Bob Dylan (Parte 2)

Durante il biennio 1965-1966, al pari di una falena che si avvicina troppo a una fiamma, Dylan aveva rischiato di bruciarsi al cospetto della propria ispirazione. Col senno di poi, si può dire che l’incidente in moto del luglio ’66 non fu per lui altro che una benedizione, perché lo mise al riparo da una lenta e inesorabile autodistruzione, aggravata anche dall’uso di vari tipi di droghe. Molti addirittura sostennero (e continuano a sostenere) che di quell’incidente, in realtà, non vi fu mai traccia, ma che si fosse trattato di una semplice messinscena, attraverso cui il cantautore, ormai esausto della routine in cui era precipitato, poteva avere la possibilità di farsi momentaneamente da parte senza alimentare troppi pettegolezzi.

Così, durante i primi mesi del 1967, l’anno in cui la controcultura e il rock misero in comune le proprie forze, generando una mole impressionante di dischi fondamentali, Dylan se ne restò chiuso in casa a ripensare a quanto aveva fatto, salvo cominciare, poi, a rispolverare la sua passione per la musica tradizionale americana, che aveva cominciato ad apprezzare dopo l’ascolto rivelatore della Anthology of American Folk Music di Harry Smith. Fu proprio in quei solchi che Dylan ritrovò il bandolo della matassa. Così, tra l’estate e l’autunno di quello stesso anno, dopo essersi chiuso insieme agli Hawks nello scantinato di una casa soprannominata «Big Pink» e situata a West Saugerties, nello stato di New York, Dylan diede libero sfogo alla propria ispirazione, rivisitando alcuni suoi vecchi brani e scrivendone molti altri inediti. Quel voltare lo sguardo al passato più mitico della musica tradizionale americana, a quella «Repubblica invisibile» (per usare le parole di Greil Marcus), significava risalire la corrente per ritrovare la fonte cui anche lo stesso Dylan si era abbeverato, una fonte che poteva donare alla sua musica l’elisir di eterna giovinezza, perché la tradizione ha dalla sua parte una potenza meta-temporale. Dylan aveva bisogno di mollare gli ormeggi e allontanarsi in mare aperto, lontano dalla costa su cui, ormai, si affollavano tanti nuovi artisti e tante nuove band che al rock chiedevano un “senso”, un’àncora di salvezza in un mondo che andava facendosi sempre più complesso e indecifrabile. Tuttavia, come lo stesso Marcus scriverà, «non c’è nostalgia nelle registrazioni dello scantinato; sono troppo fredde, addolorate o buffe. Le meccaniche del tempo nella musica non sono confortanti1 Non c’è, insomma, vera redenzione in quei brani nati da improvvisazioni e spesso destinate all’incompiutezza. C’è, di sicuro, però, l’abbandono di un artista che, finalmente, può dedicarsi alla musica che più ama senza l’assillo di dover necessariamente dimostrare qualcosa o di tenersi al passo con i tempi. Non è un caso, quindi, che quello della fuga sia uno dei temi che più si fanno largo tra quei solchi, a rinforzare l’idea di un esilio che non è più soltanto necessario per la salute del corpo, ma anche, e soprattutto, per quella dell’anima, costretta, negli ultimi anni, a sopportare una tensione lacerante.

Alcune di quelle registrazioni inizieranno a circolare a partire dal 1969 sul bootleg Great White Wonder, che raccoglieva anche alcuni brani che Dylan aveva registrato a Minneapolis nel 1961. Solo nel 1975, però, esse saranno rese disponibili per il mercato, in seguito all’assenso dato dallo stesso Dylan e alla disponibilità di Robbie Robertson di organizzare il materiale, selezionando solo parte di quelle registrazioni e inserendovi anche alcuni brani della sua Band.

