la più antica rock band di Napoli
Intro

Per rievocare lo spirito originario del rock’n’roll, abbiamo posto dieci domande a Giuseppe Savarese, leader e voce dei Willy and the Internationals, la prima band a suonare rock’n’roll nella città partenopea. Il risultato è un’intervista lunghissima, in cui Giuseppe mostra ancora oggi, a distanza di quasi sessant’anni dalla nascita della sua band, una passione smisurata per la musica che fu di Chuck Berry, Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e tanti, tanti altri.

Francesco Nunziata

Giuseppe, vuoi dirci in che modo, all’epoca, scopristi il rock’n’roll?

Giuseppe Savarese

E’ importante ricostruire l’atmosfera musicale degli anni ’50 in Italia. Intanto, non esisteva la TV, almeno fino la 1954 e la musica si ascoltava alla radio o dai dischi. La canzoni in voga erano dolci, appassionate, romantiche, spesso suonate da belle orchestre, con prevalenza di archi come quella del maestro Cinico Angelini o come quella, più ricca di fiati, del maestro Gorni Kramer. I cantanti Gino Latilla, Nilla Pizzi, Giorgio Consolini, Claudio Villa, tutti di garbo e di passione, porgevano le canzoni con cura per far capire il significato del testo. Certo, ogni tanto c’erano dei motivetti più allegri che raggiungevano il successo, simpatici e garbati anche quelli, come I Pompieri di Viggiù e Papaveri e papere.

Poi c’era il cinema. I film erano in Technicolor, iniziava l’epoca del Cinemascope, con quel grandissimo schermo rettangolare e leggermente ricurvo che favoriva l’immersione dello spettatore nell’azione. A volte andavo a cinema con mio padre la sera, ma anche da solo, o con amici, di pomeriggio, visto che ero molto rapido nel fare i compiti, specie quelli di matematica e geometria. Così una volta mi capitò di vedere, al cinema Amedeo in Via Martucci a Napoli, il film Senza tregua il rock and roll. E qui si accesero diverse scintille. Una musica mai sentita prima, un ritmo trascinante, strumenti elettrici mai visti, voci urlate, una lingua sconosciuta. Ma che importanza aveva capire le parole delle canzoni? Bastava il ritmo, il sound, la carica emotiva. Quelle canzoni così diverse erano cantate da Bill Haley, con la faccia da pacioccone, ma con una spinta notevole che incitava al movimento. Il sassofonista si agitava, il bassista saliva in piedi sul contrabbasso senza smettere di suonare. Poi in altri film, come Gangster cerca moglie, si sentivano le urla di Little Richard, la voce sottile, con falsetti, ma carica di forza interiore di Gene Vincent, i singhiozzi di Eddie Cochran. Perfino in Only You, una canzone romantica, c’era quel gorgheggio dei Platters che no, dalle parti nostre, non si era mai sentito prima. Che musica era quella? Trasportava energia pura, senza nemmeno la necessità di capire quello che i cantanti stavano dicendo. E poi, quel ballo scatenato, con le ragazze che scivolavano sotto le gambe del partner o venivano sollevate in aria! La musica allora era anche energia, non solo sentimento e passione. Altro che i valzer, i tanghi e i lenti che si esaurivano in una mattonella ai balletti! Così – avevo 14 anni – ai balletti, oltre al ballo della mattonella che serviva per avere i primi contatti fisici con le ragazze, cominciammo a ballare il rock and roll. Anche acrobatico.

Francesco Nunziata

Vuoi raccontarci un po’ che atmosfera si respirava, intorno alla metà degli anni Cinquanta, a Napoli?

Giuseppe Savarese

La libertà che avevamo noi ragazzi, all’epoca, era veramente minima, considerata la situazione di oggi. Eravamo tutti casa e scuola. Però giocavamo a calcio per strada, e ci divertivamo molto, a meno che non venisse la polizia a scacciarci. Quando arrivava, scappavamo in tutte le direzioni. Uno di noi metteva in salvo il pallone superflex, altrimenti la polizia lo sequestrava. Per incontrare le ragazze poi, o lo si faceva ai balletti, sotto l’occhio vigile e nascosto dei genitori, o si dovevano trovare scappatoie e sotterfugi incredibili. Andare a farsi una pizza con una ragazza era praticamente impossibile. La musica si seguiva alla radio, oppure andavamo nei negozi di dischi a via Vittorio Colonna o a Via San Pasquale, a chiedere se arrivavano novità dall’America. Ne arrivavano un paio alla settimana, non esisteva l’inflazione musicale di oggi. Ascoltavamo i dischi in cuffia prima di acquistarli. Poi portavamo ai balletti i dischi acquistati e li suonavamo mentre ballavamo.  Insomma, non è che si facesse granché…

Francesco Nunziata

Molti studiosi sostengono che, per la diffusione del rock’n’roll nell’area urbana di Napoli, fondamentale fu la presenza dei militari americani. Qual è la tua opinione a tal proposito?

