankar (India’s Master Musician), Robert Johnson (King of the Delta Blues Singers), Impressions (Keep on Pushing), Lotte Lenya (Sings Berlin Theatre Songs by Kurt Weill) e di Eric Von Schmidt (The Folk Blues of Eric Von Schmidt). Niente più e niente meno che l’istantanea di un cantautore dai gusti eclettici e vagamente hipster5, ormai profondamente convinto che la società si può anche criticare aspramente, ma non si può certo pretendere di cambiarla. Meglio gettare uno sguardo nella propria psiche, provando, dunque, a bagnarne i frutti poetici nelle acque elettriche del rock.

Del resto, già la scelta del titolo Bringing It All Back Home doveva sgombrare il campo dagli ultimi dubbi. Lo si può tradurre con «riportare tutto a casa», ma anche con qualcosa tipo «mostrare agli altri chi è il padrone». E il padrone era l’America, ma quella che aveva le proprie fondamenta tra i solchi vinilici di Elvis e Chuck Berry, di Jerry Lee Lewis e Bo Diddley, di Buddy Holly ed Eddie Cochran, per tacere di tanti altri. Perché il rock’n’roll, così come il suo figlio prediletto, il rock, erano nati proprio lì dove sventola la bandiera a stelle e strisce e non in quell’Inghilterra da cui, appena un anno prima, erano partiti i Beatles e tutta quella marea di band che avevano invaso il mercato discografico americano. Ed eccolo, allora, il rock’n’roll agitarsi tra le pieghe di “Subterranean Homesick Blues”, il brano che inaugura il nuovo corso dylaniano. Con tono beffardo e sprezzante, il cantautore spara le parole a raffica, agitando nel sottoscala una densa fusione di poesia beat e riferimenti alla controcultura. Stessa chiassosa energia possiedono anche “Maggie’s Farm” (che procede barcollando tra guizzi blues e nuove dichiarazioni d’indipendenza dal carrozzone della musica folk e dalla sua smania per le canzoni di protesta) e il martellante e febbrile “Outlaw Blues”, sulle tracce di due fuorilegge ottocenteschi (Robert Newton Ford e Jesse James). Leggermente più contenute sono, invece, le dissertazioni di “On The Road Again” (che contrappone ancora il “nuovo” Dylan a una società sull’orlo del collasso) e “Bob Dylan’s 115th Dream”, ennessimo flusso di coscienza sospeso tra paranoia, surrealismo e reminiscenze di Moby Dick, il romanzo capolavoro di Herman Melville. Le due ballate “She Belongs To Me” e “Love Minus Zero / No Limit” mostrano, invece, che l’elettrificazione del corpo folk può anche fare a meno delle maniere forti, nel primo caso prendendo come soggetto una non meglio identificata musa (anche se certi riferimenti – come, ad esempio, quello all’«anello egiziano» – fanno pensare a Joan Baez), nel secondo affidandosi, invece, a una dichiarazione d’amore per una donna, con la consapevolezza, però, che solo accettando il fallimento è possibile ritrovare la strada che conduce alla salvezza.

La facciata acustica è aperta da “Mr. Tambourine Man”, brano che Dylan aveva registrato nel giugno del 1964, pensando di aggiungerla alla scaletta di Another Side Of Bob Dylan, salvo poi desistere perché quella prima versione non lo convinceva pienamente. Questa sognante ed epica ballata è uno dei momenti decisivi del Dylan acustico, qui alle prese con una melodia che resta perennemente presso se stessa, pur continuando a fluttuare incantata, così com’è incantato il tono di quella voce che, nel rivolgersi al «signor Tamburino» (il nome che, nello slang newyorkese, indicava lo spacciatore di droga), chiama evidentemente in causa la propria psiche alterata dalla marijuana. Una psiche i cui meandri egli invita, tra le righe, a percorrere:

Hey! Mr. Tambourine Man,
play a song for me,
In the jingle jangle morning
I’ll come followin’ you.

Hey, signor Tamburino,
suonami una canzone
Nel mattino tintinnante
ti seguirò

Il brano diventerà famosissimo soprattutto grazie alla versione che i Byrds incideranno nel 1965.

