Storie di ordinaria follia rock
Intro

Scrittore e critico musicale, Massimo Padalino si è recentemente confrontato con alcuni dei personaggi più eccentrici e folli della storia del rock. Pubblicato dalla Giunti nel febbraio scorso, Storie di ordinaria follia rock è un libro che si legge d’un fiato, risultando estremamente godibile e anche molto divertente.

Di seguito, la nostra chiacchierata con l’autore.

Francesco Nunziata

Prima di questo, hai scritto tanti altri libri musicali, occupandoti di Beatles, Vinicio Capossela e di “storie di spazio, storie di spazi” più o meno musicali (Space is the place). Come sei giunto alle “Storie di ordinaria follia rock”?

Massimo Padalino

Mi intrigava l’idea di “cucire” un libro – focalizzato sulle vicende personali di una serie di artisti; alcuni semplicemente bizzarri, altri matti come cavalli – che funzionasse come una specie di atlante clinico, che raccoglie e classifica le “patologie” a seconda del tipo di disturbi, della loro intensità e gravità. Poi c’era un secondo livello, nei miei scopi: volevo, infatti, mettere in relazione – e quindi fissare i nessi logici e argomentativi più pertinenti all’uopo – la bizzarria-follia con l’uomo-artista che se la porta appresso e che qualche volta ne è schiacciato e qualche altra invece riesce a farsela amica. Nel fare tutto ciò, sono stato ben attento (almeno ci ho provato) a non cadere nel trappolone della Mitologia Rock, che di per sé avrebbe livellato ogni possibilità di raccontare la storia di questo o quell’idolo pop riconducendomi inevitabilmente verso una forma tanto fastidiosa quanto diffusa di fanatismo agiografico rockettaro (che avrebbe trasformato ogni personaggio trattato in un Santino Rock, o meglio ancora in una specie di Totem inscalfibile). Tu prova a gettare uno sguardo “obliquo” otre il recinto dell’Eroe del Rock, prova soltanto a proporre una narrazione alternativa al canone, e la nazione dei simpatici alfieri del “Rock Classico ed Eterno” lancerà infiniti anatemi su di te. È una storia che ho (parzialmente) vissuto già all’epoca dei miei due volumi sui Beatles (da taluni fan considerati come eretici). Beh, che dire: chi vuole scomunicarmi, una volta letto il mio nuovo libro, lo faccia pure; gli altri prendano il lavoro per quel che è: ossia un tentativo di raccontare il connubio Rock & Follia senza tutto lo strascico di vaccate romantiche e sentimentaloidi che, a quanto pare, fanno sempre molto felici i lettori “ottusangoli” di pop music/culture.

Francesco Nunziata

Com’è avvenuta la selezione degli artisti da trattare nel libro? C’è qualche dolorosa rinuncia che hai dovuto fare? A proposito: uno come Brian Wilson (la vera mente creativa dietro le canzoni dei Beach Boys) non avrebbe fatto al caso tuo?

Massimo Padalino

La selezione degli artisti – ne ho inclusi 27, in questo libro: da Nina Simone a Frank Zappa, da Captain Beefheart a David Bowie, da Madonna ai Rolling Stones, dai Gong ai Devo, da Nick Drake a Syd Barrett – risponde all’esigenza di individuare una “casistica base”, a suo modo archetipica, che mostri al lettore l’intero spettro di quella che chiamo “ordinaria follia”: ossia quella “cosa” che spazia dalla bizzarria sino al caso (quasi-)clinico. Faccio qui alcuni esempi: in queste pagine c’è James Brown che occupa il tassello dell’iracondo, Nico quello del mentitore seriale, Moondog quello dell’uomo che abbraccia la mitologia norrena in opposizione ai valori del presente, i Kraftwerk che sognano un mondo dove macchine e robot siano intercambiabili, Madonna che teme di lasciare nei camerini il suo dna e che qualche scienziato pazzo possa pertanto clonarla, Captain Beefheart che manipola la sua Magic Band con metodi quasi scientifici, Elvis Presley che c’ha le paranoie sulla gioventù hippie che distruggerà i valori della vera America, e così via dicendo. Veniamo, invece, a Brian Wilson dei Beach Boys: lui, così come altri nomi che potrebbero venirti in mente pensando al connubio musica/follia, vorrei giocarmelo come jolly in un secondo volume (se mai ci sarà) del mio libro, magari in tandem con la storia di quel matto di Charles Manson – cantautore-fallito, guru-fai-da-te e manipolatore eccelso – che come ben sa chi conosce la storia di fine Sixties, rivestì un ruolo nella vicenda dei Wilson Brothers.

