La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana
Intro

Tra i libri musicali più stimolanti usciti negli ultimi mesi va sicuramente annoverato La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana, edito da Jaca Book e scritto dal filosofo Marco Maurizi, da sempre grande appassionato di musica. Ma di cosa parla esattamente il libro? Scopritelo leggendo l’intervista che ci ha concesso l’autore.

Francesco Nunziata

Marco, per cominciare vuoi dirci cosa ti ha spinto a scrivere La vendetta di Dioniso?

Marco Maurizi

L’amore per la musica e per la filosofia hanno sempre convissuto in me, anche se non avevo mai avuto l’occasione di pubblicare le mie riflessioni in merito in modo sistematico. Mi è sempre parso, però, che al mio lavoro di ricerca filosofico mancasse questo aspetto che, come si evince dal libro, non è affatto marginale o accessorio: quando parlo di logos musicale lo faccio con cognizione di causa e in senso letterale, non metaforico (o, se vogliamo, in un senso che ci costringe a ripensare la distinzione stessa tra metaforico e non-metaforico all’interno del logos filosofico). L’occasione più diretta è invece dovuta al fatto che oggi va molto di moda pubblicare “filosofie di…” e anche in campo musicale si registra una tendenza, non solo in Italia, ad avvicinare questi due campi. Ho sentito che era giusto dire anche la mia, soprattutto perché alcuni di questi tentativi non mi convincono affatto.

Francesco Nunziata

Come scrivi nelle prime pagine del libro, la musica postmoderna è infinitamente più vitale, seria e, soprattutto, vera della sua controparte filosofica. Vuoi spiegarci perché, chiarendo, per chi magari non lo sapesse, cosa s’intende con il concetto di “postmoderno”?

Marco Maurizi

Il concetto di “postmoderno”, come molte categorie generali della letteratura critica, è assai ambiguo e rischia di non dire niente. Io ho cercato di attenermi da un lato a una definizione molto generale, dall’altro di dargli una curvatura specifica. Dal punto di vista generale, si parla di “postmoderno” per tutte le tendenze della filosofia, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere che cercano di “superare” o “lasciarsi alle spalle” il “moderno” in modo critico o polemico. Soprattutto negli anni ’80, dopo la fine del grande impegno politico dei decenni precedenti, si è diffusa una sorta di postura intellettuale che predicava l’abbandono di concetti enfatici come quelli di verità, di soggetto, di totalità, di progresso, di linearità ecc., in letteratura e in arte si è preteso abolire la distinzione tra alto e basso, tra autore e fruitore, valutando come positivi la commistione di generi, il ricorso all’ironia ecc. Questo è quello che chiamo il “postmoderno filosofico”. Penso ci siano buone ragioni, e nel libro ne indico alcune, per dire che questa è stata piuttosto un’impostura intellettuale che ha banalizzato il modernismo e spacciato un’ideologia per un preteso superamento delle ideologie. La cosa interessante, e qui vengo al senso specifico dell’espressione “postmoderno”, è che in musica non c’è stata una piena sintonia con questa ondata ideologica. Per diverse ragioni di cui parlo nel testo, “postmoderno filosofico” e “postmoderno musicale” non sono sincronici. C’è stata, sicuramente, una stagione in cui il modernismo musicale (Schönberg, Cage, il serialismo ecc.) è stato criticato usando le categorie del “postmoderno filosofico” ma si tratta della stagione (quella del minimalismo, della nuova semplicità, di una musica “colta” sospesa tra l’algida ripetizione e un neo-sentimentalismo populista ecc.) che considero meno interessante e più ideologica. A guardar bene è nella musica rock e pop del periodo eroico (anni ’60-’70) che si sono sviluppati, in anticipo su queste tendenze degli anni ’80, dei veri capolavori di rottura in cui la distinzione alto/basso, la critica del soggetto, la commistione di generi ecc. è stata messa in pratica in modo vitale, energico, graffiante, sarcastico, sfidando le convenzioni, coinvolgendo il pubblico in una ricerca dell’inaudito che mi sembra stare sotto il segno del Dioniso nicciano. È la vendetta di questo Dioniso con la chitarra, contro il postmoderno musicale accademico che celebro nel libro.

Francesco Nunziata

Uno dei musicisti su cui più concentri l’attenzione è Frank Zappa, che è anche uno dei tuoi eroi musicali. Quale il suo più grande merito? Che cosa ha ancora da insegnare, alle giovani generazioni di musicisti, il buon vecchio Frank – a tuo avviso, autore, con Lumpy Gravy (1968), della “prima opera compiuta di musica postmoderna”?