Una «sacrilega filastrocca in Re minore», così come egli stesso ebbe a definirla, è invece “Gates Of Eden”, che rinvia a un paradiso ultraterreno il godimento di una felicità che, qui sulla Terra, è impossibile rintracciare. Nei suoi sette minuti e mezzo di durata, “It’s Allright Ma (I’m Only Bleeding)” ci restituisce un Dylan alle prese con un recitativo drammatico e rabbioso, il cui obiettivo è il mondo moderno nella sua complessità: un mondo dominato dell’omologazione a tutti i costi. Forse, come suggerisce la carezzevole “It’s All Over Now, Baby Blue”, ennesimo incrocio di poesia simbolista e grazia folk, non resta che rassegnarsi ai misteriosi presagi di una fine incombente.

Sesto nelle classifiche americane e addirittura primo in quelle inglesi, Bringing It All Back Home trasformò Dylan in una vera star. Ad aprile, il nostro volò in Inghilterra per un breve tour, seguito dalla Baez e dal regista D.A. Pennebaker, che realizzerà il documentario Don’t Look Back (distribuito nelle sale solo a partire dal 1967). Privo di una band di supporto, in terra inglese Dylan si esibì in solitaria. Ma la noia e la rabbia presero a montargli dentro: non ne poteva più di stare a metà del guado e spesso scaricava le sue frustrazioni sulla povera Baez, andando a deteriorare un rapporto già molto instabile che, non a caso, si sarebbe interrotto di lì a poco. Il pubblico e la critica di Sua Maestà, intanto, continuavano a osannarlo senza mezzi termini, anche se i brani che più accendevano le loro passioni restavano pur sempre “Blowin’ In The Wind” e “The Times They Are a-Changin’”. Tornato in patria, Dylan esplose scrivendo “Like A Rolling Stone”, un «lungo getto di vomito» (sono parole sue) che mandò in rotta di collisione la potenza “elettrica” del rock con la coscienza sociale e il valore letterario del folk, assicurando alla prima una consapevolezza che ancora stentava a rintracciare, e ai secondi un impatto enorme sul pubblico giovanile. Registrata tra il 15 e il 16 giugno del 1965, “Like A Rolling Stone” è introdotta da un colpo secco di rullante, a spalancare uno scenario esultante e arioso, in cui la chitarra di Mike Bloomfield e l’organo di Al Kooper (che mai prima di allora aveva suonato quello strumento, lui che si era presentato in studio sperando di poter suonare la chitarra…) s’intrecciano in spirali dense, cromatiche, ma nel senso dei colori che sembrano sprigionarsi dinanzi alla nostra mente. Dylan prorompe, quindi, con tono sprezzante, raccontandoci la storia di una certa Miss Lonely («Signorina Solitaria» ), ragazza di buona famiglia finita sulla strada per colpa della droga. Ma è proprio grazie a questa sua nuova condizione che ella può sperare di risollevarsi. Insomma, come accadeva in “Love Minus Zero / No Limit”, anche qui il fallimento rappresenta la strada maestra per la salvezza. Miss Lonely può essere letto come il simbolo di un’America alla deriva, ma non si sbaglia a vedere in essa anche una maschera dello stesso Dylan, che dopo il tour inglese addirittura meditava di lasciare la musica, stanco di non riuscire a venire a patti con i suoi demoni. Al pari di Miss Lonely, anche Dylan si sente come una «pietra che rotola», ma esserlo significa non ricoprirsi di muschio (come dice il proverbio), significa non farsi irretire dalla banalità e dall’omologazione, ma pretendere, invece, di essere a tutti i costi se stessi. Il brano fu immediatamente pubblicato come singolo, nonostante i suoi sei minuti di durata (e anche questo fu un evento!). Mancava solo un ultimo tassello per sancire la rivoluzionaria «svolta elettrica»: Dylan aveva bisogno di mostrarsi in pubblico armato di chitarra elettrica per dare vita all’oltraggio definitivo.