Francesco Nunziata

Come sottolinei proprio all’inizio del libro, il topos dell’artista folle è uno dei più radicati in ambito letterario e saggistico. Ma, concretamente, che rapporto c’è tra Arte e Follia?

Massimo Padalino

C’è il rapporto chiamato (s)ragione, ossia quel tipo di tensione psicologica non ancora psichiatrica che ti fa vedere il mondo dalla prospettiva “sbagliata”, che spesso per un artista è anche l’unica giusta che c’è. Il folle, come spiega bene Foucault in uno dei suoi tomi di archeologia del sapere, è colui che sostituisce il lebbroso nei lebbrosari quando la malattia causata dal Mycobacteriun leprae scompare dall’orizzonte della cultura occidentale. Poi folli – nel corso dei secoli, nell’accezione di appestati-lebbrosi devoti alla Sragione, ovvero alla ragione all’incontrario – sono stati definiti tutti coloro che flirtavano con l’incongruo, con ciò che in termini di logica non combacia, non quaglia e soprattutto non conguaglia. A ragion veduta, si può ben dire che dentro ogni folle (che non è ovviamente da confondersi col caso psichiatrico tout court) c’è un artista in potenza, vale a dire un individuo che ha tutto in comune con l’artista tranne una cosa: il talento (e soprattutto la volontà di trasformarlo in progetto, cioè in opera d’arte). Quando al talento, il folle affianca anche un po’ di genio, ecco che germinano i Van Gogh, i Céline, i Rousseau il Doganiere, i Gaugin, i Rimbaud, i Ligabue, i Campana, i Borromini, i Tasso. E mi fermo qui, senza nemmeno citare un nome di musicista folle, o geniale, o follemente geniale (per questo c’è il mio libro!). Genio deriva dal latino genius: che equivale a progenitore, nume tutelare. Esso è dunque qualcosa che aleggia, che sta sopra di noi. Qualcosa che ci concerne intimamente ma che non possiamo controllare. In questo senso, c’aveva ragione quel tizio quando disse: “Il talento fa quel che vuole, il genio fa quel che può, del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”.

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Francesco Nunziata

Che cosa hai imparato scrivendo questo libro?

Massimo Padalino

Ho imparato che si può, ad esempio, iniziare la narrazione di un fatto dal suo climax, così come insegna ad esempio il Don Giovanni di Mozart/Da Ponte, che da il la alla famosa opera mettendo in scena nientemeno che un duello mortale, che a rigor di logica una dannata scuola di scrittura ti avrebbe fatto schiaffare a tre quarti dell’opera con annessa domanda all’ipotetico scrivente-scrittore: e adesso tiraci fuori la Posta in Palio di ‘sto racconto! Ecco, questa è una delle cose che ho imparato dal punto di vista della tecnica narrativa (un’altra, per dire, è stata il padroneggiare l’accumulazione/enumerazione di “fatti” fino alla parossistica esplosione/implosione del narrato nel grottesto o simil-tale). Poi ho imparato che, come spesso accade quando si scrive con un taglio meta-narrativo, è il soggetto stesso prescelto, o meglio la vicenda che hai deciso di raccontare, che ti fornisce il tono del pezzo e ne detta in qualche modo il ritmo. Sì, lo so: forse sarei apparso meno noioso se avessi risposto a questa domanda dicendo qualcosa tipo “Bowie mi ha insegnato questo, James Brown quello, Syd Barrett quest’altro”, invece sono solo un apprendista scrittore, con tutte le sue paturnie e fisse…

Francesco Nunziata

Quanta follia c’è nell’uomo Massimo Padalino?