The Basement Tapes (questo il titolo del doppio accreditato a Bob Dylan & The Band) è un affresco di purissima Americana, una miscela di blues rurale, folk tradizionale e country che sa essere scoppiettante (“Odds And Ends”, “Yazoo Street Scandal”, “Apple Suckling Tree”, “Don’t Ya Tell Henry”), baldanzosa (“Orange Juice Blues (Blues for Breakfast)”), evocativa (“Million Dollar Bash”, “Goin’ to Acapulco”), bizzarra e gioviale (“Lo and Behold”), solenne (“Tears Of Rage”, “This Wheel’s On Fire”), indolente e prossima a un’enigmatica desolazione (“Clothes Line Saga”, “Too Much of Nothing”, “You Ain’t Goin’ Nowhere”), ma anche, perché no?, alterata da fumi allucinogeni (“Tiny Montgomery”).

Verso la fine del 1967, dopo la pubblicazione del suo primo Greatest Hits, Dylan sentì di nuovo l’esigenza di registrare un disco e, mentre approntava nuovo materiale, si rese conto che l’esperienza delle «registrazioni dello scantinato» poteva ritornargli ancora utile. Tuttavia, per registrare i nuovi brani non si servì dei suoi fidi compagni di viaggio della Band, ma chiamò a raccolta il bassista Charlie McCoy e il batterista Ken A. Buttrey, cui si aggiunse Pete Drake alla pedal steel guitar (che, comunque, fu impiegato solo in un paio di brani).

John Wesley Harding (dicembre 1967) è il disco di un artista che è stato all’inferno, che ha risalito la china e che, ora, cerca di mettere ordine nel suo mondo, facendo leva su una musica relativamente più rilassata. Una musica che, ormai lontana dalla sbornia elettrica del biennio ’65-’66, si traduce in arrangiamenti essenziali molto country & folk e poco rock (una scelta sonora, questa, che mentre andava in controtendenza rispetto a quanto stava allora accadendo in ambito di popular music, anticipava il ritorno alle sonorità delle radici americane che avrebbe caratterizzato il passaggio tra i Sessanta e i Settanta). Per quanto riguarda i testi, invece, John Wesley Harding è un disco stratificato, soprattutto grazie alle numerose citazioni bibliche, esplicite o meno esplicite («il primo disco di rock biblico», lo definirà lo stesso autore), che accompagnano vere e proprie parabole, i cui protagonisti sono fuorilegge (come l’Harding del titolo, invero con una «g» in più rispetto al suo vero cognome), donne in catene (“As I Went Out One Morning”), santi (“I Dreamed I Saw St. Augustine”), immigrati (“I Pity the Poor Immigrant”), padroni (“Dear Landlord”), profeti (“The Wicked Messenger”) e vagabondi (“I Am a Lonesome Hobo”, “Drifter’s Escape”). Il brano più famoso, “All Along The Watchtower” (di cui Jimi Hendrix inciderà, nel 1968, una versione incendiaria) presenta, invece, un testo ispirato al Capitolo 21 del Libro di Isaia e incentrato sulla contesa tra un Giullare e un Ladro.

“There must be some way out of here,”
said the joker to the thief,
“There’s too much confusion,
I can’t get no relief.”

“Deve esserci un modo per uscire di qui”
disse il giullare al ladro,
“C’è troppa confusione,
non riesco a trovar pace.”

canta Dylan nei primi quattro versi. E, naturalmente, è impossibile non pensare all’America dell’epoca e a quanti spingevano affinché i politici trovassero un modo per uscire dall’incubo della guerra in Vietnam.

John Wesley Harding rappresentò, quindi, uno shock per quanti avevano convintamente seguito Dylan lungo il sentiero del folk-rock elettrico, ma questo non si tradusse in un insuccesso commerciale, anzi! Le recensioni positive fioccarono un po’ dappertutto e, con un secondo posto in patria e la vetta della classifica in Inghilterra, Dylan poteva dirsi più che soddisfatto.