La data fatidica è il 25 luglio 1965; il luogo, il Newport Folk Festival. Fu proprio dentro la tana del “nemico” che Dylan consumò la propria vendetta. Per tutto il giorno, la pioggia aveva sferzato musicisti e pubblico. Poi, verso sera, il cielo si schiarì e Dylan, imbracciando una chitarra elettrica Fender Stratocaster sunburst, salì sul palco accompagnato da Mike Bloomfield alla chitarra, Al Kooper all’organo, Barry Goldberg al pianoforte e altri due musicisti provenienti dalla Paul Butterfield Blues Band, in cui militava lo stesso Bloomfield: Sam Lay alla batteria e Jerome Arnold al basso. Davanti a circa quindicimila persone, la band attaccò con “Maggie’s Farm”, cui seguirono “Like A Rolling Stone” e un’ancora inedita “It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry”. Molti spettatori, allibiti e sempre più ostili, presero a fischiare, mentre nel backstage i santoni del folk Alan Lomax e Pete Seeger mostravano crescenti segni di inquietudine. A un certo punto, per mettere fine a quello scempio, Seeger pensò addirittura di tagliare i cavi della corrente con un’ascia! Dopo aver lasciato il palco, a quanto pare in lacrime, Dylan vi tornò eseguendo due brani acustici: “Mr. Tambourine Man” e “It’s All Over Now, Baby Blue”. Il pubblico impazzì di felicità, ma Dylan, nonostante quello che poteva sembrare un mezzo pentimento, era ormai davvero «da tutt’altra parte». Quattro giorni dopo, era comunque di nuovo in studio, ma con un nuovo produttore, Bob Johnston (non si sa con precisione se a far fuori Tom Wilson sia stato Dylan o qualche pezzo grosso della Columbia). Johnston era più paziente di Wilson e lasciò che l’artista si prendesse tutto il suo tempo per venire a patti con la sua opera. Uno dei brani registrati durante quelle session è “Positively 4th Street”, un accattivante folk-pop che conteneva la più spietata invettiva che Dylan avesse mai indirizzato alla comunità del Greenwich Village. La West 4th Street era la strada dove egli aveva abitato per qualche tempo e dove aveva conosciuto la Baez. Ma era anche quella in cui si trovava il Gerde’s, il locale dove aveva fatto il suo vero debutto.

Prima del 4 agosto, ultimo giorno di registrazioni, vennero quindi messi a punto i brani destinati ad Highway 61 Revisited (30 agosto 1965), uno dei dischi più importanti della storia del rock. Lo apre proprio “Like A Rolling Stone”, cui segue lo scampanellare pestato di “Tombstone Blues”, altro torrente in piena di immagini surreali che sembrano dirci che ci si può solo aggrappare alla «geometria dell’innocenza» («the geometry of innonce») quando il mondo brulica di «conoscenza inutile e senza scopo» («useless and pointless knowledge»). Guidata dal piano barrelhouse di Paul Griffin, “It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry” pone un argine alla foga dei primi due brani, prima che “From A Buick 6” torni a sferzare e “Ballad Of A Thin Man” eriga una lenta e solenne marcia di condanna nei confronti di un certo «Mr. Jones» che i ben informati dicono essere quel Jeffrey Jones che, in veste di giornalista, cercò di intervistare Dylan il giorno prima del suo grande “tradimento” al Newport Folk Festival del 1965. Incalzato da domande che ruotavano ancora sul futuro del folk, Dylan s’irrigidì e perse la pazienza. Jones non si rendeva conto che qualcosa di nuovo stava accadendo e non aveva nemmeno gli strumenti per capire cosa fosse esattamente:

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?

Alla morbida ballata di “Queen Jane Approximately”, ancora dominata da chitarra e organo, fa seguito la title-track, che riprende a macinare note e parole idealmente conducendoci lungo la Highway 61, l’autostrada che, partendo da Hurley, nel Wisconsin, attraversa anche Duluth, città natale di Dylan, per spingersi fino a New Orleans, patria del blues. La «rivisitazione» di quella che è conosciuta anche come la «Highway Blues» conduce dritto al cuore di quel «suono della strada» di cui abbiamo già parlato a proposito di Bringing It All Back Home. In questo viaggio alle radici della musica americana, però, la strada smette di essere, come aveva insegnato anche Jack Kerouac, il simbolo della libertà, diventando, invece, uno scenario lungo cui si consumano tragedie e crimini, il tutto restituitoci attraverso citazioni bibliche e inserti sonori di «police car», nome in codice di una sirena di polizia che Al Kooper aveva portato in studio per soddisfare il desiderio di Dylan di dare al brano quella sfumatura che, a suo dire, ancora gli mancava. Nei pressi del Messico, s’incrociano, invece gli scenari assolati e desolati di “Just Like Tom Thumb’s Blues”. Nei suoi versi, puttane, alcol e droga mettono a dura prova la stabilità emotiva del protagonista, cui, comunque, non manca mai quel gusto per l’ironia che riesce a mantenerlo sempre a galla, consentendogli alfine di ritornare sano e salvo nella sua New York. Il brano che chiude il disco, “Desolation Row”, dura oltre undici minuti ed è uno dei capolavori assoluti di Dylan. Col tono suadente, il cantautore mette in scena una maestosa comédie humaine, accompagnandoci lungo questa «via della desolazione» popolata da personaggi famosi, siano essi reali o meno (Cenerentola, Caino, Abele, Einstein, Bette Davis, lo shakespeariano Romeo,il gobbo di Notre Dame, Ezra Pound, T. S. Eliot, etc.).