Massimo Padalino

Ce n’è quanto basta. Se ce ne fosse meno di quanto basta sarei forse più felice come uomo ma assai più infelice (nel mio piccolo) come pensante-pensatore-depensatore svagato svagante.

Francesco Nunziata

Occupandomi di Captain Beefheart, altro genio al limite della follia patologica, ho avuto modo di consolidare un’idea che mi porto dietro da tempo, almeno da quando, adolescente smanioso di dire la sua in ambito rock, ho imbracciato per la prima volta uno strumento. L’idea è questa: spesso e volentieri, è proprio la rinuncia alle regole prestabilite che ci consente di fare un salto verso il regno dell’espressione artistica più libera e sincera. Ovviamente, tale rinuncia è quasi sempre bollata dal resto del mondo come qualcosa di totalmente e inutilmente “folle”. Se, come sostiene Stefano Solventi, nella postfazione al tuo libro, la follia è uno degli ingredienti fondamentali del rock (e io sono d’accordo con lui), allora bisogna dire che sono proprio quei dischi dove essa prende musicalmente forma a manifestare in modo più concreto l’essenza della musica che ci piace così tanto. E questo lo dico pensando anche al conformismo sempre più pervasivo che regna, ormai, nella scena musicale dei nostri giorni, dove a emergere e a essere considerate opere importanti/meritevoli/e-via-discorrendo sono, a conti fatti, sempre quelle che si mantengono nel recinto di un conformismo più o meno evidente. E quando appaiono trasgressive, magari lo sono sempre in un modo “ovvio”, cioè in un modo che l’Apparato dell’Industria dell’Intrattenimento ha già, in un certo senso, previsto e, proprio per questo, già disinnescato. Che ne pensi?

Massimo Padalino

Allora, la questione delle regole: che servano, non c’è dubbio, che limitino anche. Iniziamo con un ragionamento. Specie nell’arte, ma non solo, la regola è un viatico al (proprio) metodo; questo vale per qualunque regola e per qualunque metodo di qualunque arte: pittura, scultura, architettura ecc. Ma qui c’è l’inghippo: perché una volta acquisito il metodo occorre trasgredirlo, superarlo, reinventarlo. Che ne sarebbe stato di Donizetti se si fosse appiattito sul rossinismo? Che ne sarebbe stato di Rossini se si fosse appiattito su Mozart? Che ne sarebbe stato di Mozart se si fosse appiattito su Paisiello e Haydn? Che ne sarebbe stato, per uscire dall’ambito operistico, di un Pollock o di un Gorky o di un Tintoretto o di un Parmigianino o di uno dei Tiepolo se non avessero usato la regola e il metodo come trampolino di lancio per una loro visione personale del fare arte e quindi del mondo? Dopotutto, come ben tu sai, la tecnica è solo una parte del discorso artistico e nemmeno la più importante. Rousseau il Doganiere, per citarne uno a caso, ne sa qualcosa: non riusciva nemmeno a mettere gli oggetti e i personaggi dei suoi dipinti in prospettiva!, eppure fu da subito riconosciuto e acclamato come uno dei padri della pittura moderna. Detto questo, la follia (o un pizzico di essa) intesa come elemento estetico è essenziale in ogni opera d’arte che si rispetti: perché rappresenta il perturbante, ossia l’elemento che devia dalla norma e pone le basi per rifondare la regola (che poi altri rifonderanno a loro volta, dando il via a quel ciclo chiuso e continuo e cortocircuitante che è il dialogo – (im)possibile – fra gli artisti nell’arco dei secoli).