Intanto, nell’ottobre precedente, Woody Guthrie era morto in seguito alle complicazioni della malattia di Huntington. Per ricordarlo, all’inizio del 1968 Dylan, accompagnato dalla Band, partecipò al concerto-tributo che si tenne alla Carnegie Hall di New York. Nel solco di un ritorno alle origini della musica americana, mise mano, quindi, al suo nuovo disco, Nashville Skyline (aprile 1969). Registrato quasi con la stessa formazione di John Wesley Harding, il nuovo lavoro (il suo più breve fino a quel momento, con i suoi ventisette minuti di durata) era ancora più sbilanciato sul versante della musica country (un genere che, proprio alla fine degli anni Settanta ritornò prepotentemente alla ribalta anche grazie all’impegno dei Byrds di Sweetheart Of The Rodeo, uscito nemmeno un anno prima) e faceva registrare, oltre alla presenza di testi infinitamente più disimpegnati rispetto al passato, anche un ulteriore ammorbidimento del suono, che andava, evidentemente, nella direzione di quelle semplicità che, proprio in quegli anni, Dylan stava, a suo dire, inseguendo affinché le sue canzoni diventassero le «canzoni di tutti». Nobile intento, eppure mal supportato da canzoni ampiamente nella media delle produzioni dell’epoca (“To Be Alone with You”, “I Threw It All Away”, “Peggy Day”, “Tonight I’ll Be Staying Here with You”) o da qualche strumentale sbarazzino che lascia il tempo che trova (“Nashville Skyline Rag”). Solo due i momenti di un certo interesse: la discreta rivisitazione, in coppia con Johnny Cash, di “Girl from the North Country” e una “Lay Lady Lay” dal respiro romantico. Quest’ultima (che diventerà il singolo di maggior successo tratto dal disco) era stata commissionata a Dylan come brano guida della colonna sonora del film Midnight Cowboy di John Schlesinger (titolo italiano: Un uomo da marciapiede), salvo poi essere sostituita, causa ritardo nella consegna, da “Everybody’s Talkin’” di Fred Neil nella versione cantata da Harry Nilsson. Nashville Skyline volò nei piani alti delle classifiche americane e inglesi e fu salutato come un disco fondamentale per la nascita del country-rock. Non mancarono, però, quanti videro in quei solchi i segni evidenti di un cedimento dell’ispirazione. E non avevano torto.

Alla fine, quello di Self Portrait, disco doppio che arrivò nei negozi di dischi nell’agosto del 1970, fu l’autoritratto più veritiero di un artista che, cercando di distruggere la propria immagine di «voce di una generazione», finì per confermare anche un progressivo inaridimento della propria vena compositiva, per certi versi già evidente tra i solchi di John Wesley Harding.

«What is this shit?» («Cos’è questa merda?»), scrisse Greil Marcus all’inizio della sua recensione su «Rolling Stones» ed è difficile, ancora oggi, dargli torto. Oddio: magari poteva essere più elegante, ma da uno come Dylan, da uno che aveva accompagnato il rock verso l’altare della definitiva maturità, era giusto pretendere sempre qualcosa in più rispetto agli altri. Aperto dal coro femminile e dagli archi di “All the Tired Horses”, in un’atmosfera easy-listening di seconda mano, Self Portrait incrocia la prima canzone con la seconda traccia, “Alberta#1”, un brano tradizionale che Dylan trasformò in un lento galoppo country. Si procede, quindi, a vista, tra svenevolezze old-time (“Forgot More Than You’ll Ever Know”, “Let It Be Me”, “Blue Moon”), rimembranze dell’Alan Lomax che fu (“Days Of ‘49”), strumentali dozzinali (“Woogie Boogie”, “Wigwam”), blues spassosi o più robusti (“Living The Blues”, “Gotta Travel On”), romanticherie al chiaro di luna (“Copper Kettle”), esperimenti per voce sovraincisa (la cover di “The Boxer” di Simon & Garfunkel) e pause acustiche (“It Hurts Me Too”). Ma il momento che fa davvero accapponare la pelle è la versione dal vivo, assolutamente fiacca e ricca di stonature, di “Like A Rolling Stones”, tratta, al pari di “Minstrel Boy,” “She Belongs to Me” e “Quinn the Eskimo [The Mighty Quinn]”, dalla sua esibizione al Festival dell’isola di Wight dell’anno precedente.

Nonostante tutto, però, il disco vendette più che bene, confermando l’attaccamento ormai quasi morboso che il pubblico nutriva nei suoi confronti.