Marco Maurizi

Frank Zappa è proprio la migliore rappresentazione di questo Dioniso danzante, grazie a cui ogni norma è sovvertita, ma in cui l’energia e la potenza non sacrificano l’intelligenza, la profondità e lo humour. Zappa potrebbe insegnare ancora molto ai musicisti di oggi. Anzitutto a non farsi ingabbiare da mode che sacrificano il discorso musicale a qualche effetto estetico di superficie: la musica ha bisogno di costruzione, serietà, di non farsi irrigidire in formule riproducibili. La grandezza di Zappa è nel dire “non c’è niente di puro in me”, la sua passione per l’alterità, per il difforme e il deforme, perfino per il mostruoso va di pari passo con una capacità di assimilazione della cultura in tutte le sue espressioni (mi ricorda la citazione preferita di Marx: omo sum, humani nihil a me alienum puto) ma, al tempo stesso, è stato in grado di mettere a sistema questo materiale, approfondirne le faglie, lavorare sui dettagli, producendo un’opera di una complessità incredibile, di una tessitura interna rigorosa e avvincente. Dall’altro lato, Zappa è il maestro della gag spiazzante, del gesto anarcoide e popolare, impedisce al godimento di installarsi e perpetuarsi nella zona della ripetizione identitaria, il suo materialismo al tempo stesso cosmico e popolaresco, cerebrale e sgangherato, impedisce perfino l’autocelebrazione, il delirio di onnipotenza. E su questo, forse, molti musicisti oggi – tanto più quanto hanno pretese “artistiche”, pretese di uscire dal mainstream ed elargire cultura alle masse – avrebbero da imparare. Il gioco di Zappa è rigoroso e serissimo perché non prende nulla sul serio, anche sé stesso. Corregge l’idealismo pretenzioso dell’artista impegnato con l’osservazione beffarda: We’re Only in It for the Money.

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Francesco Nunziata

Una volta, Zappa disse che “i critici musicali sono persone che non sanno scrivere, che intervistano persone che non sanno parlare, per un pubblico che non sa leggere”. È una boutade oppure a tuo avviso c’è del vero?

Marco Maurizi

C’era e c’è purtroppo molto di vero. Ricordiamo che Zappa non viene solo dai bassifondi dell’altra America, ed è uno che si è fatto una cultura da solo, in modo autonomo e sicuramente idiosincratico, nella migliore tradizione dei pionieri culturali americani ha saputo assimilare e reinventare il meglio della cultura europea con un senso di libertà e di apertura incredibili. Dunque, quella citazione non va intesa in senso snob ed elitario, il punto per Zappa è la serietà e l’impegno in quello che si fa. E Zappa è stato molto critico con la (sotto)cultura rock dei suoi tempi da una posizione progressiva, potremmo dire criticandola da sinistra. Il problema della cultura hippie, prima (Flower Punk), e del punk successivamente (Tinseltown Rebellion), era la pretesa di cambiare il mondo attraverso uno “stile”, una “moda”. Zappa bacchetta la faciloneria di musicisti che credono a un’ideologia fabbricata per loro dall’industria culturale e di un pubblico che si identifica con queste parole d’ordine. E, come si vede, si tratta di fenomeni ciclici, cambiano le mode, le parole d’ordine, ma la struttura fondamentalmente oppressiva di questo sistema culturale rimane intatto. La lucidità di Zappa è stata proverbiale. Facilmente lo si è accusato di disfattismo, di voler fare il bastian-contrario ecc. ma Zappa aveva capito che questa sovrastruttura che è l’industria culturale è uno degli strumenti con cui si impedisce alla musica di essere absolutely free. Perfino, e anzi soprattutto, dove predica la libertà, essa è il nemico giurato della libertà, un sistema di indottrinamento che produce una musica integralmente pervasa dalla forma di merce. Il che non ha nulla a che vedere con i lamenti moralistici contro la musica “commerciale” (Zappa mise su una piccola industria musicale di cui era il boss indiscusso). Nel libro mostro come anche l’ideologia di una musica “alternativa” al mainstream possa costituire un blocco identitario alla libertà.

Francesco Nunziata

In effetti, molte delle musiche cosiddette “ribelli”, a conti fatti, sono tutt’altro che “libere” o “rivoluzionarie”. Troppo spesso ci si affida a una superficiale volontà di ribaltare lo status quo, dimenticandosi che quello che conta è la sintesi di forma e contenuto e non la mera veicolazione di un’estetica fine a se stessa. Ma andiamo avanti.

Qual è, se c’è, il fil rouge che lega l’esperienza musicale del Novecento da Schönberg ai Nirvana?