Giuseppe Savarese

Il quadro della Napoli negli anni ’50 e ai primi anni ’60 è ampiamente descritto, con grande dovizia di particolari e foto d’epoca, nel libro Rock and Roll Italian Way, di Marilisa Merolla, docente di Storia Contemporanea alla Sapienza. La folta presenza di Americani a Napoli, che avevano invaso le abitazioni di Via Manzoni, Via Caravaggio e Bagnoli, dove c’era anche il Comando NATO della Forze Alleate, più quelli che sbarcavano continuamente dalle navi della Sesta Flotta ancorata nel golfo, rischiavano di evocare nella popolazione lo spettro ancora vivo della guerra. Gli Alleati, che per forze di cose s’incontravano spesso, anche in divisa, nelle vie della città, volevano apparire amici e farsi benvolere dai cittadini. La politica degli americani era chiara: far conoscere alla gente l’America attraverso l’informazione (stampa, radio, film) e la cultura a tutto campo (biblioteche, seminari, convegni, gemellaggi con le scuole cittadine per fare incontrare i loro studenti con i nostri, manifestazioni sportive, persino l’elezione di miss AICA, l’Associazione Italo-Americana, dove concorrevano studentesse napoletane e americane. Tra questi eventi di tutti i tipi, c’erano programmi musicali, anche con esibizioni di band americane che suonavano il rock and roll. Ma era soprattutto la  musica jazz ad essere veicolata dalla Band della Sesta Flotta, che si esibiva in molte occasioni in città. Occorre anche dire che, per tenere alto il morale delle truppe e per tenerle aggiornate con quanto accadeva in America, specie in campo musicale, nella base NATO c’era un Club per gli alti ufficiali, più il Flamingo, per tutti i militari, dove si suonava e si ballava, un negozio di dischi fornitissimo con tutte le novità, mentre a Calata San Marco, in vicinanza del porto, c’era l’USO Club e un Club per soli uomini, poi il Cinema Teatro La Perla a Bagnoli, sede di numerosi spettacoli musicali e cinematografici. Ma io che abitavo a Napoli, in quel periodo, non ero informato di nulla, non vedevo la pubblicità di questi eventi, che rimanevano confinati tra pochi napoletani, e inoltre moltissime manifestazioni erano fatte dagli americani solo per gli americani. Gli italiani non erano invitati. Alla base Nato nessun italiano poteva entrare. Fortunatamente, il marito di mia cugina lavorava alla Nato di Bagnoli, lui sì che poteva entrare. Fu lui a procurarmi il primo disco inciso da Elvis Presley, un 45 giri con That’s all right e Blue Moon of Kentucky, due pezzi che inauguravano di fatto il genere rockabilly. Questi dischi arrivavano nei negozi in Italia con anni di ritardo, in edizione italiana e non originale. Conservo ancora i 45 della RCA Victor acquistati con questo sotterfugio alla base NATO e li custodisco gelosamente. All’USO Club, poi, andavo a cantare nel gruppo napoletano I Notturni, prima ancora di fondare Willy and the Internationals. Ero l’unico che sapeva cantare in inglese, l’altro cantante del gruppo cantava canzonette italiane. Vi assicuro che nessun napoletano era presente in sala. E non cantavo nemmeno rock and roll. Vero è che una radio americana per nove ore al giorno trasmetteva canzoni scelte da disk jockey americani, ma la RAI osteggiò per anni questa iniziativa, geloso del suo monopolio sulle radiodiffusioni. La situazione si sbloccò solo nel 1963, quando si aprì il nuovo centro di produzione della RAI di Napoli a Fuorigrotta.

Concludo dicendo che un’influenza per la diffusione del rock and roll dalle truppe americane a Napoli ci fu, ma a mio avviso, molto limitata. Anche perché il rock and roll non godeva, in America, del totale favore degli americani. Questa musica era considerata troppo trasgressiva, dirompente, distruttrice dell’educazione classica dei giovani, incitante alla commistione tra bianchi e neri, con frequenti e più o meno esplicite allusione al sesso libero, a cominciare dallo stesso nome “rock and roll”. Gli Americani a Napoli erano timorosi di mandare in onda questa musica o mostrare una band che poteva apparire composta da giovani delinquenti. Aggiungo che, quando fu fondato, a fine 1962 ma di fatto nel 1963, il gruppo Willy and the International, fummo noi tre italiani a cercare i tre americani che fecero parte della prima formazione, non certo loro ci invitarono a suonare con loro. Scrive a tal proposito Marlisa Merolla, pubblicando anche una foto del gruppo e un trafiletto di Panorama, il giornale degli americani della NATO: “Maschi o femmine, napoletani o americani, tutti impazzivano per le band di rock and roll fatte in casa, come Willy and the Internationals, il gruppo composto dagli studenti della Sherman School Frank Piraino, Bill Meyers e Bill Dowling e da tre universitari napoletani Geppino Savarese (Willy), Claudio Castaldo e Franco Ferrante, che aveva conquistato un contratto con la casa discografica VIS Radio e un’apparizione in televisione grazie ad un’indiavolata versione di Lucille, l’hit del rocker nero Little Richard.”