La critica si ammorbidì, in ogni caso, appena quattro mesi dopo, quando fu pubblicato il suo undicesimo disco fino a quel momento, New Morning (ottobre 1970), su cui ritrovò posto Al Kooper, il cui organo fa la parte del leone insieme alle chitarre di David Bromberg. Già dal titolo, «nuovo mattino», il disco si poneva come un momento di rinascita artistica, anche se la qualità complessiva di quelle dodici canzoni non era assolutamente all’altezza di ciò che Dylan aveva pubblicato nel decennio precedente. Tra i brani da ricordare, le ballate pop-folk di “The Man In Me” e “If Not For You” (quest’ultima, tuttavia, davvero melensa nella sua dichiarazione d’amore alla signora Zimmerman: “Se non fosse per te / L’inverno non sarebbe seguito dalla primavera / non sentirei l’usignolo canticchiare / non saprei che pensare”); il rock misantropo di “Day of the Locusts” (in cui Dylan racconta, con toni ironici, la cerimonia con cui, il 9 giugno di quell’anno, la prestigiosa università di Princeton – altra sede di quella «useless and pointless knowledge», «conoscenza inutile e senza scopo», come aveva cantato in “Tombstone Blues” – volle conferirgli una laurea honoris causa) e il gioioso folk-rock della title-track (“Sono così contento di essere vivo / sotto il cielo azzurro / In questo nuovo giorno, nuovo giorno”). Il resto sfila via, invece, senza colpo ferire, lasciandosi tentare anche da qualche tinta soul, rhythm and blues e finanche gospel, come nel caso di “Three Angels”. Nonostante un buon settimo posto nella classifica americana e l’ennesima prima piazza in quella inglese, New Morning spinse di nuovo Dylan nell’ombra, anche se, comunque, in quel 1971 egli registrerà ancora tre inediti: i primi due, “Watching the River Flow” e “When I Paint My Masterpiece”, finirono nella raccolta Bob Dylan’s Greatest Hits Vol. II; il terzo, “George Jackson”, uscì invece come singolo. Nel frattempo, il primo agosto aveva partecipato al Concert for Bangladesh, un evento organizzato da George Harrison al Madison Square Garden di New York per raccogliere fondi a favore della popolazione del poverissimo paese asiatico.

L’anno successivo prenderà, quindi, parte alle registrazioni dei dischi dei cantautori Dough Sahm (Doug Sahm and Band, che contiene anche una canzone scritta dallo stesso Dylan e intitolata “Wallflower”), Roger McGuinn (l’omonimo esordio) e Steve Goodman (Somebody Else’s Troubles, in questo caso assumendo il nomignolo di Robert Milkwood Thomas). Poi, dopo essersi trasferito in Arizona, accettò nuovamente la sfida di scrivere musica.

A convincerlo fu lo scrittore e sceneggiatore Rudy Wurlitzer, che all’epoca aveva preso contatti con il regista Sam Peckinpah in vista della realizzazione del film western Pat Garrett & Billy the Kid, i cui protagonisti avevano le facce di James Coburn e Kris Kristofferson, quest’ultimo amico di Dylan e stella nascente del cosiddetto outlaw country1. Oltre a realizzarne la colonna sonora (registrata a Burbank, in California, dopo una prima session poco proficua in quel di Città del Messico), Dylan si calò anche nei panni dell’attore, recitando una piccola parte, quella dell’enigmatico Alias, uno dei membri della band di Billy The Kid. Uscita nel luglio del 1973, la colonna sonora Pat Garrett & Billy the Kid è caratterizzata da un placido, quando non innocuo sound folk calato dentro nostalgici e polverosi scenari western d’impronta messicana, come ben dimostrano le diverse versioni di “Billy”, il tema principale che innerva tutta la scaletta. Il brano più famoso del disco, e uno dei più famosi in assoluto del canzoniere dylaniano, è comunque “Knockin’ on Heaven’s Door”, un epico gospel che fu pubblicato anche come singolo e che durante gli anni sarà rivisitato da un numero imprecisato di artisti e di band, tra cui Bruce Springsteen, Grateful Dead, Eric Clapton, Roger Waters, Guns N’ Roses, Aerosmith, Bon Jovi, Bob Marley, U2, Aretha Franklin e Nirvana.