Marco Maurizi

Sarei tentato di dire, banalmente, che non c’è, nel senso che, piuttosto, ci sono molti fili nascosti, molte tendenze di lungo periodo, molti processi di ampio respiro al di sotto dell’apparente caos della musica contemporanea. Io ho cercato di evidenziare quelli che per me sono più importanti. Per fare questo ho dovuto necessariamente operare dei tagli e delle sintesi, il prezzo che si deve pagare per vedere come unitario ciò che si mostra in una disperante molteplicità. D’altronde, se parliamo di musica, e non solo di musiche, al plurale, parliamo di qualcosa che aspira a essere visto nella sua totalità e come fenomeno unitario. Il libro cerca in qualche modo di rispondere alla domanda: in che senso parliamo di musica del ‘900? Cosa tiene insieme, composizione, improvvisazione, grandi strutture e canzonette? Cosa lega arte e intrattenimento, avanguardia e ballo, sentimentalismo e iper-razionalismo? Mi sono così concentrato, da un lato, sui contrasti dell’esperienza musicale, cercando di mostrarne la logica di fondo e, in alcuni casi, la natura dialettica, facendo vedere come alcuni fenomeni musicali si illuminino a vicenda quando vengono contrapposti tra loro, sottratti all’isolamento cui li condanna il senso comune (questo il senso, per es., di mettere nella stessa frase Schönberg e i Nirvana). Dall’altro lato, mi sono concentrato soprattutto sul periodo del dopoguerra perché lì alcuni di questi processi nascosti emergono in superficie e si fanno espliciti, perché lì appare per la prima volta anche un tentativo di superamento di quelle distinzioni: tentativi non sempre riusciti, per altro, ma in cui l’esperienza della musica assurge a fenomeno universale, unitario, al di là dei generi. O, almeno, ci prova. È il caso per me paradigmatico del rock come “musica totale”.

Francesco Nunziata

Anche se prendi in esame un artista come John Zorn, la cui esperienza musicale (non propriamente di matrice rock) dura tuttora, la tua narrazione si spinge fino agli inizi degli anni Novanta, arrestandosi con l’analisi della musica dei Nirvana e citando solo marginalmente fenomeni come il post-rock e il math-rock. Perché questa scelta? Forse perché, come sostiene qualcuno, la musica rock non è stata più la stessa dopo quelle esperienze o è, addirittura, morta?

Marco Maurizi

Nel libro sostengo che il rock non è un genere ma un processo in cui sono confluiti elementi disparati e in cui, almeno in un certo periodo, è emersa persino l’esigenza di un costruttivismo e di una sperimentazione di tipo alto, colto. Una sorta di paradigma di ricerca della totalità musicale. Il rock è una tensione creativa che si alimenta dei limiti costituiti dalla forma-canzone e la mette in discussione arrivando a toccare questioni di organizzazione del materiale musicale in modo analogo a quanto tentato nella tradizione della musica accademica precedente. Un fenomeno simile era accaduto per il free-jazz da Coleman a Braxton. Ogni volta che la musica arriva a mettere in questione la forma, a farsi auto-riflessione sulla forma, tocca il problema della totalità e chiama in questione l’universalità del suo linguaggio. Il rock non può morire perché molto di questo lavorìo sulla forma e sul linguaggio è passato, in un modo o nell’altro, nel sentire musicale contemporaneo. Il rock è Tutti Frutti e Low di Bowie, nel grande affresco “rock” del White Album abbiamo Birthday e Revolution 9. Il “canone” rock è l’esplorazione dei limiti di questo canone.  Allora per me, se vuoi, il rock è morto nella misura in cui questa esplorazione dei limiti sembra aver raggiunto un punto di chiarezza e anche di saturazione nel suo periodo “classico”. Parlo del rock in quanto rock, cioè in quanto non diventa altro-da-sé. Elementi rock possono trovarsi in altri linguaggi. Quello che succede al rock dopo questo periodo classico non mi sembra che modifichi l’atteggiamento del rock precedente rispetto al problema della struttura. Cambiano le sonorità, certo, ma il problema del linguaggio? Il problema della forma? La ricerca armonico-melodica? Ci sono cose molto belle nel math-rock, ma sono davvero così strutturalmente diverse da ciò che l’ha preceduto? Più difficile il discorso a proposito del post-rock cui infatti ho dedicato qualche pagina proprio argomentando che lì il problema della forma viene volontariamente abbandonato, lasciato in uno stato di sospensione, fatto cadere in una specie di limbo. Operazione interessantissima che a mio modo di vedere chiude, senza “chiuderla”, la stagione classica del rock.

Francesco Nunziata

A un certo punto, parli del “destino tragico del pop”: nel momento in cui esso cercherà di evadere dai suoi limiti, finirà per smarrire il proprio senso, rovesciandosi in altro. Ma quali sono i limiti del pop?