Diciamo pure, che fummo noi (ma tardi, nel 1963) a trasmettere il rock and roll ai napoletani, ingaggiando tre americani, che ci aprirono anche – finalmente! – le porte del Flamingo, consentendoci, quindi, di suonare rock and roll per gli americani.

Francesco Nunziata

Quali furono le circostanze che portarono alla formazione di Willy and the Internationals?

Giuseppe Savarese

Inseguendo in due la stessa ragazza, avevo conosciuto Claudio Castaldo, un tipo assolutamente fuori dal comune. Di un’intelligenza viva, parlava velocissimo, era alto e magro come un grissino, stava un passo avanti agli altri, sempre un po’ depresso per amori non corrisposti, sembrava l’incarnazione del blues, ma soprattutto, nel 1962, suonava la chitarra elettrica con una fluidità e un’eleganza come non avrebbe mai saputo fare chiunque altro in Italia. Sapeva anche arrangiare i pezzi e conosceva la musica perché sua madre era diplomata in pianoforte. Claudio suonava, quell’estate, con i fratelli Paolo e Enrico Moscarelli, a Gabicce Monte sull’Adriatico. Intrapresi un viaggio in macchina sull’Adriatico con il preciso scopo di convincere Claudio a lasciare quei “tanghisti” dei fratelli Moscarelli e di mettere su un gruppo rock con lui.

Ci riuscii. Dopo l’estate, ci mettemmo in cerca di altri componenti. Provammo due o tre batteristi, finché trovammo Franco Ferrante, ancora in fase di apprendimento, ma, sotto la guida di Claudio, poteva andare. Solo che, per fare rock, ci volevano americani doc. Li trovammo, perché a Napoli c’era una fiorente base NATO piena di militari americani. A via Manzoni c’era la Forrest Sherman School. Lì trovammo Frank Piraino alla chitarra di accompagnamento, Bill Dowling al basso e Bill Meyers all’altra chitarra ritmica. Sì, tre chitarre e nessun pianoforte: un’eresia per l’epoca. Ma il sound doveva essere quello giusto: rock. Per i tre americani era la musica della loro estrazione. Nei primi due mesi del 1963 imbastimmo un repertorio con Lucille, What I’d say, Crawfish, qualche canzone western come Darlin’ Cora, qualche altra americana come Ali Baba dei Champs, in cui mi divertii a mettere le parole in Italiano sul pezzo strumentale dei Champs, qualche nuovo motivo originale in lingua come Vieni tesoro, con doppi sensi allusivi al sesso in puro stile rock. Il gruppo prese il nome di Willy and the Internationals: Internationals, perché c’erano tre americani e due italiani agli strumenti; Willy, perché dovevo avere un nome inglese in onore alla musica proposta, e poi Geppino e gli Internationals, francamente, come nome di un gruppo rock, avrebbe fatto semplicemente ridere.

Gli eventi precipitarono. Willy and the Internationals si esibivano ogni sabato, o alla Forrest Sherman School, o nei MAK P 100 delle scuole a Napoli, o alla NATO.

Storica fu una delle due esibizioni a Palazzo Reale in occasione del MAK P 100 della Nunziatella, una festa di alta società. Nel salone delle feste, in un angolo, c’erano Willy and the Internationals, con un’attrezzatura di prim’ordine, tanti watt a disposizione, chitarre Gibson, amplificatori Fender, eco Binson con tamburo magnetico indistruttibile al posto del nastro del Meazzi. Avevamo investito in attrezzatura con i soldi guadagnati nelle esibizioni. All’angolo opposto del salone c’era Gino Paoli, ospite d’onore. Gino suonava, quella sera, in un altro locale di Napoli e sarebbe intervenuto solo per mezz’ora a Palazzo Reale. Prima della festa, durante il sound check, aveva portato in sala un’attrezzatura essenziale e nemmeno la batteria, non agevole da trasportare avanti e indietro dalla reggia al locale. Chiese di suonare sull’impianto di Willy and the Internationals, ma noi eravamo gelosissimi delle nostre attrezzature e gli dicemmo di no. Possibile che un grande come Gino Paoli non fosse fornito come o meglio di loro? Allora Gino chiese in prestito almeno la batteria, ma gli fu gentilmente fatto notare che non era appropriato, nel bel mezzo della festa, con giovani militari in divisa e ragazze in abiti da sera, smontare una batteria da un angolo della sala, trasportarla all’altro angolo, montarla, poi di nuovo smontarla dopo mezz’ora, rimetterla al posto suo, infine rimontarla. Sembrò una proposta oscena, poi da un grande come Gino Paoli! Gli fu detto ancora una volta “no”. Gino non la prese bene e si offese pure. Quei giovani dovevano essere più rispettosi per un artista del suo calibro e trovare una soluzione. Il fatto è che erano davvero ragazzi indisponenti e irrispettosi, e poi, sotto sotto, a loro faceva piacere fare più bella figura di Gino Paoli con i loro 1000 watt dell’impianto, un’orchestra di 6 elementi, mentre lui a stento si sarebbe sentito, avrebbe trascinato una batteria ridotta ai minimi termini nel bel mezzo del salone delle feste, suonando in tutto con tre persone. Tra i musicisti c’è spesso una grande gelosia. A distanza di anni, Willy and the Internationals chiedono scusa a Gino Paoli. Però andò così.