Pat Garrett & Billy the Kid fu l’ultimo suo disco uscito per la Columbia. Non riuscendo a ottenere un rinnovo adeguato del contratto, Dylan decise di cambiare aria, firmando per la Asylum Records, l’etichetta discografica nata nel 1971 dallo spirito imprenditoriale di David Geffen. La Columbia, però, non se ne stette con le mani in mano e mise in pratica una vera e propria vendetta, andando a raschiare il fondo del barile degli scarti di Self Portrait e New Morning e pubblicando il tutto su Dylan (novembre 1973), disco il cui titolo aveva probabilmente più di un intento ironico. La mancanza di note e di informazioni sui musicisti coinvolti non faceva altro che aumentare il livello di mediocrità di una raccolta interamente costituita da superflui rifacimenti di brani altrui, da Jerry Jeff Walker (“Mr. Bojangles”) a Joni Mitchell (“Big Yellow Taxi”), passando per la ballata tradizionale inglese “Lily Of The West” (forse il momento più riuscito) e per quella “Can’t Help Falling in Love” che Elvis Presley aveva portato al successo nel 1961. Dylan disse che il disco non era poi così male, ma era chiaro che stava mentendo per nascondere l’imbarazzo.

Aveva, intanto, registrato materiale per il suo esordio su Asylum e per farlo aveva pensato bene di chiamare a raccolta i vecchi amici della Band. Planet Waves uscì nel gennaio del 1974 e già nel trittico iniziale (lo spiccio country-rock, con tanto di fisarmonica, di “On A Night Like This”, l’incedere dolente e sofferto di “Going, Going, Gone” – con un grande lavoro di Robbie Robertson alla chitarra – e gli spigoli quasi funk di “Tough Mama”) lasciava intendere che il cantautore era finalmente tornato su buoni livelli. Lo confermavano anche la splendida ballata, dedicata al figlio Jakob (che all’epoca aveva otto anni), della prima versione di “Forever Young” e la tormentata, quanto spigolosa nenia di “Dirge”, in cui Dylan scarica tutto il suo odio contro se stesso.

I hate myself for lovin’ you and the weakness that it showed
You were just a painted face on a trip down Suicide Road
The stage was set, the lights went out all around the old hotel
I hate myself for lovin’ you and I’m glad the curtain fell

Mi odio perché ti amo e odio la debolezza che dimostro
Eri solo una faccia dipinta in un viaggio verso la Via del Suicidio
Il palco era pronto, in quel vecchio hotel le luci si spensero
Mi odio perché ti amo e sono contento che il sipario sia calato

Un sicuro mestiere, invece, sorregge il soft-rock di “Something There Is About You” e le romantiche ballate di “Hazel”, “You Angel You” e “Never Say Goodbye”. Nel complesso, Planet Waves s’impose come il suo miglior disco dai tempi di John Wesley Harding. Entrò direttamente al primo posto nella classifica di Billboard, anche se vendette di meno rispetto ai dischi precedenti. In ogni caso, grazie anche a un martellante battage pubblicitario, il già programmato tour si tradusse in un successo clamoroso.

Nella primavera del 1974, Dylan iniziò a frequentare le lezioni del pittore di origini ucraine Norman Raeben, grazie al quale potè rimettere insieme non soltanto i cocci della propria creatività, ma anche quelli di una psiche che, già da qualche anno, si trascinava dietro pesanti fardelli.

Mi ha rimesso insieme la mente, la mano e l’occhio, in modo tale da permettermi di fare consciamente quello che sentivo inconsciamente. Non sapevo ancora come esprimere tutto ciò. Pensavo che con le canzoni non si potesse fare perché non avevo mai scritto canzoni in quel modo. Ma, quando ho cominciato, il primo album è stato Blood on the Tracks. Hanno detto tutti che era piuttosto diverso dagli altri e quello che ha di diverso è che i testi sono in codice e che manca il senso del tempo.2

In Blood on the Tracks (gennaio 1975), disco che segnò il suo ritorno alla Columbia, la mancanza del «senso del tempo» equivale alla possibilità di Dylan di ritornare a sperimentare la coscienza dell’attimo presente, ristabilendo, con ciò, il contatto con la sorgente più profonda della propria ispirazione, lì dove non domina il tempo, ma l’eternità.