Francesco Nunziata

Una volta, ricordando il periodo in cui svolgeva l’attività di operatore psichiatrico, Giovanni Lindo Ferretti dei mitici CCCP disse che quell’esperienza lo aveva disintossicato dalla politica. A me, invece, l’ascolto di artisti più o meno folli come Daniel Johnston, Moondog, Zoogz Rift, Syd Barrett e lo stesso Beefheart (giusto per elencarne alcuni) mi disintossica dalla banalità di una musica ormai sempre più “prodotto commerciale” e sempre meno “opera artistica”, proprio perché la “vera” trasgressione non è più di casa. Non credi che una sana dose di (ordinaria) follia aiuterebbe il rock a ritrovare la propria capacità destabilizzante, l’ardore dei bei, vecchi tempi?

Massimo Padalino

Oggi come oggi, il prodotto standardizzato è l’ultimo anello, il più banale e funzionale, nella catena ben oliata dell’intrattenimento industriale. Ovviamente, nello standardizzare il prodotto in serie, nella sua industrializzazione, andrebbe comunque lasciato un po’ di spazio a quello che poco sopra ho definito il perturbante. Il Bauhaus, per citare solo il caso della rinomata scuola di architettura-arte-design che operò a ridosso dei due conflitti mondiali, si pose il problema di come coniugare la produzione industriale con la qualità dell’artigiano, in modo tale da non creare un prodotto che fosse solo funzionale e poco costoso ma anche… bello, appagante, artistico persino. Ecco, tale tipologia di sanissima follia bauhausiana (nel senso di una devianza dalla norma estetica predominante), lei sì che potrebbe risollevare le sorti di una catena di montaggio industrial-musicale che ora come ora lascia poco spazio al perturbante, nella convinzione che “il pubblico vuole questo, diamogli dunque ciò che vuole”. In realtà, questa “catena dell’orrido” si potrebbe (se solo lo si volesse) facilmente spezzare: prendi un telespettatore rincoglionito medio di un reality show, e portalo a vedere a teatro delle opere di Goldoni. La prima sera, sbufferà. La seconda, riderà. La terza, apprezzerà. Si impara a capire e gustare il “prodotto-arte” soprattutto con la pratica e con l’uso (altrimenti non rimane che l’arrendersi all’equazione cortocircuitante: mi piace solo ciò che assomiglia a qualcosa che mi è piaciuto). Ciò vale altresì per la musica, e per i prodotti discografici. Varia la proposta, e troverai orecchie disposte a seguirti. A patto però che la variazione non sia un mero esercizio di stile, ma consista per l’appunto nell’inserimento di un quid estetico perturbante che farà impazzire la maionese canzone, operetta, sinfonia ecc. dando una bella sferzata al logos comune dell’ascoltatore (che se non stimolato adeguatamente si accontenta di repliche fedeli di qualcosa che gli è piaciuto). La follia è un virus, nell’arte. E va sfruttata come tale, perché il suo contagio fa bene e svecchia le norme arteriosclerotiche dello show/music-biz.

Francesco Nunziata

Devo dire che il tuo libro, in più di un’occasione, mi ha anche strappato grasse risate. Che valore ha l’ironia nella tua vita e nella tua scrittura?