Pochi giorni dopo, Willy e Claudio, con una bella faccia tosta, si presentarono al maestro Conte della VIS Radio, l’etichetta discografica più importante di Napoli. La VIS Radio incideva dischi quasi esclusivamente di musica napoletana. Gli raccontarono di questa nuova strana formazione senza pianoforte. Il maestro si incuriosì e chiese un’audizione. Il giorno dopo il gruppo era sotto contratto per due 45 giri. Con l’appoggio della casa discografica, ma anche risultando primi in una selezione dove solo due artisti su otto sarebbero andati in onda, la band apparve in TV nella trasmissione Carnet di Musica dalla sede RAI di Via Claudio. Era l’8 giugno del 1963, poco più di sei mesi dalla fondazione del gruppo. Allora di canali TV ce n’era uno solo, in bianco e nero, funzionava solo di pomeriggio e fino a mezzanotte. Un successo fulminante.

Francesco Nunziata

Cosa accadde dopo la partecipazione al programma della Rai?

Giuseppe Savarese

Le vendite del disco non andarono troppo bene, perché la VIS Radio distribuì il disco nei negozi in tutta Italia oltre tre settimane dopo l’apparizione in TV, mentre avrebbe dovuto essere disponibile subito, date le numerose richieste. Il rapporto con la Vis Radio cominciò a incrinarsi. Il maestro Conte poi, direttore artistico della VIS Radio, tradizionalista, grande esperto di musica napoletana, in fondo spingeva il gruppo in quella direzione. Aveva richiesto la registrazione di una canzone napoletana, Nuttata ‘e sentimento. Era nettamente fuori schema, ma Claudio accettò la sfida. Mise a punto un arrangiamento rock con un riff delizioso che fu registrato, stravolgendo gli accordi originali, a ulteriore riprova che, con opportuni aggiustamenti, qualsiasi motivo può essere trasformato in rock puro e che il pentagramma è un campo in cui si può piantare di tutto.

Poi successe un altro fatto negativo. I genitori dei tre ragazzi americani furono trasferiti in blocco alla base NATO in Germania. In un sol colpo si persero tre Internationals. Il contratto con la VIS Radio fu sciolto di comune accordo, con l’unico grande rammarico di non aver potuto mai più recuperare la base di Nuttata ‘e sentimento, che rimase un capolavoro incompiuto e un’opportunità perduta.

Dopo qualche tempo Willy e Claudio ricostruirono il gruppo, che continuò la sua attività ancora con un americano alla chitarra, Jim Montgomery, al basso un italo-americano, Julian Vertfeuille, e soprattutto con Raffaele Cascone. Raf era un personaggio a dir poco eccentrico. Claudio gli diede lezioni di chitarra, lui la suonava tirando le corde, a volume altissimo, nella sua mansarda di Via Cilea, facendo credere ai condomini che stavano arrivando i marziani. Il gruppo, con Salvatore Vignati al basso, partecipò in quel periodo a vari concerti, da solo e con artisti di grido dell’epoca, quali Edorado Vianello, Umberto Bindi, Alighiero Noschese.

Raffaele Cascone lasciò tutti per andare in Inghilterra, la patria del rock degli anni ’60. Intraprenderà una carriera in RAI conducendo per anni la trasmissione Per voi giovani e mandando in onda i successi del momento.

La laurea in ingegneria si avvicinava per Willy. Per la musica c’era meno tempo. Claudio e Franco lasciarono il gruppo, Willy continuò con una nuova formazione dal sound minimalista, comprendente suo fratello Claudio, i fratelli Aldo e Enio di Mauro, Maurizio Mignone e Arturo Olivieri. Storica fu l’esibizione in un MAK P 100 al ristorante D’Angelo, quando, a seguito di un’ossessiva e ritmata Sentite Amici, una revisione nostrana di Everybody needs someboody – incisa la prima volta da Salomon Burke nel 1964 – gli studenti sfasciarono i tavoli e un gatto si arrampicò velocissimo su una tenda, rimanendo lì appeso ed esaltato. L’ultima esibizione della band fu al teatro Politeama, dove Willy cantò una versione rock di una canzone napoletana di Sergio Bruni. Con la laurea in ingegneria, cinque anni e 110 e lode, Willy appese il microfono al chiodo e gli Internationals, ormai nemmeno più tali, ci appesero le Fender e quant’altro.

Ma il fuoco covava nelle ceneri. Negli anni ’80 Willy si procurò un computer e un registratore, prima a 4, poi a 8 piste, dove si divertì a incidere le canzoni che più amava cantare, con nuovi amici: Salvio Di Iorio, Mimmo Cristiano, Vanna Torre, Paolo Fergola, Tonino Santilli. Si era attrezzato con una batteria elettronica, un sintetizzatore a campionamento, un computer che programmava. Un’altra concezione della musica, tecnologica e divertente, ma non dal vivo. Willy avrebbe voluto chiamare Claudio Castaldo e rimettere su un gruppo rock con le nuove tecnologie. Pensava di poterlo fare sempre, ma rimandava, finché l’occasione si perse definitivamente. Claudio Castaldo fu commemorato su Repubblica da un toccante articolo di Raffaele Cascone, ora giornalista.