Avevo sempre avuto a che fare con tutti i differenti me stesso che coabitavano in me, finché non cominciarono ad andarsene, uno per volta, e io rimasi in compagnia di quello con il quale avevo maggiore familiarità.3

Composti in un intenso periodo risalente al settembre del 1974, i brani di Blood on the Tracks permisero a Dylan di rielaborare l’esperienza amorosa alla luce della grande tradizione poetica stilnovistica, quella cui apparteneva quell’«italian poet from the thirteenth century» (“poeta italiano del tredicesimo secolo”) cui da anni i critici e i semplici appassionati cercano di dare un nome (Dante e Petrarca i più gettonati). Ecco, dunque, che la donna non è più soltanto un essere da cantare, ma innanzitutto un medium tra il poeta (il cantautore) e Dio (simbolo di salvezza, di redenzione, etc.).

Il momento cardine del nuovo corso è rappresentato dalla bellissima “Tangled Up In Blue”, non a caso posta all’inizio della scaletta. Dylan la scrisse immaginando di essere, più che un poeta, un pittore: «Avevo cercato di renderla simile a un quadro, dove si possono prendere in considerazione le singole parti oppure l’intero.» E, infatti, “Tangled Up In Blue” è pura pittura sonora, cristallina nel suo acustico rimuginare (la mancanza del senso del tempo si traduce in una struttura poetica circolare) sull’essere «invischiati nel blue», il colore della malinconia, quel sentimento che attanaglia i due amanti cantati nel testo: ormai lontani, essi non hanno comunque smarrito quel desiderio che li spinge uno verso l’altro.

Ma l’amore è anche rimpianto, sentimento soggetto ai capricci del destino, come ci ricorda la rassegnata confessione di “Simple Twist of Fate”, ma anche la tenera elegia di “If You See Her, Say Hello”. Il tempo, poi, può cambiare tutto: ecco perché il tono di “You’re a Big Girl Now” ha un non so che di straziante. Nella fluviale “Idiot Wind”, l’amore e l’odio si fondono e si confondono. Nessun riferimento – stando a quanto riferì lo stesso Dylan – alla difficile situazione che, all’epoca, stava attraversando il suo matrimonio. Eppure, è difficile credergli (i due avrebbero divorziato due anni dopo). In ogni caso, dopo aver paragonato la sua travagliata storia d’amore a quella che vide protagonisti i poeti Rimbaud e Verlaine, in “You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go”, il poeta-cantautore mostra di accettare il proprio destino, declinando, subito dopo, il blues elettrico, invero piuttosto incolore, di “Meet In The Morning”. Fa decisamente meglio (nonostante i suoi quasi nove minuti di durata) lo scoppiettante country & western di “Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts”, in cui Dylan si trasforma in un novellatore d’altri tempi, raccontandoci una misteriosa storia di fuorilegge e di seduzione, ed evocando la figura del “Fante di Cuori” (“Jack of Hearts”), su cui gli interpreti delle sue liriche hanno perso e continueranno a perdere tempo nel (vano?) tentativo di decifrarne l’identità. Nel suo inseguire l’idea di una donna capace di imprimere alla propria vita il marchio della redenzione, Dylan approda a un altro dei suoi vertici poetici e musicali con “Shelter From The Storm”, il brano in cui, dietro la figura della donna, si scopre il simbolo di quella Bellezza che «walks a razor’s edge» («cammina sul filo del rasoio»). Non conta sapere se di essa si potrà mai fare conquista definitiva: ciò che importa, invece, è continuare a poetare intorno al suo stesso mistero. Perché la poesia non “definisce”, non chiude le cose e le emozioni nel rigido schematismo del Concetto. La poesia è, piuttosto, inesausto canto attraverso cui l’uomo cerca di colmare quella mancanza di Senso che crede di scorgere quando rivolge gli occhi alla propria interiorità e agli sconfinati labirinti della Terra. Un canto che deve essere rivolto al cielo con la consapevolezza che, anche se la propria vita è macchiata dal dolore e dalla tristezza (come Dylan canta nella dolceamara chiusa di “Buckets of Rain”), bisogna comunque continuare a vivere, sforzandosi di fare il proprio dovere. Se, poi, c’è qualcuno da amare, tanto meglio.