Marco Maurizi

Discorso duplice. Da un lato, i limiti del pop sono i limiti di qualsiasi forma espressiva codificata. Nello specifico, ad es., la musica leggera del ‘900 si costruisce su una tavolozza determinata di soluzioni armonico-melodiche e ritmiche (in cui rientra anche la “stravaganza” che si giustifica, appunto, a partire dalla distanza che esprime rispetto al canone in vigore). Si varia all’interno di quest’ambito di possibilità. Ciò si lega al secondo aspetto, ovvero che la musica leggera è, nel ‘900, musica veicolata attraverso i mass media che aggiungono a questa caratteristica per così dire “ontologica” della musica (ogni genere si determina a partire da caratteristiche specifiche che lo identificano come tale) un aspetto di standardizzazione e formalizzazione aggiuntivo: perché la musica radiofonica è musica che deve rispettare determinati criteri che ne garantiscono la vendibilità. Ora, la cosa interessante è che a partire dagli anni ’50 sempre meno compositori e arrangiatori di professione e sempre più musicisti giovani e privi di esperienza tecnico-compositiva abbiano iniziato a comporre. Questo ha fatto presto sentire come un limite, ciò che prima era percepito come normale mezzo espressivo. Nessuno avrebbe pensato prima che una canzone potesse durare più di 2-3 minuti. Figuriamoci 10 o 30. Ciò è accaduto perché si è sentito che si poteva, che era possibile dire qualcosa rompendo quella barriera, tentando l’intentato. Chiaramente il rapporto tra il pop e la musica colta ha in parte determinato dall’esterno la percezione di questi limiti, talvolta in modo esplicito: se Paul McCartney non avesse ascoltato Stockhausen non avrebbe sentito il bisogno di inserire l’apocalittico crescendo orchestrale in A Day in The Life. Forzare quei limiti ha significato guadagnare nuove potenzialità espressive. Tuttavia ciò ha catapultato il pop in una zona di confine dove esso rischiava costantemente di perdersi. Sfida affascinante e dai risultati godibilissimi. Ma, appunto, tragica.

Francesco Nunziata

Oggi, più che mai, per la stragrande maggioranza delle persone, la musica è “decorazione del tempo vuoto”, per riprendere una celebre espressione di Adorno. Come se non bastasse, l’ascolto della musica è sempre più “atomizzato” e sempre più inficiato da aspetti extra-musicali. Si uscirà mai da questo meccanismo?

Marco Maurizi

Da un punto di vista esclusivamente musicale penso di no. Ci saranno sempre nuove “mode” musicali, ma questo è appunto il problema, come abbiamo detto. La fase eroica del rock è stata accompagnata da una generale richiesta di trasformazione della vita. La musica fa parte della nostra forma di vita. Una vita condannata a ripetere il rito del consumo e del profitto è una vita cui corrisponde una musica che sotto l’apparenza del sempre-nuovo impone, in realtà, l’identico. Temo che finché i pilastri del potere economico non verranno nuovamente scossi la musica languirà nella scintillante esibizione di maschere cui assistiamo oggi.

Francesco Nunziata

Individui negli anni Ottanta il momento in cui la musica pop smise di pretendere di essere arte. Quali furono le cause di questa rinuncia? Puoi spiegare, inoltre, cosa intendi di preciso quando affermi che “la natura spuria e composita del pop” rende impossibile un suo “godimento puro”?

Marco Maurizi

È esattamente ciò di cui parlavo dicendo che il rock era la musica di una generazione che metteva in discussione l’ordine sociale ed economico dato. Il periodo del grande “riflusso” è stato però, da questo punto di vista, anche un brusco e salutare risveglio: la musica non fa la rivoluzione. Il pop degli anni ’80 dismette – a livello di mainstream s’intende – la pretesa di rivoluzionare la forma, nel libro cerco di mostrare come questo accada spostando l’attenzione su fattori musicali (come il timbro, per tacere degli elementi extra-musicali cui facevi riferimento anche tu) che meno intaccano il predominio di una forma chiusa e rassicurante, attraverso un’insistenza su configurazioni ritmiche che rendono meno fluida e più meccanica la pulsazione musicale, irrigidiscono le possibilità espressive ed evolutive della canzone. Sono due processi paralleli, ma nient’affatto identici: la rivoluzione, fallita dal lato della protesta politica, si arresta anche dal lato della forma musicale, raggiunge cioè la consapevolezza del proprio limite. Il punto è quello. La musica popular è costruzione spuria che disegna le proprie coordinate senza poterle evadere perché se lo facesse diventerebbe pura musica. Il sogno della pura musica, e dunque del godimento puro, è il sogno della musica colta (sulla quale si potrebbe fare un discorso analogo mutatis mutandis). Che la musica possa essere semplicemente musica, composta e ascoltata come tale, questo sogno è al di là delle possibilità del presente, forse di ogni presente, ma è ciò verso cui volge lo sguardo ogni musica che guarda oltre il proprio recinto. Essa sogna così anche, al tempo stesso, una diversa società. L’utopia della musica pura, del godimento della musica come tale, è il punto di convergenza dello sviluppo tecnico della musica e dell’evoluzione sociale in cui siamo presi. È verso questo al di là di sé stessa e di noi stessi che la musica ci proietta nei suoi momenti migliori.