Massimo Padalino

Qui va fatto un distinguo, che mi viene spontaneo perché spesso ho sentito gente, anche acculturata, e anche fra i critici musicali, che osanna il famoso british humor relegando l’ironia (inclusi i giochi di parole: orrrore!) al ruolo di una specie di sgorbio mal riuscito, o peggio ancora di aborto, nel facondo laboratorio immaginario del Motto di Spirito. Ebbene, gente, sappiatelo: Shakespeare fa giochi di parole, i libretti d’opera italiani ne fanno, e in entrambi regna somma l’ironia. Il british humor è un’astrazione intellettuale in forma di accenno, che appare criptico ma non lo è, a una situazione che appare normale, ma non lo è. Dunque, il british humor è azione pensata. L’ironia no. L’ironia è sempre azione agente/agita. Qui, ora. Vediamo di spiegarci. Tu, ad esempio, Francesco, sei campano, e ti appartiene una delle forme di ironia più efficaci e longeve del Bel Paese (ma ce ne sono anche altre, Goldoni docet). Prendiamo, per dire, in considerazione la prima opera completa che ci sia giunta in dialetto napoletano, Li zite ‘ngalera, 1722 se non erro, del compositore Leonardo Vinci; l’aria che da il la all’opera è “Vorria addeventare sorecillo”, dove chi canta non allude a un lato incongruo di una situazione apparentemente normale (questo è il british humor, questo è Monty Python) ma dice “se fossi sorecillo farei questo e quello”, ed è da questa sfilza di azioni che nasce la vis comica. British humor, astrazione. Ironia, azione. Ma troppo mi son dilungato in questa disquisizioncella. I giochi di parole meriterebbero un approfondimento a sé, ma li prenderemo in esame al prossimo libro che scriverò, okay? (Ho fatto dell’ironia? Ho fatto dello british humor? Ai postumi l’ardua sentenza). P.S.: Va da sé che ho qui inteso parlare dell’ironia nella sua versione più alta e nobile, e non nel senso di presa per i fondelli deformante atta a sminuire qualcuno o qualcosa, perché quest’ultimo tipo di ironia-low-cost non mi appartiene né mi interessa. Mi interessa invece quella cosa chiamata ironia che provoca uno slittamento/frana dei piani del reale, attraverso la parola, fino a suscitare il comico.

Francesco Nunziata

Quali sono i dischi più folli che hai ascoltato in vita tua?

Massimo Padalino

Potrei risponderti sciorinando una sfilza di “classici” a 33 giri che noi cultori della materia ben conosciamo. Tipo il nome di un jazzista free o di una band grind o di un gruppo di hippie svitati che mischiano i generi. E in effetti, la band che ti citerò appartiene proprio a quest’ultima categoria: gli hippie svitati. Si tratta, infatti, dei Butthole Surfers, che ebbi il traumatizzante onore di ascoltare quando avevo suppergiù 16 o 17 anni e all’inizio non riuscii nemmeno a capire se il vinile che girava sul piatto (che per la cronaca era Psychic… Powerless… Another Man’s Sac del 1984) stava girando ai giri giusti o era l’impianto stereo che stava andando a farsi fottere. Per mia fortuna era la musica dei texani a essere bislacca, perché poco ci mancò che buttassi fra i rottami lo stereo che invece funzionava benissimo. Maledetti Surfisti Anali, quasi me l’avevate fatta eh?

Francesco Nunziata

Nel 2017 hai pubblicato anche un romanzo, Il gioco, segnalato al Premio Internazionale Mario Luzi. Non ho ancora avuto modo di leggerlo. Di cosa parla? Dammi un buon motivo per correre ad acquistarlo.

Massimo Padalino

Il buon motivo è che non c’è un buon motivo. Quel romanzo, nato come un puro divertissement, è solo all’apparenza una black comedy ambientata in una immaginaria zona di veneto. In realtà rappresenta il mio (primo) tentativo di agganciare/sovrapporre il piano narrativo e quello filosofico attraverso una vicenda dove ogni personaggio, come nella commedia dell’arte o negli spettacoli dei pupi, è all’inizio solo una maschera che pian piano acquisisce sostanza psicologia. Ed è da qui che nasce il contrasto fra l’apparente fatalismo di questa storia (che in realtà include più storie: quella di una nipote e una zia serial killer, quella di una maga di provincia, quella di un operaio filosofo, quella di un meccanico razzista e del suo cane sgorbio, quella di una rapina dai risvolti imprevisti ecc.) e la volontà di sfuggirlo. I personaggi del libro sono tutti tipi a loro modo folli, di una follia gratuita e spontanea, senza sovrastrutture, eppure le loro azioni, spesso grottesche, conducono ad un epilogo della storia dove più quesiti morali, a loro modo serissimi vengono al pettine (tipo: che posto occupa l’uomo fra le creature della terra? È possibile essere al contempo cretini e intelligenti? Che cosa distingue il verosimile dall’inverosimile? Etc.