Life is sad
Life is a bust
All ya can do is do what you must
You do what you must do and ya do it well
I’ll do it for you, honey baby
Can’t you tell?

La vita è triste
la vita è una fregatura
tutto quello che puoi fare è fare ciò che devi
fai quello che devi e fallo bene
lo farò per te, dolcezza
non riesci a capirlo?

Il successo di Blood on the Tracks rimise Dylan al centro dell’universo cantautoriale. La prima metà del 1975 fu per lui un periodo di intensa ispirazione e questo si tradusse in nuove session per la registrazione del materiale inedito poi confluito su Desire (gennaio del 1976). Per la scrittura di gran parte dei testi, fondamentale fu l’apporto di Jacques Levy, un compositore che, oltre a essere uno studioso di psicologia, era stato anche un regista teatrale d’avanguardia.

Lontano dai toni introspettivi del suo predecessore e più orientato su coordinate blues-rock, Desire segnò anche il ritorno di Dylan all’impegno civile, come ben dimostra la famosa “Hurricane”, alzata di scudi a difesa del pugile afroamericano Ruben “Hurricane” Carter, ingiustamente imprigionato per l’accusa di triplice omicidio. A rendere il brano ancora più incalzante, contribuiscono il violino di Scarlet Rivera (una musicista di strada scovata per caso al Greenwich Village: sarà un incontro decisivo, perché il suo violino, dal suono insieme vibrante e umbratile, è lo strumento che, più di altri, dà vigore alle tonalità emotive del disco) e le conga di Luther Rix. L’incedere lento e marziale di “Isis” ci proietta, invece, in un immaginario esotico, al cospetto della dea egizia della maternità, della fertilità e della magia, in un probabile ed ennesimo riferimento alla moglie Sara. Tra i musicisti che parteciparono alle registrazioni di Desire c’era anche la cantuatrice Emmylou Harris, la cui voce fa da controcanto o accompagna quella di Dylan in molti dei brani del disco, tra cui la solare “Mozambique”, la desolata serenata di “One More Cup of Coffee” (con accenti tzigani di violino), il solenne sermone di “Oh, Sister” (in cui amore profano e amore mistico entrano in rotta di collisione), la toccante ballata mariachi di “Romance in Durango” (cantata da Dylan in anglo-spagnolo) e la spensierata (nonostante vi si tratti del tema della morte che può scaturire da improvvise catastrofi) “Black Diamond Baby”. Il brano più controverso, oltre che il più lungo del disco, con i suoi undici minuti di durata, è invece “Joey”, apologia del boss italo-americano Joe Gallo (ucciso nel 1972) che gli valse numerose critiche. Con la conclusiva “Sara”, infine, Dylan elevò il suo definitivo e disperato tributo alla moglie, ormai sempre più lontana e irraggiungibile.

Sara, Sara
Wherever we travel, we’re never apart

(…)

Sara, oh Sara
Glamorous nymph with an arrow and bow
Sara, oh Sara
Don’t ever leave me, don’t ever go

Sara, Sara,
Dovunque andiamo, non siamo mai distanti”

(…)

“Sara, oh Sara,
Attraente ninfa con freccia e arco
Sara, oh Sara,
Non lasciarmi mai, non andartene mai

Forte di riscontri più che positivi da parte di critica e di pubblico, Dylan si preparò al nuovo tour con rinvigorita passione. Questa volta, però, decise di fare le cose a modo suo, inventandosi la Rolling Thunder Revue, una carovana itinerante di musicisti (Joan Baez, Roger McGuinn, Ramblin’ Jack Elliott, T-Bone Burnett e Mick Ronson alcuni dei nomi più in vista) che lo avrebbe accompagnato in giro per gli Stati Uniti. Durante quei concerti, Dylan si divertì a rivisitare i propri brani sera dopo sera, lasciandosi alle spalle la sterile e fedele riproposizione di quanto già messo su disco. Alcune delle registrazioni provenienti da quei concerti si possono ascoltare sul doppio Live 1975, uscito nel 2002.