Francesco Nunziata

Come rilevi nelle tue pagine, il rock ebbe, nel suo periodo d’oro, un’inclinazione per la “musica totale”, insomma per “la possibilità di far convergere gli infiniti rivoli in cui scorre l’esperienza musicale contemporanea in un solo grande fiume, capace di accogliere le diverse istanze da cui prende vita, fondendole in un linguaggio superiore, flessibile, molteplice, aperto.” Da appassionato di musica, con una predilezione per quello che continuiamo a chiamare “rock” e da addetto ai lavori, devo ammettere che solo in rarissimi casi il rock di oggi riesce a competere con le grandi opere che lo stesso ha saputo regalarci negli anni passati. Come vanno interpretati, a tuo avviso, questi rarissimi focolai di creatività del rock odierno: come gli ultimissimi di una gloriosa storia o, piuttosto, come forme di resistenza che, in un modo o nell’altro, e sempre con maggiori difficoltà, riusciranno comunque a tenere sempre viva la sua fiamma?

Marco Maurizi

Ci sono due aspetti da considerare che mi rendono difficile scegliere tra queste alternative. Perché il rock è stato ricerca di un’articolazione diversa del discorso musicale come sovversione del linguaggio del pop radiofonico ma, anche, esplosione di un’immediatezza energetica, il canto del corpo elettrico. In prima istanza, quindi, come ho già detto, penso che l’eredità del rock nella sua fase classica sia viva e vitale proprio perché la sua rivoluzione della forma-canzone ha contaminato il sentire musicale contemporaneo: il rock è ovunque, dunque in nessuno luogo specifico. Credo anzi che questa eredità sia più importante dove non appare evidente, in luoghi che non frequentano più la chitarra distorta o l’urlo teatralizzato della rockstar. In secondo luogo, però, la testimonianza di quella storia ci riporta all’urgenza di una espressività diretta, di una pulsazione aggressiva e animalesca, perfino brutale. Coloro che lamentano oggi il predominio di un sentire musicale patinato e celebrano ancora la violenza non addomesticata del rock sono testimoni di un’esigenza di verità, di una critica della postura algida ed estetizzante del pop contro cui il rock ha sempre rivolto il proprio pungolo critico. Anche in questo secondo senso direi che il rock sopravviverà ovunque si sentirà ancora la necessità di una protesta contro l’ipocrisia e il conformismo capace di sublimarsi nel suo gesto musicale di rottura, magari facendo vibrare forsennatamente un violoncello o uno strumento non ancora inventato.

Francesco Nunziata

In altri tuoi scritti, ti sei occupato anche della musica di Captain Beefheart, cui ho avuto il piacere, un annetto fa, di dedicare una biografia critica. Egli fu uno dei musicisti più radicali della sua epoca e Trout Mask Replica rappresenta, ancora oggi, uno dei dischi più rivoluzionari del rock. Perché nel libro lo citi solo di sfuggita, verso la fine? Non credi che l’analisi della sua musica ti avrebbe offerto la possibilità di corroborare ancora di più le tue tesi sul dionisiaco in musica e, in generale, sull’art-rock?

Marco Maurizi

Assolutamente sì. Beefheart è sicuramente uno dei tagli più dolorosi che ho dovuto fare. Avevo inizialmente pensato di riprendere per il libro le cose che avevo scritto su di lui e che citi, ma avrebbero troppo stravolto il percorso di insieme di un testo che tratta già troppe cose per avere, come pretende, un percorso unitario e teoreticamente stringente. Diciamo che il problema era che nel discorso che ho cercato di fare su un dionisiaco che si sviluppa a livello melodico-armonico l’esempio zappiano mi era più congeniale ed esemplare. Beefheart è un grande solitario il cui influsso è stato proverbiale ma sotterraneo, la magia della sua visione non è riproducibile, è un unicum. “Trout Mask Replica” è un’esperienza sconvolgente per chiunque ancora oggi, qualcosa di letteralmente incredibile. Anche Zappa viene più citato che ascoltato e studiato, ma il suo discorso si è mosso a un livello di universalità diverso: Zappa oggettiva il suo universo musicale interiore, lo esteriorizza in un oggetto inquietante dalla tessitura meticolosa e folle. Beefheart porta la musica a un punto di fusione che trova nella sua presenza sciamanica la propria consistenza, ti risucchia dentro, ti rende partecipe del suo mondo allucinatorio, pulsante, crepitante. Assertorio in un modo che toglie la parola, anche perché, al pari di Zappa, è una paradossale sintesi di istrionismo sacrale e clownerie. Diciamo che segna anche probabilmente il limite, il bordo della filosofia della musica rock, forse la mette fuori corso, per questo ne rimango affascinato ma esito a varcarne la soglia. Sento che il logos filosofico potrebbe non farvi ritorno, ammaliato dal potere di un logos musicale che non si lascia articolare e discutere.