Francesco Nunziata

Quali sono gli scrittori di musica che più hanno influenzato il tuo stile?

Massimo Padalino

Nessuno. Intendiamoci, amo molto Eddy Cilia perché intravedo il suo potenziale narrativo, mi piacciono anche quei critici che fanno pura critica d’arte, secca e senza fronzoli, come te. All’inizio, comunque, anche io, come molti aspiranti critici, fui scaruffiano nei modi e negli intenti. Ma più per necessità che per altro. E comunque, w Piero (che a me sta simpatico).

Di libri che parlano di musica & dintorni ne avrai letti sicuramente tantissimi. Quali sono, però, quelli che consiglieresti senza riserve a chi la musica non vuole solo ascoltarla, ma anche leggerla?

Nick Tosches, la biografia di Jerry-Lee Lewis, Hellfire. È un modo molto interessante, quello dello scrittore/critico statunitense, di coniugare l’epos della storia di un mitico rock hero con i tipici contenuti di un saggio critico. Molto interessante e, a mio modo di vedere, molto ben riuscito.

Francesco Nunziata

Mi sbaglio o negli ultimi tempi ti stai occupando sempre meno di critica musicale? Stai dedicando tempo ad altre cose, oppure hai perso fiducia nel ruolo del critico, da molti ritenuto praticamente superfluo nell’era del download selvaggio e dei social-media?

Massimo Padalino

Mi piacerebbe scrivere più cose nell’ambito della narrativa. Il problema è però che io non voglio scrivere romanzi come quelli che vanno oggi per la maggiore. Il 90% e fischia di questo tipo di prodotti editoriali è per l’appunto un prodotto. Nei casi più geniali (non molti, in verità) si tratta di racconti plasmati attraverso le regole di ben codificati generi letterari (giallo, sentimentale, horror ecc.) che ne variano il canone. Il resto è fuffa, scritta bene ma prevedibile sin dalla prima riga. Invece il romanziere non deve solo preoccuparsi di come scrive una storia, ma di come strutturare una storia che sia la sua storia. Insomma, c’è molta letteratura puttanesca in giro. E non è sempre colpa degli scrittori. È che bisogna vendere il vendibile, e quindi giù coi thriller e coi detective (ma chi cazzo ne ha mai visto uno in natura? Dove vivono? Rintanati in un bunker sotto la procura?) e coi fantasy smancerosi e coi drammi adolescenzial-lussuriosi e coi tre metri sopra il cielo e i cinque sotto terra e coi lucchetti e le sfumature daltoniche di grigio-rosa e colle nonne e l’orfanelle e l’amiche onniscienti e i barnaba delle montagne che vivono allo stato brado assieme alle vacche podoliche/podaliche e camminano pei sentieri infrascati e leggono il futuro nelle venuzze delle foglie morte; e poi giù di: ragazzetti bullizzati, poveri migranti imbaracconati e schiavizzati, giù di mamme-bambine col marito stronzo, giù di storie di stimati professionisti che fanno pe’ campa’ i designer e gli architetti e gli scrittori di best-seller ma sono tali e quali e noi e pensano come noi e mangiano come noi e cacano persino come noi e alla fine comprano romanzi di merda proprio come… voi (sì, perché io qualche buazza di vacca letteraria me la scanso pure, con buona pace dell’Heidi/lettore, delle Caprette/romanzo che fanno ciao e di Peter il fido pastor-editore che iddio lo ammazzasse mò).

Francesco Nunziata

Queste, invece, sono tre domande che ho chiesto di formulare a Stefano Solventi.