Alla sua uscita, Highway 61 Revisited fu accolto con favore sia dal pubblico che dalla critica. Raggiunse il terzo posto nella classifica americana (il migliore risultato per un suo disco, fino a quel momento) e il quarto in quella inglese. Le reazioni della comunità folk furono, invece, durissime e spesso anche molto sprezzanti, ma Dylan non mancò di rispondere a tono, lanciando i suoi strali un po’ su tutti, da Joan Baez a Tom Paxton, da Richard Fariña a Phil Ochs. Nel frattempo, per il tour che lo attendeva a partire dall’autunno del 1965 (e che, per la prima volta, lo avrebbe portato in giro per il mondo), Dylan aveva reclutato nuovi musicisti. Appartenevano a una band canadese, gli Hawks, e avevano passato gli ultimi anni ad accompagnare un rocker locale, Ronnie Hawkins. Composta da Robbie Robertson (chitarra), Rick Danko (basso), Levon Helm (batteria) e dai tastieristi Garth Hudson e Richard Manuel, la formazione degli Hawks (che nel giro di un annetto circa tutti avrebbero apprezzato con il nome di The Band) rappresentò per Dylan la ciliegina sulla torta, consentendogli di portare a definitiva maturazione le proprie visioni musicali. A fine novembre, lo attendeva intanto il matrimonio con Sara Lownds. Geloso della sua vita privata, Dylan fece in modo che la notizia non trapelasse in alcun modo, tanto che anche i suoi genitori appresero della cosa solo dopo qualche mese. Quando il tour ripartì, Dylan e la sua nuova band continuarono a sperimentare, sera dopo sera, l’ostilità di gran parte del pubblico. Solo la prima parte dei concerti, quella acustica, con Dylan da solo in scena, era avvolta da un silenzio solenne. Quando, però, insieme agli Hawks attaccava con il materiale elettrico, le contestazioni montavano improvvise, spesso trasformandosi in veri e propri scontri verbali tra quelli che avevano imparato ad apprezzare anche il nuovo corso del loro idolo e quelli che, invece, restavano su posizioni di feroce ortodossia folk. A un certo punto, stressato da questa situazione, il batterista Levon Helm si tirò fuori, sostituito da Mickey Jones. Il momento più epico di quel tour si materializzò in terra inglese il 17 maggio del 1966, alla Free Trade Hall di Manchester. Il concerto era quasi finito e la band stava per attaccare con “Like A Rolling Stone”, quando una voce dalla platea si rivolse verso Dylan con un emblematico: «Giuda!». Il rumoreggiare della folla fu attraversato dalla risposta di Dylan, che prima sibilò «Non ti credo» e, quindi, attaccò con un «Sei un bugiardo!», salvo poi chiedere alla band di suonare «fottutamente FORTE!». La “Like A Rolling Stone” che ne scaturì (come si può ascoltare in The Bootleg Series Vol. 4: Bob Dylan Live 1966, The “Royal Albert Hall” Concert) sintetizzò, con la sua potenza catartica, tutte le paranoie e le esaltazioni di quell’irripetibile fase artistica, gridando forte e chiaro che l’elettrificazione “rock” era l’unico modo per salvare il folk da una lunga e sterile agonia.