Francesco Nunziata

Una delle tesi più interessanti del libro è quella che vuole che il punk non fu altro che “una negazione astratta e unilaterale del progressive”. E ancora: “La violenza che esplose negli anni ’70 come sintomo di impotenza politica non si manifestò solo nella trasfigurazione estetica del punk, ma era latente già nel progressive al di sotto di certe sue dolcezze apparenti”. Sento già le urla di disapprovazione dei fanatici duri & puri del punk…

Marco Maurizi

Non ce n’è motivo, sono personalmente un appassionato di musica punk, un fan assoluto dei Ramones. Certo, come spiego nel libro, del punk apprezzo soprattutto la fase aurorale, la contraddizione interna tra melos e urlo, la metamorfosi della canzonetta pop trasformata dall’accelerazione sonora e dalla rabbia, tutte cose che sento meno vitali nelle successive evoluzioni hard-core. Occorre distinguere la mimesi della rabbia dalla sua formulazione musicale. Ogni volta che la musica si teatralizza in gesto perde qualcosa a livello del suo linguaggio proprio. Per questo ho cercato di mostrare la violenza latente del progressive a livello compositivo, quando ciò che Adorno chiamerebbe la sintesi, la conciliazione “forzata”, si impone sul materiale musicale. Ascoltata senza farsi ingannare dalla patina dolciastra e dalla posa intellettuale e mistica molta musica prog denota un’aggressività profonda, un’insoddisfazione che non viene cancellata, ma anzi enfatizzata dalla ricerca di grandi forme, dalle ripetizioni incessanti di frammenti melodici che i tempi composti non possono mascherare. È musica che già esprime una violenza sotterranea in attesa di essere scoperchiata dal punk. Al contrario, quella violenza che viene teatralizzata nella musica hard-core per me è in gran parte pura rappresentazione, parte di un rito identitario in cui la musica spesso funge solo da colonna sonora. Ciò che chiamo “negazione astratta” indica il tentativo di risolvere le contraddizioni dell’art rock (usiamo un’espressione più ampia di prog: ricordiamo, per es., che in Italia lo scontro tra prog e punk non aveva senso di esistere…) che era andato in direzione di una ricerca di maggiore complessità, in favore di un azzeramento e un’immediatezza che sono in realtà più uno spostamento di tale contraddizione.

Francesco Nunziata

Se, come scrivi, “il senso della costruzione e dell’ascolto della musica” non può che “essere declinato in termini storici e sociali, collegando dialetticamente lo sviluppo delle forme espressive alle dinamiche socio-politiche, senza ridurre l’uno all’altra”, cosa ci dice, della nostra Italia, il successo che sta riscuotendo una musica come la “trap”?

Marco Maurizi

Vorrei evitare giudizi affrettati da catastrofismi culturali anche perché ogni stagione musicale affonda le proprie radici in una necessità storica che, da hegeliano, ritengo appaia chiaramente solo a posteriori. Ciò detto, non mi annovero nemmeno tra quanti sospendono il giudizio musicale e gridano alla novità significativa per qualsiasi cosa emerga sul mercato musicale e abbia un po’ di successo. Fenomeni musicali di moda tra i giovanissimi come la trap o, a livello internazionale, il reggaeton, rappresentano, per chiunque abbia un minimo di formazione musicale, dei contenitori in cui le possibilità di sviluppo musicale sono ridotte al minimo. Mi interessa sempre quanto una canzone e una moda apra o chiuda gli orizzonti del musicalmente possibile. E qui veramente si fa fatica a trovare qualcosa di sorprendente, che per me significa sempre espressione vitale di un conflitto, tensione interna, dialettica tra forma e contenuto ecc. Nella trap perfino la capacità di articolazione testuale sembrano regredite rispetto a certi preziosismi dell’hip hop. Alcuni testi fotografano perfettamente la condizione di emarginazione, l’impossibilità di ascesa sociale delle nuove generazioni, certo, tuttavia lo fanno in una forma edonistico-nichilistica che non mi sembra esattamente critica rispetto alle cause reali che tale condizione producono. Anzi, mi pare la celebrino acriticamente. Ad ogni modo, come dicevo, il giudizio finale lo darà il processo sociale e musicale in cui questi fenomeni si iscrivono: se si tratta di un fenomeno musicalmente vitale dovrà essere capace di produrre effetti di lungo periodo. Mi riesce difficile immaginare come, perché gli elementi di partenza sono veramente poca cosa rispetto a quanto la musica pop ha saputo produrre in epoche precedenti ma, appunto, non sostituiamoci al tribunale della Storia!

Francesco Nunziata

Molto interessanti anche le tue analisi relative all’imitazione e alla parodia. A tal proposito, ti chiedo: quando un artista o una band s’ispirano a un altro artista o a un’altra band, in un certo senso finiscono anche per parodiarlo? E se è così, si può dire che l’innovazione musicale è, a conti fatti, un fenomeno essenzialmente “parodico”?

Marco Maurizi

Sì, questo è un punto centrale. L’imitazione, ma più in generale l’atteggiamento mimetico, fa parte dei tratti essenziali della cultura umana, non solo del linguaggio musicale, anzi è probabilmente uno dei crocevia in cui il logos musicale e quello filosofico si incontrano. Per dirla per una volta con Deleuze si potrebbe dire che ogni ripetizione è in fin dei conti anche esplicitazione di una differenza ed è quindi un procedimento ontologicamente creativo.