Numerose furono le registrazioni di brani negli anni ’80 eseguite da Internationals che, registrando tracce anche senza conoscersi ed incontrarsi, alla fine riuscivano a imbastire ottime basi sulle quali Willy, da solo o in coppia con altre cantanti sue amiche, ci metteva la voce.

Nel 2009 Willy e Raffaele si incontrano e decidono di rifondare Willy and the Internationals per esibizioni live. Trovano, tra gli elementi storici, ancora disponibile Enio di Mauro al basso. Provano una sera al Club Megaride a Santa Lucia e rimangono tutti piacevolmente sorpresi che il sound dell’epoca è sempre intrigante e che Lucille e Be-bop-a-lula vengono una bellezza. Con Frank Di Lello alla chitarra ritmica, con la piacevole scoperta che Giorgia, figlia di Enio, non canta solo canzoni di Mina ma ha un’anima squisitamente soul, e con Luigi Talotta, un batterista che veniva apposta dalla Calabria per le prove, rimettono su la band e – corsi e ricorsi storici – dopo una settimana, Raffaele viene invitato in RAI TV a Uno mattina per un dibattito sulla beat generation. Naturalmente, propone il gruppo, che appare di nuovo alla televisione nazionale dopo 46 anni con il vecchio e glorioso Ali Baba.

Willy and the Internationals tornano a esibirsi nei teatri e nei locali con una formazione abbastanza stabile che durerà fino al 2016 con 8 elementi, in certe occasioni anche 9 o 10, avvalendosi anche di talenti estemporanei al gruppo. La rock band riprende molti brani della formazione originale del 1963, cercando di ricreare il sound della musica degli anni ’50 e ’60, rispettando lo spirito del rock e R&B dell’epoca, ma senza forzare fuori dai binari naturali lo stile personale dei solisti e le notevoli doti canore della voce nera di Giorgia. In questi anni il gruppo si esibisce una quarantina di volte in locali e soprattutto in teatri cittadini. L’ultimo show di grande successo è stato il musical Elvis & Friends, rappresentato al teatro Delle Palme nel 2017, con sceneggiatura e regia di Willy, la compagnia di attori The Insiders e una coreografia di 4 ballerini che ballavano il rock and roll acrobatico. Lo spettacolo, che rievocava la vita di Elvis Presley e dei suoi contemporanei, è stato perfino oggetto di un libro, Elvis & Friends, che si trova in vendita su Amazon.

Francesco Nunziata

Hai scritto un libro che si chiama “Il rock prima del rock” (Oxiana; 2012). Beh, com’era il rock “prima del rock”?

Giuseppe Savarese

Il libro illustra, in uno stile scorrevole e immediato, utilizzando una tecnica innovativa di conversazioni via facebook e di rimandi diretti a file YouTube, l’evoluzione della musica americana a partire dall’800 fino agli anni ’50, cercando di individuare, in questo percorso, tutti le radici musicali del rock and roll e quindi del rock.  Al giro di boa del mezzo secolo, tutti i tasselli del mosaico giunsero al posto giusto. Il blues, figlio dello spiritual, con le sue classiche 12 battute; il jazz, con preziosi interventi dei tipici strumenti a fiato; il gospel, con spunti di puro stile vocale nero; il country, perché il discorso non era monocolore ma multietnico; il boogie woogie, con l’incalzante e ripetitiva impostazione ritmica associata a un ballo vivace; il rhythm and blues, con le battute insistentemente accentate sui tempi pari. Si mettano questi ingredienti in un mixer, si mescoli bene, si aggiunga una scintilla di sana trasgressione musicale, mezzi di diffusione quali i dischi a 45 giri, il juke box, le stazioni radio specializzate, una gioventù spumeggiante, ed ecco che nasce il rock and roll, il tronco dell’albero del rock. Non da una rivoluzione, ma da una lunga gestazione, nella maniera più naturale possibile. Annunciato, inevitabile ed ineluttabile: un’evoluzione della specie.

Sulla copertina del libro appare la base di un tronco d’albero centenario sempreverde, dalle radici nodose, potenti e affioranti sul terreno, piantato nel giardino della Musica. La base del tronco è il rock and roll classico. A partire dal sottosuolo verso l’alto, vengono prima le radici, che non sono proprio l’albero ma, allo stesso tempo, lo sono: il rock prima del rock. Le radici continuano ad alimentare l’albero e si rinforzano: il jazz, il blues, il gospel. Dal tronco si diramano i rami principali. Più su i rami si dividono e si moltiplicano: l’hard rock, il progressive, il punk. Alla sommità, l’albero si protende verso il cielo ma finisce. Non è morto, è ben vivo e le foglie che produce, le canzoni, sono simili a quelle sui primi rami dell’albero. Magari è una sequoia e vivrà mille anni. Ogni tanto viene una primavera che fa spuntare un nuovo ramo. Un rametto in più non mette e non toglie alla sua imponenza.