Durante quel tour inglese, Dylan, che da qualche tempo assumeva anfetamine e fumava marijuana a ritmi insostenibili, facendo temere per la propria salute fisica (aveva ormai un aspetto scheletrico e un colorito non proprio rassicurante…) ma anche per quella mentale (non di rado si aggirava nel backstage farneticando a ruota libera, oppure scambiando i suoi musicisti per roadie), sperimentò la sua personale saison en enfer. Non avrebbe potuto reggere ancora per molto, ma intanto la consapevolezza di aver innescato una rivoluzione sembrava esaltarlo oltremisura. All’epoca del concerto di Manchester, il suo nuovo disco era già stato riversato su vinile. Si trattava, questa volta, di un doppio (il primo in assoluto della storia del rock, di poco in anticipo su Freak Out! delle Mothers Of Invention guidate dal genio dirompente di Frank Zappa) e il suo titolo era Blonde On Blonde. Per venirne a capo, Dylan (che negli studi di New York era riuscito a realizzare versioni quasi definitive di soli due brani: One of Us Must Know (Sooner or Later) e Leopard-Skin Pill-Box Hat) aveva seguito il consiglio del produttore Bob Johnston, spostandosi a Nashville, patria della musica country & western. Nella capitale del Tennessee, le sue nuove canzoni andarono in gloria grazie all’apporto di alcuni musicisti del posto, che si accodarono a Robbie Robertson (unico membro superstite degli Hawks che Dylan aveva scelto di portare con sé per quelle session) e ad Al Kooper. In tre giorni, la musica si riempì di vibrazioni e di sfumature inedite, raggiungendo il giusto equilibrio tra ricerca letteraria, folk-rock e blues-rock elettrico, pop e le prime avvisaglie di quella che, di lì a poco, sarebbe stata definita musica psichedelica.

Da un punto di vista storico, Blonde On Blonde ha probabilmente un’importanza minore rispetto a Highway 61 Revisited che, insieme al precedente Bringing It All Back Home, aveva già dato uno scossone fortissimo alla popular music con le sue offensive a base di elettrico vigore e poetico trasporto. Eppure, fu solo grazie a quel doppio che Dylan riuscì a imbrigliare, una volta e per sempre, quel «thin, wild mercury sound», ma anche «metallic and bright gold», quel «suono sottile, selvatico e mercuriale», «metallico e lucente» che gli ronzava in testa fin da quando era approdato a New York in una freddissima giornata invernale. Uscito nel maggio del 1966, Blonde On Blonde è il primo disco con cui, senza alcun timore, la popular music (che poi avremmo imparato a distinguere in rock, pop, etc.) poteva avanzare le proprie pretese artistiche, respingendo gli attacchi di quanti credevano di vedere in essa soltanto una banale scarica di adrenalina sonora che faceva da sfondo a testi in cui l’esperienza umana era, nella maggior parte dei casi, ridotta a una successioni di frasi ad effetto, quando non del tutto stantie. Blonde On Blonde e, giusto qualche settimana dopo Freak Out!, chiarirono che quella musica era la voce più potente di un’intera generazione: la voce delle sue speranze e dei suoi sogni, ma anche delle sue paure e delle sue angosce. Il disco era stato anticipato dal singolo “Rainy Day Women ♯12 & 35”, un blues rifatto dall’Esercito della Salvezza che, tra goliardici sbuffi di strumenti a fiato, nasconde un ambiguo invito allo sballo (il verso «Everybody must get stoned» può significare, infatti, sia «tutti devono essere lapidati», sia «tutti devono sballarsi»). Per aumentare il senso di anarchica baldoria, i musicisti si scambiarono gli strumenti o li suonarono imbracciandoli in modo inusuale. “Rainy Day Women ♯12 & 35” è anche il brano d’apertura di Blonde On Blonde, il cui mosaico è arricchito dal robusto e ciondolante blues di “Pledging My Time”, dai ricami chitarristici e dalle spirali di organo che preparano le vampate esultanti del ritornello di “One Of Us Must Know (Sooner Or Later)”, dalla caracollante “Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again” (altra allucinazione poetica che mescola autobiografia, riferimenti biblici e intertesti letterari), dall’andamento guascone di “Leopard-Skin Pill-Box Hat” e da quello sornione di “Temporary Like Achilles”, un mix, quest’ultimo, di folk, rock e blues cucinato a New Orleans, città in cui anche il jazz aveva mosso i suoi primi passi. Si ascoltano, quindi, una “Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine” dall’afflato bandistico e il ruvido blues-rock  di “Obviously 5 Believers”, cui può andare tranquillamente la palma di brano meno interessante di Blonde On Blonde.