Francesco Nunziata

Nelle ultime pagine del libro si legge: “L’uomo si ascolta per mezzo della musica” e, ancora: “Nel soggetto la musica perviene a se stessa e il soggetto perviene a se stesso attraverso la musica.” Ma, quando la musica diventa “decorazione del tempo vuoto” e l’ascolto si fa “atomizzato”, cosa accade all’uomo, alla sua essenza?

Marco Maurizi

Accade il contrario: la musica e il soggetto avvizziscono insieme. Tutto il libro ruota attorno all’evocazione di ciò che non può essere detto, perché non si lascia oggettivare in una forma, non si lascia presentificare e di cui la musica costituisce il modello segreto: la libertà. La musica diventa “decorazione del tempo vuoto” quando la sua funzione sociale si riflette a livello compositivo in un meccanismo che non interroga il soggetto sul suo ruolo attivo in entrambi questi luoghi: come ascolto regressivo di stimoli che gli impediscono la sintesi del discorso musicale e come appendice di una totalità sociale che lo espropria del possibile. Ciò non significa che ogni musica per evocare il soggetto alla responsabilità di un’esistenza libera debba avere caratteristiche determinate: la musica è un processo storico e la funzione dei suoi elementi cambia storicamente (già Adorno sottolineava come il piacere sensibile per certi elementi atomistici – il timbro, il ritmo ecc. – potessero avere una funzione progressiva di rottura di un ordine statico a seconda dei contesti). Il punto sarebbe capire oggi in un periodo in cui la musica è diventata veramente un fenomeno globale, quanto sia in grado di mettere a rischio l’immaginazione attualmente al potere; perché c’è sempre un’immaginazione al potere, il problema è capire chi ne è il soggetto portatore e quali possibilità dischiuda al reale. Una cosa importante che ho cercato di sottolineare nel libro a proposito del rapporto tra natura e dominio, è che la musica si fa espressione di una libertà che non è mai meramente umana. L’utopico della musica è l’immagine di una libertà in cui l’umano si emancipa anche dalla presa distruttiva di un dominio che esercita su sé stesso e il resto del vivente.

Francesco Nunziata

Leghi l’ascolto della musica atonale alla sensazione dello “spaesamento” e del “non-sentirsi-a-casa-propria” generata dall’angoscia. Ricordo che Heidegger ebbe a dire che, chi non ha mai veramente sperimentato su di sé la potenza dell’angoscia, conosce poco o nulla del nostro tempo. A questo punto, mi verrebbe da dire che l’ascolto della musica atonale (magari proprio di quella di Schönberg) può metterci in contatto con l’essenza del nostro tempo. Qual è la tua opinione al riguardo?

Marco Maurizi

In un certo senso sì. Adorno diceva, come noto, che il pubblico rifiutava quella musica non perché non la capiva ma perché la capiva benissimo. La cosa incredibile è che a distanza di un secolo lo shock della musica atonale, chiamiamola così per intenderci, non è stato affatto assorbito. Ancora oggi quando faccio sentire Webern agli studenti rimangono sconvolti, quella musica non ha ancora perso il suo fascino di enigma. Il che è significativo se pensi invece a come le avanguardie in tutti gli altri campi siano stati invece ampliamente riciclate dall’industria culturale. Questo va sottolineato perché, se invece l’emancipazione della dissonanza ha fatto passi da gigante fino ad essere per molti versi “normalizzata” – perfino nella musica rock: da The Devil’s Triangle dei King Crimson e ai feedback di Hendrix fino al noise – è anche vero che essa non è stata affatto integrata. Ciò che ancora oggi offende l’orecchio che ascolta la Suite lirica non è tanto la dissonanza in sé ma il modo in cui essa è articolata in un discorso coerente. È il peso della dissonanza, che non è mai gratuita, ma sempre oggetto di una costruzione meticolosa. È questa contraddizione che secondo me rende quella musica ancora testimone di una mancanza che l’orecchio registra inconsciamente. Essa invita ad una vita in cui libertà e costruzione di senso non siano in contraddizione, in cui il non-senso dell’esistenza è sublimato in uno sforzo collettivo di superamento delle nostre mancanze individuali. È una disperazione che non cede alla disperazione ma si fa muta protesta contro la disperante desolazione dell’individuo. Non offre soluzioni ma proprio per questo invita ad uscire dalla contemplazione attonita del nulla. L’angoscia che ci colpisce in quell’ascolto esprime ancora oggi quanto poco siamo all’altezza di quel compito che pure sentiamo come l’unico veramente sensato. È l’effetto urticante del vederci sottratte le nenie con cui ci addormentiamo di fronte a tale compito, a tale senso che oltrepassa il “senso comune”, l’ovvietà interessata della cultura dominante. La fragilità di questo equilibro tra la desolazione individuale e la speranza di una vita senza paura richiede tutto il nostro sforzo perché il nostro essere vulnerabili possa trovare una risposta, per quanto temporanea e votata allo scacco.