Francesco Nunziata

Se dovessi stilare una playlist di 10 brani rock’n’roll, quali titoli sceglieresti?

Giuseppe Savarese

Al primo posto, senz’altro, Rocket “88” di Jackie Brenston and his Delta Cats. Questa pezzo è pressocché sconosciuto dalle parti nostre, ma è considerato, dalla critica ufficiale, il primo rock and roll della storia. Ike Turner aveva perduto da poco il sassofonista. Con la raccomandazione di B.B. King, era riuscito a prenotare la sala di registrazione nello studio di Sam Philips due settimane più avanti. Per caso, si imbatté in Jackie Brenston, cantante, compositore e sassofonista. Lo assunse subito e gli diede l’incarico di imbastire e cantare un pezzo. Con pochi giorni a disposizione, non c’era tempo di inventarsi qualcosa di radicalmente nuovo. Le canzoni sulle automobili tiravano, anche per la loro più o meno velata allusione al sesso. Jackie Brenston pensò bene di scopiazzare un po’ da Jimmy Liggins e un po’ da Pete Johnson. Senza nessuna grande originalità. ma con molto gusto, compose la sua Rocket “88”, riferendosi all’omonimo modello Oldsmobile in voga, curando bene l’orchestrazione. La registrazione avvenne il 2 o forse il 4 marzo 1951. Al piano c’era lo stesso Ike Turner. Jackie Brenston cantò la canzone e si fece rimpiazzare al sax tenore dal diciassettenne Raymond Hill, primo marito di Tina Turner, che poi lo lascerà per sposare lo stesso Ike Turner. La formazione fu completata, estemporaneamente, da Willy Sims alla batteria e dal chitarrista di Ike Turner, Willie Kizart, alla chitarra solista.

Al secondo posto, ci metto la canzone autobiografica Johnny B. Goode, di Chuck Berry, un cantante, ma soprattutto un autore che meriterebbe di essere tradotto estensivamente, perché le parole delle sue canzoni, su cui noi in Italia spesso sorvoliamo, sono sempre molto originali e incisive. Quando alla NASA lanciarono la sonda spaziale Voyager nel profondo dello spazio, per arrivare “lì dove nessuno è mai giunto prima” alla ricerca di nuove forme di vita e civiltà, pensarono bene di inviare un campionario del meglio di quello che gli umani possono produrre, il cosiddetto Golden Record che contiene suoni, immagini, musica e i saluti in tutte le lingue note e meno note. Per la musica, accanto a Bach, Beethoven e Mozart, c’è – unico rappresentante della musica non colta o tradizionale – proprio un padre fondatore del Rock’n’roll: Chuck Berry. La sua Johnny B. Goode, sparata verso le stelle su un disco d’oro di 12 pollici, è divenuta immortale oltre il tempo e lo spazio.

Sul terzo gradino del podio ci metto Rock around the clock di Bill Haley, la canzone che più di tutte veicolò il rock and roll in Italia e nel mondo. Fu la canzone della mia iniziazione al rock and roll, come già accennato.

Il quarto posto va Blue Moon of Kentucky, una canzone inizialmente incisa, in stile country, nel 1946 da Bill Monroe. Otto anni dopo, nel 1954, Sam Philips coronò il suo sogno di scovare un artista bianco che cantava come un nero. Con inflessioni vocali mai udite prima, il ragazzo agitava il bacino in scena e muoveva le gambe in una maniera incredibilmente sexy e provocante, in linea con il significato, nemmeno troppo recondito, di rock and roll. Il suo primo 45 giri conteneva due cover di vecchi brani interpretati però in maniera assolutamente nuova: Blue Moon of Kentucky e That’s all right mama. Il cantante era Elvis Presley. Elvis fu la goccia che fece traboccare il vaso. Componendo i due termini “rock and roll” e “hillbilly”, sinonimo di “country”,  il nuovo sottogenere prese il nome di rockabilly.

Al n. 5 ci metterei Lucille, di Little Richard. Il testo parla di una ragazza che, nonostante i consigli della sorella, scappa per andare a sposare un altro e lascia Little Richards a implorare il suo ritorno. Nel film Gangster cerca moglie, Little Richard si esibisce in un locale cantandola. La canzone faceva da leitmotiv al film. Nei concerti che Little Richard cominciò a dare in tutta l’America, i ragazzi bianchi e neri, inizialmente sistemati in aree separate, secondo le leggi vigenti in molti Stati, spesso si mescolavano, trascinati dal ritmo delle canzoni. Le associazioni razziste e benpensanti condannarono Little Richard per le sue canzoni, e per estensione, tutto il rock and roll, accusandoli di essere immorali, pieni di osceni riferimenti al sesso e addirittura parte di un complotto comunista teso a scardinare i sani principi della gioventù americana. Certo, il look di Little Richard, omosessuale, con i capelli alzati pieni di brillantina, gli occhi truccati, i baffetti rifilati e i vestiti sgargianti avrebbero anche potuto confortare queste tesi. Ma il successo del rock and roll fu così trascinante che la trasgressione di mischiare le razze cominciò a non essere più considerata tale.