Le vette del disco rispondono al nome di “Visions Of Johanna” (ballata folk che assomiglia a un incanto), “I Want You” (che insegna due o tre cose su come scrivere una canzone d’amore che sappia essere insieme romantica e briosa), “Just Like A Woman” (ballata folk che canta la disillusione innescata da una delusione d’amore), “Absolutely Sweet Marie” (giubilante cavalcata in up tempo con l’orecchio rivolto al rhythm and blues), “4th Time Around” (un brano che, strizzando l’occhio ai Beatles di “Norwegian Wood”, trasforma una querelle tra amanti in un valzer incastonato tra le stelle) e, per finire, “Sad Eyed Lady of the Lowlands”. Quest’ultima (che, con i suoi undici minuti e rotti di durata, occupava da sola l’intera quarta facciata del doppio vinile – un altro primato per un disco di Dylan) è un’estatica ode all’incanto che la donna genera nell’animo dell’uomo-poeta. Dedicata alla moglie Sara Lownds e distesa in un’avvolgente e celestiale processione di «religious carnival music» (secondo la definizione dello stesso Dylan), la canzone della «Signora Delle Pianure Dagli Occhi Tristi» è una vertigine poetica di celestiale intensità.

With your mercury mouth in the missionary times
and your eyes like smoke and your prayers like rhymes
and your silver cross, and your voice like chimes
Oh, who among them do they think could bury you?
With your pockets well protected at last
and your streetcar visions which you place on the grass
and your flesh like silk, and your face like glass
Who could they get to carry you?

Sad-eyed lady of the lowlands
Where the sad-eyed prophet says that no man comes
My warehouse eyes, my Arabian drums
Should I leave them by your gate
Or, sad-eyed lady, should I wait?

Con la tua bocca di mercurio nei momenti di carità
e i tuoi occhi come fumo e le tue preghiere come rime
la tua croce d’argento e la tua voce come rintocchi
Chi tra di loro pensa che potrebbe seppellirti?
Con le tue tasche tutto sommato ben protette
e le tue fantasie di tram sull’erba
e la tua carne come seta e il tuo volto come vetro
Chi tra di loro pensa di portarti trascinare?

Signora delle pianure dagli occhi tristi
dove il profeta dagli occhi tristi dice che nessuno può arrivare
i miei occhi da magazzino, i miei tamburi arabi
devo lasciarli davanti al tuo cancello
oppure, Signora dagli occhi tristi, devo aspettare?

Quando Blonde On Blonde fu pubblicato, raggiungendo la nona posizione nella classifica americana e la terza in quella inglese, Dylan era ancora in tour in Inghilterra, dove i suoi demoni lo avevano ormai quasi ridotto in condizioni pietose. Per fortuna, all’inizio di giugno, dopo essere tornato negli Stati Uniti, riuscì a fare mente locale su quanto gli stava succedendo e pensò bene di dedicarsi per un po’ di tempo alla famiglia, nell’attesa di iniziare il tour con gli Hawks che Albert Grossman aveva già pianificato. Il caso volle, però, che tutto restasse lettera morta: il 29 luglio successivo, infatti, Dylan ebbe un incidente con la sua moto e tutto fu annullato. C’è chi dice che si trattò di una messinscena voluta dallo stesso cantautore, ormai stufo di continuare a vivere in quel modo così dissennato. Chissà, potrebbe anche essere vero. Resta il fatto, però, che per un anno e mezzo colui che aveva contribuito pesantemente ad avviare la stagione più matura della musica rock se ne restò chiuso nella sua casa di Woodstock, aspettando che i semi che aveva piantato prendessero a dare frutti maturi e saporiti.

Note:

  1. Il vagabondo classico americano, che il più delle volte utilizzava i treni merci per spostarsi da un posto all’altro.
  2. Con il termine «hillbilly» s’intende, di solito in senso dispregiativo, un abitante delle regioni rurali degli Appalachi del Sud. Il termine potrebbe essere tradotto in italiano con “buzzurro”, “montanaro”, “cafone”.
  3. Allen Ginsberg, citato in Liborio Conca, Rock Lit, Jimenez Edizioni, 2018, pag. 161
  4. Barry Miles, Bob Dylan: In his own words, Quick Fox, 1978 – citato in David Hajdu, Positively 4th Street. Come quattro ragazzi hanno cambiato la musica, Arcana, 2004, pag. 258
  5. Negli Stati Uniti, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del sec. XX, appassionato di jazz, specialmente di bebop, insofferente del conformismo sociale e dedito a uno stile di vita fondato sulla libertà delle scelte e sulla riscoperta dell’interiorità individuale (Wikipedia)
Discografia Consigliata

The Freewheelin’ Bob Dylan (1963)
Another Side of Bob Dylan (1964)
Bringing It All Back Home (1965)
Highway 61 Revisited (1965)
Blonde on Blonde (1966)

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