Francesco Nunziata

Qual è, oggi, il compito della critica musicale pop e rock e come esso è cambiato durante gli ultimi cinquant’anni?

Marco Maurizi

La critica fa il suo mestiere e il suo mestiere è legato all’industria culturale. Solo sporadicamente la critica è riuscita ad emanciparsi dal mestiere e farsi, da burocratico smercio di mode, “critica” in senso proprio: approfondimento tecnico dell’oggetto estetico e innalzamento del medesimo al suo ruolo di punto di sintesi di processi sociali più ampi. Al di là dei singoli casi isolati, ciò è avvenuto soprattutto in periodi di grandi rivolgimenti storici, non senza le ambigue forzature, denunciate come visto da Zappa, quando il critico si spacciava per una specie di sacerdote della rivoluzione culturale: ci furono in Italia pagine di riviste pure importanti come Muzak o Gong che, da questo punto di vista, gridano ancora vendetta. Penso che oggi il critico dovrebbe tornare a riannodare i fili di queste due tendenze separate. Da un lato evitare di chiudersi in un tecnicismo schizzinoso. Dall’altro evitare assolutamente di fare sociologia spicciola o, peggio, cronaca del costume. Sono due mali complementari.

Francesco Nunziata

Da Schönberg ai Nirvana, quali sono i dischi che bisognerebbe assolutamente ascoltare per accompagnare la lettura del tuo libro?

Marco Maurizi

Me la cavo, se sei d’accordo, con un giochino, perché nessuna lista “seria” sarebbe esente da accuse di non essere esaustiva. Facciamo che metto su una lista in ordine alfabetico con un nome per ogni lettera, mescolando qualche classico con i miei “favoriti”. Buon ascolto!

Area, Crac!
Beatles, White Album
Ornette Coleman, The Shape of Jazz to Come
Miles Davis, Bitches Brew
E.L.P., Emerson, Lake & Palmer
Faust, The Faust Tapes
Philip Glass, Einstein on the Beach
Paul Hindemith, Sinfonia “Mathis der Maler”
Charles Ives, The Unanswered Question 
Jethro Tull, Thick as a Brick
King Crimson, Larks’ Tongues in Aspic
György Ligeti, Atmospheres
Giorgio Moroder, From Here to Eternity
Nirvana, Nevermind
Tony Oxley, The Baptised Traveller
Pink Floyd, Ummagumma
Queen, A Night at the Opera
Ramones, Leave Home
Arnold Schönberg, Pierrot Lunaire e Igor Stravinsky, Sagra della Primavera (qui due per forza!)
Television, Marquee Moon
Ultravox, Vienna
Edgar Varèse, Ionisation
Christian Wolff, Berlin Exercises
Iannis Xenakis, Metastaseis
Yes, Fragile
Frank Zappa, Lumpy Gravy

Francesco Nunziata

Visto che negli ultimi mesi è tornata in auge la figura del compianto Freddy Mercury, ti chiedo, per concludere, un giudizio sui Queen, una band che sembra non lasciare molto spazio alle mezze misure: c’è chi la adora e chi, invece, la rigetta completamente. Per quanto mi riguarda, credo che almeno Sheer Heart Attack e A Night At The Opera (cui aggiungerei anche Queen II) siano dischi ancora oggi meritevoli di attenzione. Poi, certo, dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta la loro musica è andata progressivamente perdendo valore, ma questo è un altro discorso.

Marco Maurizi

Confesso che non ho mai capito certi giudizi sprezzanti nei confronti dei Queen. Nel panorama di una musica pop spesso prevedibile e ripetitiva la loro musica si staglia come un’originalissima sintesi di maestria compositiva ed esecutiva. Non solo tutta la loro produzione degli anni ’70 risente dei molti pregi (e di qualche difetto in termini di pretenziosità) di un’epoca pioneristica del Rock ma perfino nella produzione più “commerciale” si trovano brani notevoli come The Miracle o Innuendo. Ricordo chiaramente che quando li ascoltai la prima volta rimasi molto colpito, ero assolutamente impreparato a quella musica ricca, vitale, piena di idee, senza schemi. Vi trovai anche quella deliziosa contrapposizione tra vaudeville e rock che era stata già di McCartney e Lennon. Certo, nella loro musica, nonostante le molte fonti di ispirazione e le strutture articolate, non c’è vera frattura estetica, tutto viene sempre ricondotto sotto una patina di coerenza e di sensatezza. E forse questo, assieme all’istrionismo generale che li caratterizzava soprattutto dal vivo, è il dato che viene spesso criticato come inautentico. Ma mi sembra una critica fuori fuoco. Il rock ha un aspetto costitutivamente circense ed esagerato, fin dall’inizio. La musica dei Queen per me ha di bello proprio questo, che le sue evoluzioni arrischiate, il tour de force cui si sottomette con rigore e serietà finisce sempre in una bolla di sapone.

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