Al n. 6 ci metto Summertime blues di Eddie Cochran. Nel film Gangster cerca moglie apparve, inquadrato in uno schermo TV, Eddie Cochran, altra meteora bianca del rock and roll. Somigliava, nell’aspetto, nelle movenze, nella pettinatura e nell’abbigliamento a Elvis Presley, o forse cercava di imitarlo. Le sue canzoni sono però assolutamente originali. In Summertime blues era affrontato il problema sociale del diritto di voto, all’epoca assegnato solo a chi aveva almeno 21 anni, cifra poi ridotta a 18, a seguito di insistenti richieste, incluse quelle nel testo della canzone. Non era solo la musica a istigare i giovani alla contestazione, ma anche le parole. Nel 1960, Eddie Cochran intraprende un tour di grande successo in Inghilterra. Durante un trasferimento in auto, alla guida un certo George Martin, la sua macchina si schianta su un palo. Gene Vincent, che era in auto con lui, si salva, ma non Eddie, che muore la notte stessa in ospedale a soli 22 anni.

Al n. 7 ci metto, infatti, Be bop a lula, di Gene Vincent e i suoi Blue Caps. Anche questa canzone, registrata con un effetto di eco corto ribattuto a una sola ripetizione, come aveva fatto scuola Elvis, fu inserita nel film Gangster cerca moglie, in cui una straripante Jane Mansfield si improvvisa cantante rock. Nel testo, Be-bop-a-lula è il nome di una regina dei teenager che indossa improbabili blue jeans rossi, ha i piedi che volano, il beat nel sangue. Il protagonista la desidera e afferma, unilateralmente, che è sua. Il nome della ragazza non proviene dal genere jazz be-bop, che nulla ha a che vedere con la canzone, ma probabilmente dal soprannome “Be-bop” del batterista dei Blue Caps, che amava mettersi in evidenza in tutti i modi possibili. Be bop a lula, del 1956, è un rock dal ritmo rallentato, che già precludeva a possibili evoluzioni. Gene Vincent si esibì anche con i Beatles in uno storico concerto allo Shea Stadium di New York nel 1965, ma non fu fortunato. Scampò a stento a due incidenti di auto. Tormentato dai dolori provocati da postumi dell’ultimo incidente, imbottito di medicinali per farvi fronte, stremato dalle interminabili dispute legali con le sue ex-mogli, dopo aver tentato di riproporsi come cantante country, morì a soli 36 anni.

Al n. 8, a pari merito, vanno Great balls of fire e Whole lotta skakin’ goin’ on di Jerry Lee Lewis. È indiavolato Jerry Lee Lewis quando canta e suona rock. Il suo rapporto con il pianoforte è estremo e violento. Non esita a battere sempre gli stessi tasti come se volesse distruggerli, inserisce glissati a ripetizione, si alza in piedi e suona come un forsennato mentre canta; quando è seduto allunga spesso il piede destro, con il quale batte sulla tastiera le note acute. Iniziò la sua carriera come turnista alla Sun Records, ma presto incise il suo primo hit, Whole lotta shakin’ goin’ nel 1957, seguito nello stesso anno dal suo più grande successo, Great balls of fire. Jerry Lee era trasgressivo non solo nella musica, ma anche nella vita privata. Non aveva nemmeno 30 anni quando, dopo il terzo concerto di un tour in Inghilterra nel 1958, si venne a sapere che la sua terza moglie era sua cugina e per di più tredicenne. Lo scandalo provocò ondate di accuse non solo su Jerry Lee ma sul rock and roll in generale. I rimanenti 34 concerti del tour furono annullati. Jerry Lee dovette quasi ricominciare da capo. La ripresa fu difficoltosa, ma il suo concerto live di 37 minuti allo Star Club di Amburgo è considerato una pietra miliare del rock and roll e ha fatto scuola a tutti i rockers che sarebbero venuti in futuro.

Il n. 9 spetta a Blue Suede shoes, di Carl Perkins. Carl Lee Perkins da bambino abitava in un quartiere di neri dove l’unica famiglia bianca era la sua. Quando suo zio gli regalò una chitarra cominciò a suonare country, come c’era da aspettarsi per un ragazzo bianco del Tennessee, ma fu influenzato anche dai blues dei neri che vivevano vicino casa. I suoi maestri furono B. B. King e John Lee Hooker, noti bluesman neri. Oltre che suonare, Carl scriveva nuove canzoni. Insieme ai fratelli Jay e Clayton e al batterista Bruce Holland fondò la Perkins Brothers Band, suonando nei locali di infimo ordine a Memphis. Il gruppo finì per approdare alla corte di Sam Phillips, la Sun, dove incise un 45 giri. Il successo giunse dopo che Elvis Presley lasciò la Sun per firmare un contratto con la RCA, così che Sam Philips ebbe più tempo e attenzione per dirigere Carl Lee verso il rock. In quel periodo, capitò a Carl Lee di vedere, in un locale dove stava suonando con il suo gruppo, un ragazzo sbraitare alla sua compagna di non pestargli i piedi ballando, perché aveva le scarpe di camoscio nuove. Prendendo in prestito la prima frase alla tradizione popolare, scrisse una nuova canzone:

“Uno, due, tre, ora vai, vai, vai,
ma non salire sulle mie scarpe di camoscio blu.
Fai quello che vuoi, ma stai lontano dalle mie scarpe di camoscio blu.”