Una seconda Rolling Thunder Revue partì nella primavera del 1976 e valse la registrazione di un nuovo disco dal vivo, Hard Rain, che sarebbe stato immesso sul mercato nel settembre successivo.

Nel 1977, Dylan iniziò a lavorare, invece, a Renaldo and Clara, un mastodontico film (nella sua versione originale durava quasi cinque ore!) che egli aveva immaginato come una sorta di poema audiovisivo basato sulla serie di concerti della “Rolling Thunder Revue”. Distribuito nel 1978, il film si rivelò un clamoroso flop.

Dopo essersi separato dalla moglie Sara, Dylan imboccò il sentiero di una profonda crisi personale, cui cercò di porre rimedio con un nuovo tour, che a questo giro toccò anche il Giappone. Dalle registrazioni dei concerti del 28 febbraio e del primo marzo a Tokyo, fu tratto il live Bob Dylan at Budokan (1978). Prima che il tour approdasse in Europa, su pressioni della Columbia venne, quindi, registrato, in appena una settimana, un disco nuovo di zecca.

Pubblicato nel giugno del 1978, Street-Legal è uno dei lavori più scopertamente autobiografici della sua carriera: Dylan ha su di sé tutto il fardello emotivo degli ultimi anni, ma è già in cammino verso un nuovo inizio. Il brano d’apertura, l’accattivante “Changing of the Guards” è, in tal senso, esemplare: c’è bisogno di un “cambio della guardia”. Sbilanciato sul versante del pop-rock, con non poche incursioni nel soul e con fiati e cori a dare consistenza all’impasto sonoro dei vari brani, il disco mantiene comunque un livello d’ispirazione più che dignitoso, passando in rassegna lussurie e citazioni bibliche (“New Pony”), ballate folk in chiave gospel (“No Time No Think”), accorate evocazioni dei disperati messicani che cercano di varcare la frontiera alla ricerca di una vita migliore (“Señor (Tales Of Yankee Power)”) e una “Where Are You Tonight (Journey Through Dark Heat)” le cui volute di organo e il cui ritornello fanno pensare a una rivisitazione di “Like A Rolling Stone”. E anche quando, come nel caso di “Baby, Stop Crying” (scelto, non a caso, come singolo), “Is Your Love In vain” e “True Love Tends to Forget”, le emozioni sono filtrate da una musicalità relativamente più banale, la confezione è così accurata che si può tranquillamente chiudere un occhio.

Street-Legal fece storcere il naso a molti, ma a Dylan continuava a importare veramente poco di quello che la gente poteva pensare di lui e della propria musica. Anzi, di lì a poco avrebbe lasciato tutti di stucco con una scelta a dir poco sorprendente, come vedremo nella prossima puntata.

Note:

  1. L’espressione outlaw country (“country fuorilegge”) si riferisce a una corrente della musica country sviluppatasi negli Stati Uniti fra gli anni sessanta e settanta e in parte proseguita nei decenni successivi. Denominazioni alternative sono outlaw movement (il “movimento fuorilegge”) o outlaw music (“musica fuorilegge”). L’outlaw country fu l’espressione nel genere country dell’emergere delle controculture giovanili degli anni ’60 come il movimento hippie, e può essere paragonata alle nuove tendenze rappresentate nel rock, per esempio, dai Rolling Stones. I musicisti “fuorilegge” si opponevano essenzialmente ai canoni estetici e culturali del country mainstream di Nashville (rappresentato per esempio da Porter Wagoner e Dolly Parton), che giudicavano troppo edulcorato, commerciale e conservatore; portavano i capelli lunghi, si vestivano come hippie, scrivevano versi su temi “proibiti” come droga e sesso, e si rifacevano stilisticamente da una parte ai padri della tradizione honky tonk come Jimmie Rodgers e dall’altra al rock and roll. (Wikipedia)
  2. Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Feltrinelli, 2011, pag. 306
  3. Ivi, pagg. 306-307
Discografia Consigliata

John Wesley Harding (1967)
Blood on the Tracks (1975)
The Basement Tapes (1975)
Desire (1976)
Street-Legal (1978)

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