Il tuo libro fa parte a mio avviso di un filone sempre più vivo nell’editoria musicale contemporanea, quello cioè che seppure in modi diversi (tra fiction e non-fiction) propone storie e Storia del rock. Lo stesso che accade nel cinema e nelle serie TV: sembra quasi che il rock oggi sia in grado di suscitare più interesse per ciò che può raccontarci rispetto all’ascolto del rock stesso. Sei d’accordo? E, nel caso, cosa può significare?

Massimo Padalino

Il rock è mito. È mito d’oggi in senso rolandbarthesiano. Ed è anche mito omerico. Ma è soprattutto mito som(m)arico: nel senso che sommarizza per i somari moderni un manualetto bell’e pronto di comportamenti (oramai) stereotipati che manco un maggiordomo a Buckingham Palace o un tronista ad Amici. La cosa brutta, anzi dal mio punto di vista orrenda proprio, è che il bello del Rock “sarebbe” la musica in sé e per sé: che non è o non dovrebbe essere il contorno/sottofondo di una immaginaria telenovela mentale a base di sesso, doga e rock’n’roll, così come molti cineasti, scrittorastri e giornalistrasti di oggi ce la raccontano. Per dire: il film su Freddie e i Queen è bello; ma sarebbe stato ancora più bello se lui fosse stato un anti-eroe shakespeariano e non solo la controfigura pixellosa-zompettante e castoresca a petto ignudo del mito che fu. È nata una stella, dal canto suo, ci ha quasi preso: perché una stella nacque, in una stalla, duemila anni fa, mentre una stella ci passava sopra; tutto questo per dire che il mito rockandrollaro cinematografico/televisivo/romanzesco di oggi è tanto più trasgressivo sullo schermo in quanto si è depotenziato nella realtà. Prima chi cantava e aspirava a diventare una rockstar, ne viveva a suon di eccessi lo status. Oggi i ragazzetti già sognano l’eccesso/accesso dello/allo status prima ancora di esserci status. Insomma, come dicono a Napule: quel che status è status, scurdammece u passat, simme rockkerollestarr paisà.

Francesco Nunziata

Vorrei chiederti se esiste oggi un autentico folle del rock, ma allargherei la questione: è ancora possibile oggi essere dei folli del rock?

Massimo Padalino

Le risposte sono due, opposte ed entrambe (im)possibili. La prima è: No, oggi non ci sono autentiche rockstar, perché la follia (vera) incepperebbe la macchina del business discografico. La seconda è: Sì, esse esistono e sono qui fra noi, perché la follia (simulata) in stile rockstar è sempre più ad usum pubblicorum pagantorum et botteghinorum. Il pubblico, oggi come sempre, adora i “falsi veri pazzi”. Più falso vero pazzo sei, più pazzi di te saranno loro, il pubblico. Il miglior modo di disfarsi di qualcosa (tipo la follia) è fingere che ci sia. Così parlo Padalinthustra, figlio di Beefheart, nipote di Moondog, vicino della Berta, professione lavandara.

Francesco Nunziata

Mi piacerebbe rivolgermi al Padalino narratore e ipotizzare: tra i folli di cui hai parlato in Storie di ordinaria follia rock, quale o quali si presterebbero a essere i protagonisti di un romanzo, magari scritto da te?

Massimo Padalino

Sarebbe bello scrivere un romanzo su Syd Barrett dove le sue vicende storiche facessero da sfondo ai sogni e ai viaggi mentali del ragazzetto, e non il contrario. Sarebbe un romanzo breve, e Syd sarebbe solo Syd, senza nessun Barrett. Perché c’è un momento nella giovinezza in cui ognuno di noi ha un Syd dentro di sé, che chiede di venire fuori. Alcuni lo lasciano uscire. Altri lo accoppano appena mette la testa fuori dal buco. Altri lo spingono a calci in culo alternativamente fuori e dentro il buco. Altri ancora lo guardano per un attimo negli occhi e poi lo ricacciano nell’oltretomba del buco forever and ever. Ecco, è per loro che scriverei questo romanzo. Titolo: El Psycho-Syd Campeador. Olè.

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