Carl Perkins incise Blue suede shoes entrando subito in tre classifiche Billboard: Country, R&B e Pop. Alla RCA qualcuno si chiese se non avessero messo sotto contratto la persona sbagliata, ma la risposta venne quando fu Elvis a incidere la stessa canzone, surclassando nelle vendite la versione di Perkins. I due erano amici. Storica rimase la jam session negli studi della Sun del Million Dollar Quartet, il primo supergruppo della storia del rock, formato da Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Carl Lee Perkins e il cantante country Johnny Cash

Al n. 10 va un brano che non è strettamente un rock and roll, ma una vera e propria pietra miliare di tutto il rock che sarebbe venuto dopo nella seconda metà degli anni ’60 e negli anni ’70. Dopo un concerto di non grande successo negli Stati Uniti, tornato nella sua stanza di albergo, Keith Richard si mise a suonare la chitarra inventandosi qualcosa, mentre gli ronzava in testa il pezzo di Muddy Waters I can’t be satisfied. Mette in moto il registratore e poco dopo crolla in un sonno profondo. Il mattino dopo si sveglia, e ascolta, prima di 40 minuti del suo russare, la canzone che aveva composto: Satisfaction.  Il più grande successo dei Rolling Stones.

Francesco Nunziata

Sul sito ufficiale, i Willy and the Internationals vengono indicati come “la più antica rock band di Napoli“. Si può dire, insomma, che siete stati dei pionieri?

Giuseppe Savarese

Direi di sì. Che io ricordi, ai Mak P degli studenti che terminavano le scuole, c’erano i Campanino, che certo non suonavano rock, e noi, Willy and the Internationals. Nessun altro faceva rock a Napoli. D’altra parte, erano i tempi di Bruno Martino, Renato Carosone, Peppino di Capri, che cantò pure qualche rock, ma le sue canzoni erano quasi tutte napoletane. La nostra formazione era inusuale. Quando dicevamo che non avevamo pianoforte, ci chiedevano: ma come fate a suonare senza? Noi avevamo tre chitarre, un basso, una batteria e la mia voce, con tre americani in formazione. Nessun altro a Napoli poteva vantare una situazione simile.

Francesco Nunziata

Che rapporto hai, oggi, con la musica “rock” e quali sono le tue sensazioni quando ripensi all’epoca d’oro del rock’n’roll?

Giuseppe Savarese

La mia missione oggi, in musica, è quella di non far morire lo spirito del rock dell’epoca d’oro. Il rock degli anni ’50 ha avuto interessanti  evoluzioni negli anni ’60 e poi negli anni ’70, al punto da perdere completamente le sue caratteristiche iniziali. Devo dire che i Pink Floyd, massima espressione dell’evoluzione del rock, mi piacciono quanto Elvis Presley. Ma siamo di fronte a una musica estremamente diversa che, cercando di superare gli schemi in cui l’hard rock si era infognato e prendendo spunto dalla musica colta, ormai non ha davvero nulla a che vedere con il rock and roll.

Considero finito il rock negli anni ’80. Tutto quello che aveva da esprimere, l’aveva espresso già prima. In seguito, e fino a oggi, non ci sono state novità. Tutto il rock successivo è un’elaborazione, una riedizione, non un’evoluzione di quello precedente. La mia sensazione verso l’epoca d’oro del rock and roll è un senso di protezione: il mio intento è quello di preservare, far conoscere, divulgare tale importantissimo movimento musicale, affinché non cada nel dimenticatoio.

Francesco Nunziata

Cosa fanno Willy and the Internationals nel 2018?

Giuseppe Savarese

E proprio con questo intento che Willy and the Internationals, nel 2018, continuano a fare esattamente quello che facevano nel 1963: approntare un repertorio di classici del rock and roll, del rockabilly, del rhythm and blues, senza assolutamente copiare e scadere in una tribute band, ma sempre, instancabilmente, trovando arrangiamenti che mettano in risalto la bravura e l’estro dei singoli musicisti, rispettando lo spirito della musica dell’epoca, ben radicato nella mente di Willy. Perché Willy, questo spirito musicale, lo conosce bene. Non l’ha imparato o studiato sui libri o su YouTube: l’ha vissuto in prima persona.

Willy and the Internationals oggi contano 7 elementi e trovano il loro campo di azione in grossi locali e in palcoscenici teatrali. Per coprire i piccoli locali, Willy fonda un gruppo spin-off: Willy & Rockabillies, con un sound minimalista composto con solo tre strumenti (chitarra, basso e batteria), molto più prossimo alla formazione con cui si lanciò Elvis Presely, quindi adatto a riprodurre non solo le atmosfere delle prime otto registrazioni di Elvis Scotty & Bill, ma anche quelle delle piccole formazioni di Gene Vincent, Eddie Cochran, Chuck Berry, Etta James e altri grandi dell’epoca.

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